di Omar Franini, Antonio Orrico, Lorenzo Sartor e Arturo Garavaglia
NC-302
17.05.2025
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 78ª edizione del Festival di Cannes. Per questo primo appuntamento ci concentreremo sui primi lungometraggi presentati nelle varie sezioni del festival, tra cui quattro film che ci hanno entusiasmato dalla competizione, come l’ipnotico Sirat di Oliver Laxe, il poliziesco Dossier 137 di Dominik Moll, il dramma storico Two Prosecutors di Sergei Loznitsa ed infine Sound of Falling di Mascha Schilinski, film che si candida ad essere uno dei grandi favoriti per la vittoria della Palma d'Oro. Vi racconteremo anche dei film d’apertura delle sezioni secondarie, tra cui il coming of age Enzo di Robin Campillo (Quinzaine des cinéastes), Promis le ciel di Erige Sehiri (Un Certain Regard) e L’Aventura di Sophie Letourner (ACID).
Sound of Falling, di Mascha Schilinski
Una sensazione melanconica permane l’intera durata di Sound of Falling, come se ci fosse un filo conduttore che collegasse le vicende di quattro giovani ragazze nel corso di un centinaio di anni in una casa di campagna tedesca. L’opera seconda di Mascha Schilinski non vuole totalmente essere un trattato storico o un'analisi della condizione della donna nel corso del Novecento (quello lo è in parte poiché non si può trascurare tale contesto), ma un flusso di coscienza, una raccolta di ricordi e un moto perpetuo di dolori, solitudine e traumi che accomunano quattro generazioni. Il tutto filtrato tramite un abile uso della soggettività delle giovani protagoniste e lo "sguardo" di una presenza, un’entità immaginaria, un suono o un “fantasma” che abita la dimora di campagna, un testimone che ci mostra le analogie tra le diverse storie. L’intreccio che lega ogni singolo personaggio può risultare difficoltoso da seguire per lo spettatore e Schilinski non svela mai apertamente queste connessioni, che si possono trovare solo tramite l’analisi dell’immagine cinematografica e il suono. Sound of Falling è un’opera magistrale, tra le più ambiziose degli ultimi anni, e pone Schilinski come una delle future grandi voci del panorama cinematografico europeo.
Sirat, di Oliver Laxe
Secondo la cultura musulmana, il Sirāt rappresenta un ponte che collega l’inferno e il paradiso, un sottile percorso che ogni persona/anima deve compiere per raggiungere la salvezza eterna. Partendo da questo concetto escatologico, Oliver Laxe porta a Cannes la sua nuova opera, Sirat, una delle visioni più ipnotiche ed intriganti viste negli ultimi anni. Al centro della storia ci sono Luis (un superbo Sergi López) che, accompagnato da suo figlio Esteban, sta cercando vanamente la figlia scomparsa da cinque mesi. L’ultima informazione che la ragazza aveva lasciato al padre era che si sarebbe recata ad un rave nel deserto del Marocco. Dopo non essere riusciti a trovarla, il duo padre/figlio decide di aggregarsi ad un gruppo di ragazzi per raggiungere un altro rave in un luogo non specificato. Laxe utilizza la tipica struttura del road movie per compiere un’analisi introspettiva su ciò che spinge un uomo a non perdere la speranza nonostante le condizioni avverse. Quello che segue è una visione tanto intossicante quanto contemplativa, accompagnata costantemente da una soundtrack EDM preponderante e da un’atmosfera psichedelica. Le deviazioni metaforiche e non nel corso del film possono sembrare ad un primo istante assurde e a tratti esilaranti, ma nascondono la visione pessimista e brutale di Laxe, un tratto che ha caratterizzato la recente filmografia del cineasta spagnolo. Sirat è un film sensazionale, un’esperienza sensoriale unica nel suo genere che trasporta lo spettatore in un mondo ostile, dove la speranza è l’ultima a morire.
Two Prosecutors, di Sergei Loznitsa
Dopo una lunga assenza dal mondo della “narrativa”, periodo nel quale Sergei Loznitsa si è focalizzato nell’analizzare alcuni dei periodi più bui della storia ucraina dirigendo svariati documentari, finalmente il prolifico cineasta ritorna in Competizione a Cannes con Two Prosecutors. Ambientato nel 1937, durante il periodo del Grande Terrore staliniano, il film segue la storia di Kornev (Aleksandr Kuznetsov), giovane pubblico ministero che, dopo aver ricevuto in segreto la lettera da parte di un detenuto in cerca di aiuto, decide di aiutarlo nonostante sia consapevole dei rischi della sua scelta. Two Prosecutors evidenzia la maestria tecnica di Loznitsa sin dal primo istante; la scelta del formato 4:3 e il modo in cui mette in risalto per lo più lo spazio negativo crea un fascinante contrasto, come se il regista volesse mostrare la presunta sensazione di sovranità del protagonista, quando in verità anch’esso si trova in questa velata prigionia per via dell’oppressione sistematica. Quello che segue è un fascinante ritratto della resilienza di un uomo che è pronto a mettere a repentaglio la propria carriera e vita per provare a portare un cambiamento. Anche se il film non raggiunge i picchi onirici e surreali della parte conclusiva di A Gentle Creature (2017), Two Prosecutors espone comunque una sorta di teatrino grottesco con personaggi picareschi che caratterizzano la vita di Kornev, con lo scopo di rafforzare la sua condizione isolata. Two Prosecutors è l’ennesimo grande film di finzione di Loznitsa, il proseguimento perfetto della sua poetica nell’esporre l’ oppressione del proprio Paese.
Dossier 137, di Dominik Moll
Sebbene il recente successo di La Nuit du 12, il cinema di Dominik Moll rimane comunque sottovalutato e spesso si dà per scontata l’operazione con la quale il cineasta francese decostruisce il thriller/poliziesco procedurale. Dossier 137, il suo nuovo film presentato in competizione al Festival di Cannes, parte da una premessa piuttosto semplice; Stephanie (una sempre eccellente Lea Drucker) lavora in un ufficio investigativo degli affari interni e sta cercando di ricostruire gli eventi che hanno portato all’aggressione di un giovane ragazzo da parte delle forze dell’ordine durante le proteste del 2019 dei Gilets jaunes. Ispirato da una storia vera, Moll coglie l’occasione per portare sullo schermo un complesso ritratto politico e morale che pone al centro la costante brutalità della polizia e come la legge tenda per lo più a difendere le sue atroci azioni. L’operazione di Moll non vuole giudicare o giustificare gli atti della Polizia, il suo sguardo è per lo più distante e filtrato da Stéphanie, la quale nonostante creda nel concetto di “giusto e sbagliato”, si renderà presto conto che ci sono sfumature più complesse che vanno oltre alla sua morale. Quello che colpisce di più è come la ricostruzione della verità avvenga tramite l’uso dell’immagine digitale e di device tecnologici; riprese con telefoni cellulari, camere di sorveglianza e software per la sicurezza in generale vengono posti al cento dell’investigazione, e, nonostante l’ovvietà di queste immagini, la “realtà” viene comunque distorta dalle politiche interne e dai cavilli della legge giuridica. Superbamente diretto e recitato, Dossier 137 conferma per l’ennesima volta il grande talento di un regista che ha costruito la propria carriera attorno al genere thriller/poliziesco.
Promis le ciel, di Erige Sehiri
Dopo aver presentato la sua opera prima nel 2021 alla Quinzaine, Erige Sehiri ritorna sulla Croisette con il suo nuovo film, Promis le ciel, dramma a sfondo sociale che ha aperto la sezione Un Certain Regard. Già con Under the Fig Tree, Sehiri aveva mostrato una buona mano nel gestire storie corali e nel trasmettere quel senso di “cameratismo”, e con Promis le ciel non è da meno; al centro della storia ci sono le vicende di tre donne subsahariane che stanno cercando di costruire un futuro stabile per la propria comunità nonostante le numerose discriminazioni a livello razziale subite da parte della popolazione tunisina. Se all’inizio colpisce l’abilità di Ehiri nel mostrare le similitudini e le diverse, se non opposte, personalità delle tre protagoniste, questo approccio “promettente” viene a decantare una volta che la cineasta decide di focalizzarsi solo su una delle protagoniste, Naney (la debuttante Déborah Naney), la più impulsiva delle tre, una scelta scontata che non permette di sfruttare il vero potenziale della storia. Basta pensare al personaggio di Jolie (interpretato sublimemente dall’attrice emergente di Disco Boy, Laëtitia Ky), giovane ventenne che sta studiando ingegneria per crearsi un futuro distante dalla comunità, oppure quello di Marie (Aïssa Maïga), il “capo” della “chiesa della perseveranza”, organizzazione religiosa che sostiene la comunità. Promis le ciel, nonostante emozioni e tenga lo spettatore interessato per l’intera visione, risente di una struttura didascalica e di una regia che fatica a trovare una forma che si addice alla narrativa (il cui uso dei trackshot diventa stucchevole dopo poco), elementi che rendono la visione piuttosto deludente.
A Pale View of Hills, di Ken Ishikawa
Adattato dall’omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro, A Pale View of Hills di Ken Ishikawa narra le vicende di Etsuko, una vedova che per anni ha nascosto alcune scomode verità alla figlia Niki che, ormai trentenne, vuole capire cosa sia successo alla madre e alla sorella prima della sua nascita e cosa le abbia spinte ad abbandonare la loro terra natia. Usando una doppia linea narrativa, la prima ambientata all'inizio degli anni ‘50 e la seconda negli anni ‘80, Ishikawa non riesce a ricreare la narrativa intricata dello scritto di Ishiguro, fallendo nel costruire il ponte tra le due parti, rendendo la visione del film piuttosto disgiunta. La ricostruzione della memoria del vissuto della madre risulta piuttosto famigliare con un susseguirsi di eventi poco approfonditi, come il contesto storico del secondo dopo guerra, il trauma della popolazione di Nagasaki a seguito del rilascio della bomba atomica e il rapporto tra Etsuko e il suo primo marito. La relazione centrale d’amicizia e sostegno reciproco tra Etsuko, la vicina di casa Sachiko e la figlia Keiko viene eccessivamente resa melodrammatica, togliendo di fatto l’ambiguità del testo di partenza. I pochi pregi di A Pale View of Hills si possono trovare nella ricostruzione storica nella sezione ambientata negli anni ‘50, ma questo non può salvare una narrazione laconica e a tratti tediosa.
Enzo, di Robin Campillo
A seguito della sua prematura scomparsa, Laurent Cantet non fu in grado di dirigere Enzo, coming of age con al centro un ragazzo di sedici anni che sta vivendo i tipici dubbi esistenziali di ogni adolescente, come capire la propria identità sessuale o ciò che vorrebbe fare o essere in futuro. Sebbene il giovane ragazzo viva in una famiglia borghese, Enzo (interpretato egregiamente dal debuttante Eloy Pohu) ha sempre rifiutato i privilegi della sua condizione, preferendo una vita più umile e rurale. A sostituire il compianto cineasta francese è stato Robin Campillo, il cui cinema presenta diverse similitudini con quello di Cantet, ma i due registi sono sempre stati concentrati ad esplorare diverse sfaccettature nei propri personaggi. Questo contrasto di visioni è ciò che rende Enzo un film più che riuscito e un’apertura degna del nome della Quinzaine. Mescolando abilmente la sensibilità del cinema sociale di Cantet, messa in mostra dai continui conflitti socio culturali tra il protagonista e chiunque gli stia attorno, con il tratto sentimentale e lussurioso di Campillo, risaltato dall’infatuazione del giovane ragazzo per un collega ucraino, Enzo è una visione empatica che pone lo spettatore nei panni del giovane protagonista.
La Mort n’exit pas, di Felix Dufour-Laperriere
Nella sequenza d’apertura del film d’animazione francese in tecnica tradizionale La Mort n’exit pas, una serie di statue raffiguranti sequenze di morte e amore riempiono il giardino di una villa dorata, che un gruppo di giovani si sta preparando ad assaltare per rapinare i preziosi beni in essa contenuti. Il fallimento del piano e la morte di tutti gli amici causeranno nella protagonista Helene (Zeneb Blanchett) un trauma, dando così inizio al suo viaggio nelle ombre di una selva all’apparenza senza uscita. Il tema principale esposto dal regista Felix Dufour-Laperriere (qui al suo quarto lungometraggio) riguarda la possibilità di superare i limiti imposti dalla carne, usando il mezzo del cinema come strumento per vincere la morte stessa. Come dice un’amica alla protagonista, “la vita è movimento”, e quindi l’immagine cinematografica, nel momento in cui ridà movimento al singolo corpo morto, può donare a quest’ultimo l'immortalità. Il complesso delle immagini create dal regista equivalgono così a quel giardino in cui le statue scolpiscono nel tempo tali eventi di crudeltà e sentimento, cristallizzando nello spazio filmico ciò che altrimenti andrebbe perduto. Lo stesso stile di disegno portato avanti dall’autore è pertanto iconografico, l’uso dei colori innaturale e i movimenti legnosi, come se i personaggi fossero statue che hanno preso vita grazie all’animazione. Nella storia scritta dallo stesso regista non c’è pertanto nessuna pretesa di linearità narrativa, ma solo l’intenzione di narrare uno stato interiore della protagonista e di creare un discorso sulla natura teorica del cinema. Ma laddove i personaggi non smettono mai di parlare dell’importanza del movimento e delle icone, non sembra che per l’animatore francese le sole immagini bastino a portare avanti tale discorso. In questa ricerca puramente estetica e mai linguistica, il regista abusa invece di metafore a prova di ambiguità, abbandona la discussione sul cinema come mezzo e trova maggiore interesse in una critica sociale casuale, in cui la tesi mette in secondo piano l’astrattezza dell’impianto onirico e importanti risvolti politici vengono tirati in ballo per venir poi dimenticati. Ne La Mort n’exit pas i messaggi rappresentano una presenza ingombrante, che distolgono il film dal suo centro, portandolo a girare su se stesso fino a svuotarsi di quanto sembrava suggerire all’inizio. Lo stesso arco riguardante il senso di colpa della protagonista viene risolto nei dialoghi, nell’esposizione, perdendo qualsiasi fiducia nel racconto per immagini a favore della didascalia, risultando così un'opera più di schemi che di concetti.
L’engloutie di Louise Hèrmon
Un isolato villaggio nelle Alpi, un rigido inverno, un'ambientazione storica. Per molti aspetti L'engloutie, esordio nel lungometraggio di finzione di Louise Hèmon, ricorda il Vermiglio di Maura Delpero. Per altri, sembra più richiamare, nelle atmosfere, nei personaggi e negli avvenimenti, spiragli del folk-horror europeo contemporaneo. Nonostante un'estetica accattivante, che si fonda su un utilizzo estremamente naturalistico delle luci e un sound design avvolgente, l'opera di Louise Hèmon sembra vagare sperduta alla ricerca di un'atmosfera fidandosi sin troppo dei sottotesti del suo racconto. Il risultato è un film sicuramente misterioso, interessante per la ricostruzione storica e per la messa in scena dei rapporti fra sessi e mondi culturali, ma che non prende mai una posizione chiara su ciò che viene messo in scena. Lo sguardo della regista, infatti, né partecipa dei destini dei suoi personaggi, né ha quel distacco critico che permette di cogliere al meglio il senso del racconto. Rimane dunque un film algido, con un rigoroso lavoro sull'immagine che si riflette anche nella scelta del formato - un 4:3 che opprime la protagonista negli ambienti ristretti del villaggio montano - ma che, purtroppo, non trova mai una piena sintonia con il racconto.
L'Aventura, di Sophie Letourner
Sophie Letourneur è uno dei nuovi nomi del cinema francese, consolidatosi soprattutto negli ultimi anni. La regista francese è ormai nota al pubblico internazionale per il suo stile che fonde umorismo, introspezione e un tocco di autoironia. Formatasi all'École Duperré e all'École Nationale Supérieure des Arts Décoratifs, Sophie Letourneur ha poi esordito nel mondo del cinema con cortometraggi sperimentali, tra cui La tête dans le vide (2004), Manue Bolonaise (2005) e il mediometraggio Roc & Canyon (2007), prima di affermarsi con lungometraggi come La Vie au ranch (2010), vincitore, quell’anno, del premio del cinema francese a Belfort, e soprattutto Énorme (2020), ad oggi il suo film più famoso. Quest'ultimo è stato premiato con il prestigioso Prix Jean Vigo per la sua originalità e indipendenza di spirito, narrando gli sconvolgimenti degli equilibri della vita di coppia attraverso una gravidanza. Dopo aver girato il film auto-biografico e ironico Voyages En Italie (2023), quest’anno è sbarcata al Festival di Cannes, nella sezione ACID, con L’Aventura, titolo che apre ufficialmente la sezione. Nel raccontare le disavventure della coppia francese formata da Jean-Philippe (Philippe Katerine) e Sophie (Sophie Letourneur), alle prese con un viaggio di vacanza in Sardegna insieme ai figli Claudine (Bérénice Vernet) e Raoul (Esteban Melero), la regista mette sé stessa in gioco in una commedia sicuramente auto-referenziale, ma anche molto divertente e nostalgica, che indaga le dinamiche di coppia attraverso una narrazione che mescola realtà e finzione, mantenendo il suo caratteristico tono leggero e riflessivo. Lo spettatore, così, è invitato a riflettere sulle relazioni umane che si creano all’interno di un microcosmo quale quello familiare, ma soprattutto con le paure e le aspettative relative al viaggio, simbolo delle sfide e delle scoperte che caratterizzano ogni relazione. Letourneur sceglie di interfacciarsi con questa sfida costruendo un paradosso a metà tra meta-cinema e anti-cinema, raccontando sé stessa che cerca di rivivere il mito de L’Avventura (1960) di Antonioni, rileggendolo dal punto di vista di una madre parigina nevrotica e insicura. Una scelta molto forte nei confronti della famiglia borghese, che non appare però mai stucchevole o osata, quanto piuttosto sovvertente il paradigma, del tutto maschile, del desiderio e dello smarrimento, a cui contribuisce anche lo scenario “selvaggio” della Sardegna. Un notevole intento tematico supportato, però, poco dalla tecnica, in quanto la regia adotta uno stile molto classico e a tratti dismesso e si concede, nel finale, una vena nostalgica che normalizza del tutto l’operazione.
di Omar Franini, Antonio Orrico, Lorenzo Sartor e Arturo Garavaglia
NC-302
17.05.2025
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 78ª edizione del Festival di Cannes. Per questo primo appuntamento ci concentreremo sui primi lungometraggi presentati nelle varie sezioni del festival, tra cui quattro film che ci hanno entusiasmato dalla competizione, come l’ipnotico Sirat di Oliver Laxe, il poliziesco Dossier 137 di Dominik Moll, il dramma storico Two Prosecutors di Sergei Loznitsa ed infine Sound of Falling di Mascha Schilinski, film che si candida ad essere uno dei grandi favoriti per la vittoria della Palma d'Oro. Vi racconteremo anche dei film d’apertura delle sezioni secondarie, tra cui il coming of age Enzo di Robin Campillo (Quinzaine des cinéastes), Promis le ciel di Erige Sehiri (Un Certain Regard) e L’Aventura di Sophie Letourner (ACID).
Sound of Falling, di Mascha Schilinski
Una sensazione melanconica permane l’intera durata di Sound of Falling, come se ci fosse un filo conduttore che collegasse le vicende di quattro giovani ragazze nel corso di un centinaio di anni in una casa di campagna tedesca. L’opera seconda di Mascha Schilinski non vuole totalmente essere un trattato storico o un'analisi della condizione della donna nel corso del Novecento (quello lo è in parte poiché non si può trascurare tale contesto), ma un flusso di coscienza, una raccolta di ricordi e un moto perpetuo di dolori, solitudine e traumi che accomunano quattro generazioni. Il tutto filtrato tramite un abile uso della soggettività delle giovani protagoniste e lo "sguardo" di una presenza, un’entità immaginaria, un suono o un “fantasma” che abita la dimora di campagna, un testimone che ci mostra le analogie tra le diverse storie. L’intreccio che lega ogni singolo personaggio può risultare difficoltoso da seguire per lo spettatore e Schilinski non svela mai apertamente queste connessioni, che si possono trovare solo tramite l’analisi dell’immagine cinematografica e il suono. Sound of Falling è un’opera magistrale, tra le più ambiziose degli ultimi anni, e pone Schilinski come una delle future grandi voci del panorama cinematografico europeo.
Sirat, di Oliver Laxe
Secondo la cultura musulmana, il Sirāt rappresenta un ponte che collega l’inferno e il paradiso, un sottile percorso che ogni persona/anima deve compiere per raggiungere la salvezza eterna. Partendo da questo concetto escatologico, Oliver Laxe porta a Cannes la sua nuova opera, Sirat, una delle visioni più ipnotiche ed intriganti viste negli ultimi anni. Al centro della storia ci sono Luis (un superbo Sergi López) che, accompagnato da suo figlio Esteban, sta cercando vanamente la figlia scomparsa da cinque mesi. L’ultima informazione che la ragazza aveva lasciato al padre era che si sarebbe recata ad un rave nel deserto del Marocco. Dopo non essere riusciti a trovarla, il duo padre/figlio decide di aggregarsi ad un gruppo di ragazzi per raggiungere un altro rave in un luogo non specificato. Laxe utilizza la tipica struttura del road movie per compiere un’analisi introspettiva su ciò che spinge un uomo a non perdere la speranza nonostante le condizioni avverse. Quello che segue è una visione tanto intossicante quanto contemplativa, accompagnata costantemente da una soundtrack EDM preponderante e da un’atmosfera psichedelica. Le deviazioni metaforiche e non nel corso del film possono sembrare ad un primo istante assurde e a tratti esilaranti, ma nascondono la visione pessimista e brutale di Laxe, un tratto che ha caratterizzato la recente filmografia del cineasta spagnolo. Sirat è un film sensazionale, un’esperienza sensoriale unica nel suo genere che trasporta lo spettatore in un mondo ostile, dove la speranza è l’ultima a morire.
Two Prosecutors, di Sergei Loznitsa
Dopo una lunga assenza dal mondo della “narrativa”, periodo nel quale Sergei Loznitsa si è focalizzato nell’analizzare alcuni dei periodi più bui della storia ucraina dirigendo svariati documentari, finalmente il prolifico cineasta ritorna in Competizione a Cannes con Two Prosecutors. Ambientato nel 1937, durante il periodo del Grande Terrore staliniano, il film segue la storia di Kornev (Aleksandr Kuznetsov), giovane pubblico ministero che, dopo aver ricevuto in segreto la lettera da parte di un detenuto in cerca di aiuto, decide di aiutarlo nonostante sia consapevole dei rischi della sua scelta. Two Prosecutors evidenzia la maestria tecnica di Loznitsa sin dal primo istante; la scelta del formato 4:3 e il modo in cui mette in risalto per lo più lo spazio negativo crea un fascinante contrasto, come se il regista volesse mostrare la presunta sensazione di sovranità del protagonista, quando in verità anch’esso si trova in questa velata prigionia per via dell’oppressione sistematica. Quello che segue è un fascinante ritratto della resilienza di un uomo che è pronto a mettere a repentaglio la propria carriera e vita per provare a portare un cambiamento. Anche se il film non raggiunge i picchi onirici e surreali della parte conclusiva di A Gentle Creature (2017), Two Prosecutors espone comunque una sorta di teatrino grottesco con personaggi picareschi che caratterizzano la vita di Kornev, con lo scopo di rafforzare la sua condizione isolata. Two Prosecutors è l’ennesimo grande film di finzione di Loznitsa, il proseguimento perfetto della sua poetica nell’esporre l’ oppressione del proprio Paese.
Dossier 137, di Dominik Moll
Sebbene il recente successo di La Nuit du 12, il cinema di Dominik Moll rimane comunque sottovalutato e spesso si dà per scontata l’operazione con la quale il cineasta francese decostruisce il thriller/poliziesco procedurale. Dossier 137, il suo nuovo film presentato in competizione al Festival di Cannes, parte da una premessa piuttosto semplice; Stephanie (una sempre eccellente Lea Drucker) lavora in un ufficio investigativo degli affari interni e sta cercando di ricostruire gli eventi che hanno portato all’aggressione di un giovane ragazzo da parte delle forze dell’ordine durante le proteste del 2019 dei Gilets jaunes. Ispirato da una storia vera, Moll coglie l’occasione per portare sullo schermo un complesso ritratto politico e morale che pone al centro la costante brutalità della polizia e come la legge tenda per lo più a difendere le sue atroci azioni. L’operazione di Moll non vuole giudicare o giustificare gli atti della Polizia, il suo sguardo è per lo più distante e filtrato da Stéphanie, la quale nonostante creda nel concetto di “giusto e sbagliato”, si renderà presto conto che ci sono sfumature più complesse che vanno oltre alla sua morale. Quello che colpisce di più è come la ricostruzione della verità avvenga tramite l’uso dell’immagine digitale e di device tecnologici; riprese con telefoni cellulari, camere di sorveglianza e software per la sicurezza in generale vengono posti al cento dell’investigazione, e, nonostante l’ovvietà di queste immagini, la “realtà” viene comunque distorta dalle politiche interne e dai cavilli della legge giuridica. Superbamente diretto e recitato, Dossier 137 conferma per l’ennesima volta il grande talento di un regista che ha costruito la propria carriera attorno al genere thriller/poliziesco.
Promis le ciel, di Erige Sehiri
Dopo aver presentato la sua opera prima nel 2021 alla Quinzaine, Erige Sehiri ritorna sulla Croisette con il suo nuovo film, Promis le ciel, dramma a sfondo sociale che ha aperto la sezione Un Certain Regard. Già con Under the Fig Tree, Sehiri aveva mostrato una buona mano nel gestire storie corali e nel trasmettere quel senso di “cameratismo”, e con Promis le ciel non è da meno; al centro della storia ci sono le vicende di tre donne subsahariane che stanno cercando di costruire un futuro stabile per la propria comunità nonostante le numerose discriminazioni a livello razziale subite da parte della popolazione tunisina. Se all’inizio colpisce l’abilità di Ehiri nel mostrare le similitudini e le diverse, se non opposte, personalità delle tre protagoniste, questo approccio “promettente” viene a decantare una volta che la cineasta decide di focalizzarsi solo su una delle protagoniste, Naney (la debuttante Déborah Naney), la più impulsiva delle tre, una scelta scontata che non permette di sfruttare il vero potenziale della storia. Basta pensare al personaggio di Jolie (interpretato sublimemente dall’attrice emergente di Disco Boy, Laëtitia Ky), giovane ventenne che sta studiando ingegneria per crearsi un futuro distante dalla comunità, oppure quello di Marie (Aïssa Maïga), il “capo” della “chiesa della perseveranza”, organizzazione religiosa che sostiene la comunità. Promis le ciel, nonostante emozioni e tenga lo spettatore interessato per l’intera visione, risente di una struttura didascalica e di una regia che fatica a trovare una forma che si addice alla narrativa (il cui uso dei trackshot diventa stucchevole dopo poco), elementi che rendono la visione piuttosto deludente.
A Pale View of Hills, di Ken Ishikawa
Adattato dall’omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro, A Pale View of Hills di Ken Ishikawa narra le vicende di Etsuko, una vedova che per anni ha nascosto alcune scomode verità alla figlia Niki che, ormai trentenne, vuole capire cosa sia successo alla madre e alla sorella prima della sua nascita e cosa le abbia spinte ad abbandonare la loro terra natia. Usando una doppia linea narrativa, la prima ambientata all'inizio degli anni ‘50 e la seconda negli anni ‘80, Ishikawa non riesce a ricreare la narrativa intricata dello scritto di Ishiguro, fallendo nel costruire il ponte tra le due parti, rendendo la visione del film piuttosto disgiunta. La ricostruzione della memoria del vissuto della madre risulta piuttosto famigliare con un susseguirsi di eventi poco approfonditi, come il contesto storico del secondo dopo guerra, il trauma della popolazione di Nagasaki a seguito del rilascio della bomba atomica e il rapporto tra Etsuko e il suo primo marito. La relazione centrale d’amicizia e sostegno reciproco tra Etsuko, la vicina di casa Sachiko e la figlia Keiko viene eccessivamente resa melodrammatica, togliendo di fatto l’ambiguità del testo di partenza. I pochi pregi di A Pale View of Hills si possono trovare nella ricostruzione storica nella sezione ambientata negli anni ‘50, ma questo non può salvare una narrazione laconica e a tratti tediosa.
Enzo, di Robin Campillo
A seguito della sua prematura scomparsa, Laurent Cantet non fu in grado di dirigere Enzo, coming of age con al centro un ragazzo di sedici anni che sta vivendo i tipici dubbi esistenziali di ogni adolescente, come capire la propria identità sessuale o ciò che vorrebbe fare o essere in futuro. Sebbene il giovane ragazzo viva in una famiglia borghese, Enzo (interpretato egregiamente dal debuttante Eloy Pohu) ha sempre rifiutato i privilegi della sua condizione, preferendo una vita più umile e rurale. A sostituire il compianto cineasta francese è stato Robin Campillo, il cui cinema presenta diverse similitudini con quello di Cantet, ma i due registi sono sempre stati concentrati ad esplorare diverse sfaccettature nei propri personaggi. Questo contrasto di visioni è ciò che rende Enzo un film più che riuscito e un’apertura degna del nome della Quinzaine. Mescolando abilmente la sensibilità del cinema sociale di Cantet, messa in mostra dai continui conflitti socio culturali tra il protagonista e chiunque gli stia attorno, con il tratto sentimentale e lussurioso di Campillo, risaltato dall’infatuazione del giovane ragazzo per un collega ucraino, Enzo è una visione empatica che pone lo spettatore nei panni del giovane protagonista.
La Mort n’exit pas, di Felix Dufour-Laperriere
Nella sequenza d’apertura del film d’animazione francese in tecnica tradizionale La Mort n’exit pas, una serie di statue raffiguranti sequenze di morte e amore riempiono il giardino di una villa dorata, che un gruppo di giovani si sta preparando ad assaltare per rapinare i preziosi beni in essa contenuti. Il fallimento del piano e la morte di tutti gli amici causeranno nella protagonista Helene (Zeneb Blanchett) un trauma, dando così inizio al suo viaggio nelle ombre di una selva all’apparenza senza uscita. Il tema principale esposto dal regista Felix Dufour-Laperriere (qui al suo quarto lungometraggio) riguarda la possibilità di superare i limiti imposti dalla carne, usando il mezzo del cinema come strumento per vincere la morte stessa. Come dice un’amica alla protagonista, “la vita è movimento”, e quindi l’immagine cinematografica, nel momento in cui ridà movimento al singolo corpo morto, può donare a quest’ultimo l'immortalità. Il complesso delle immagini create dal regista equivalgono così a quel giardino in cui le statue scolpiscono nel tempo tali eventi di crudeltà e sentimento, cristallizzando nello spazio filmico ciò che altrimenti andrebbe perduto. Lo stesso stile di disegno portato avanti dall’autore è pertanto iconografico, l’uso dei colori innaturale e i movimenti legnosi, come se i personaggi fossero statue che hanno preso vita grazie all’animazione. Nella storia scritta dallo stesso regista non c’è pertanto nessuna pretesa di linearità narrativa, ma solo l’intenzione di narrare uno stato interiore della protagonista e di creare un discorso sulla natura teorica del cinema. Ma laddove i personaggi non smettono mai di parlare dell’importanza del movimento e delle icone, non sembra che per l’animatore francese le sole immagini bastino a portare avanti tale discorso. In questa ricerca puramente estetica e mai linguistica, il regista abusa invece di metafore a prova di ambiguità, abbandona la discussione sul cinema come mezzo e trova maggiore interesse in una critica sociale casuale, in cui la tesi mette in secondo piano l’astrattezza dell’impianto onirico e importanti risvolti politici vengono tirati in ballo per venir poi dimenticati. Ne La Mort n’exit pas i messaggi rappresentano una presenza ingombrante, che distolgono il film dal suo centro, portandolo a girare su se stesso fino a svuotarsi di quanto sembrava suggerire all’inizio. Lo stesso arco riguardante il senso di colpa della protagonista viene risolto nei dialoghi, nell’esposizione, perdendo qualsiasi fiducia nel racconto per immagini a favore della didascalia, risultando così un'opera più di schemi che di concetti.
L’engloutie di Louise Hèrmon
Un isolato villaggio nelle Alpi, un rigido inverno, un'ambientazione storica. Per molti aspetti L'engloutie, esordio nel lungometraggio di finzione di Louise Hèmon, ricorda il Vermiglio di Maura Delpero. Per altri, sembra più richiamare, nelle atmosfere, nei personaggi e negli avvenimenti, spiragli del folk-horror europeo contemporaneo. Nonostante un'estetica accattivante, che si fonda su un utilizzo estremamente naturalistico delle luci e un sound design avvolgente, l'opera di Louise Hèmon sembra vagare sperduta alla ricerca di un'atmosfera fidandosi sin troppo dei sottotesti del suo racconto. Il risultato è un film sicuramente misterioso, interessante per la ricostruzione storica e per la messa in scena dei rapporti fra sessi e mondi culturali, ma che non prende mai una posizione chiara su ciò che viene messo in scena. Lo sguardo della regista, infatti, né partecipa dei destini dei suoi personaggi, né ha quel distacco critico che permette di cogliere al meglio il senso del racconto. Rimane dunque un film algido, con un rigoroso lavoro sull'immagine che si riflette anche nella scelta del formato - un 4:3 che opprime la protagonista negli ambienti ristretti del villaggio montano - ma che, purtroppo, non trova mai una piena sintonia con il racconto.
L'Aventura, di Sophie Letourner
Sophie Letourneur è uno dei nuovi nomi del cinema francese, consolidatosi soprattutto negli ultimi anni. La regista francese è ormai nota al pubblico internazionale per il suo stile che fonde umorismo, introspezione e un tocco di autoironia. Formatasi all'École Duperré e all'École Nationale Supérieure des Arts Décoratifs, Sophie Letourneur ha poi esordito nel mondo del cinema con cortometraggi sperimentali, tra cui La tête dans le vide (2004), Manue Bolonaise (2005) e il mediometraggio Roc & Canyon (2007), prima di affermarsi con lungometraggi come La Vie au ranch (2010), vincitore, quell’anno, del premio del cinema francese a Belfort, e soprattutto Énorme (2020), ad oggi il suo film più famoso. Quest'ultimo è stato premiato con il prestigioso Prix Jean Vigo per la sua originalità e indipendenza di spirito, narrando gli sconvolgimenti degli equilibri della vita di coppia attraverso una gravidanza. Dopo aver girato il film auto-biografico e ironico Voyages En Italie (2023), quest’anno è sbarcata al Festival di Cannes, nella sezione ACID, con L’Aventura, titolo che apre ufficialmente la sezione. Nel raccontare le disavventure della coppia francese formata da Jean-Philippe (Philippe Katerine) e Sophie (Sophie Letourneur), alle prese con un viaggio di vacanza in Sardegna insieme ai figli Claudine (Bérénice Vernet) e Raoul (Esteban Melero), la regista mette sé stessa in gioco in una commedia sicuramente auto-referenziale, ma anche molto divertente e nostalgica, che indaga le dinamiche di coppia attraverso una narrazione che mescola realtà e finzione, mantenendo il suo caratteristico tono leggero e riflessivo. Lo spettatore, così, è invitato a riflettere sulle relazioni umane che si creano all’interno di un microcosmo quale quello familiare, ma soprattutto con le paure e le aspettative relative al viaggio, simbolo delle sfide e delle scoperte che caratterizzano ogni relazione. Letourneur sceglie di interfacciarsi con questa sfida costruendo un paradosso a metà tra meta-cinema e anti-cinema, raccontando sé stessa che cerca di rivivere il mito de L’Avventura (1960) di Antonioni, rileggendolo dal punto di vista di una madre parigina nevrotica e insicura. Una scelta molto forte nei confronti della famiglia borghese, che non appare però mai stucchevole o osata, quanto piuttosto sovvertente il paradigma, del tutto maschile, del desiderio e dello smarrimento, a cui contribuisce anche lo scenario “selvaggio” della Sardegna. Un notevole intento tematico supportato, però, poco dalla tecnica, in quanto la regia adotta uno stile molto classico e a tratti dismesso e si concede, nel finale, una vena nostalgica che normalizza del tutto l’operazione.