La rappresentazione della donna nel cinema
italiano tra sfide storiche e urgenze attuali,
di Davide Merola
TR-91
13.01.2024
L’opera di Paola Cortellesi (C’è ancora domani) ha superato i 30 milioni di euro d’incasso: è il quinto film più visto di sempre nella storia del cinema italiano. Si è già detto molto sui motivi del successo che hanno portato il lungometraggio sul podio delle pellicole più viste in Italia durante l’anno appena trascorso, superando persino Barbie e Oppenheimer. Sicuramente tra le motivazioni del trionfo di C’è ancora domani va rintracciato un sentimento di fondo che riempie la pancia del nostro Paese (che in realtà c’è sempre stato e sempre si è fatto sentire forte e chiaro) e che mai come negli ultimi mesi ha raccolto una partecipazione così popolare e collettiva: la lotta al sistema patriarcale e alla cultura dello stupro che prevarica sulle donne non solo in Italia, ma qui più che altrove, dove ad oggi si contano più di 100 femminicidi solo nel 2023. È una lotta alimentata non solo da questi eventi, ma anche dai fatti di cronaca dell’estate scorsa come gli stupri di gruppo di Palermo e Caivano, così come dalle narrazioni giornalistiche. E questa lotta per le responsabilità si fa giustamente feroce.
Anche C’è ancora domani è uno spazio “inusuale” – per modo di dire – in cui è passato un messaggio di lotta per un cambiamento (tant’è che la canzone di Daniele Silvestri alla fine del film recita «canto anche a bocca chiusa»), un messaggio che Paola Cortellesi inserisce nel contesto storico raccontato nel film – lontano dalle nuovissime generazioni – per far confrontare il Paese con un passato che in tante occasioni romanticizza e ha romanticizzato e che per una volta ci viene mostrato come “quando si stava peggio”, si stava peggio e basta (decostruendo tra l’altro il genere della commedia all’italiana). Il messaggio di C’è ancora domani ha avuto un eco talmente forte che è andato ben oltre il bianco e nero del film, le citazioni neorealiste e l’ambientazione degli anni ’40, risuonando in un tessuto sociale del presente che è tutt’ora in tumulto. Si potrebbe dire che il lavoro della Cortellesi ha avuto una fortuna “grottesca” e che nei fatti di cronaca degli ultimi mesi abbia trovato il “cattivo miracolo” - per citare Nope (2022) di Jordan Peele - che ha smosso non solo le persone nei cinema, ma anche nelle piazze.
Questo non significa che non vi sia stata una “narrazione femminista” (anche se è riduttivo definirla così) nell’immaginario del nostro Paese prima del film di Paola Cortellesi: è un tipo di cinema infatti già rintracciabile in parallelo con gli anni di piombo, i movimenti politici dal ’68 in poi e la commedia all’italiana. Titoli che hanno fatto scuola e di cui C’è ancora domani ha incorporato ed ereditato la lezione. In questa disamina metteremo un attimo da parte il film di Cortellesi per vedere come appunto questo concetto di “narrazione femminista” fosse già emerso in vesti peculiari.
Il primo titolo in questione è Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, un film sul potere e il male (e, come vedremo, di conseguenza anche sul Nazismo) che imbastisce la sua narrazione di un rapporto con toni perversi e al limite dell’erotico: un ufficiale nazista lavora come portiere di notte in un albergo di Vienna. Quando in questo hotel incontra un’ex deportata ebrea, riemerge l’orrore. Il solo fatto che a metà degli anni ’70 sia stato prodotto un film con un incipit del genere è strabiliante, come lo è il fatto che la sua fama sia sopravvissuta al vaglio di questa era moderna del cinema, nonostante sia notoriamente riconosciuto come una pellicola forte (“non per tutti” come si usa dire). Più che entrare nei termini della romanticizzazione del male o peggio dell’Olocausto – che è la critica più grande che viene fatta al film sin dai tempi della sua uscita – il tentativo qui è quello di rileggere la pellicola “al presente”: traslare Il portiere di notte ai giorni nostri tenendo soprattutto conto del contesto sociale sopracitato, proprio per quanto riguarda i temi della cultura dello stupro e del possesso.
Il portiere di notte venne molto criticato dalle femministe dell’epoca per un motivo chiaro: Lucia, la protagonista, si discosta dall'immagine tradizionale della donna vittima, che è spesso dipinta come innocente, ingenua e pura; la sua caratterizzazione non segue gli stereotipi convenzionali associati alle figure femminili nelle narrazioni di questo genere, presentandola in modo più complesso e realistico. È lei che induce l’uomo a compiere delle azioni e la sola idea che Lucia provi piacere nell’essere abusata fa di lei una donna colpevole. Quello che forse non fu capito immediatamente era il fatto che il personaggio di Charlotte Rampling si stesse appropriando dell’immaginario tossico maschile per distruggerlo dall’interno, non importa a quale costo.
Il lungometraggio indaga su questi aspetti anche in maniera feticista, ma resta una visione umana e per questo complessa anche da comprendere. La stessa Liliana Cavani disse che Il portiere di notte non è un film sul sadomasochismo, ma più che altro una riflessione sul potere quando viene confuso per amore: non c’è una sola vittima come non c’è un solo abusatore. La morale è che il mondo descritto nell'opera è privo di ogni bene ed è invece influenzato in ogni suo aspetto dal male che permea i rapporti e le persone, pronte ad esercitarlo ogni volta che saranno in possesso del potere necessario.
Liliana Cavani non problematizza questo rapporto, ma lo fa sbocciare davanti allo spettatore proprio come il male puro che venne fuori – appunto – attraverso il Nazismo, con un collegamento che si rivela quindi molto funzionale per descrivere le dinamiche di abuso e potere presenti nel film. Anche se si parla di generiche “persone”, in realtà a perpetrare queste dinamiche sono esclusivamente gli uomini (i nazisti nel film), che in particolar modo ne Il portiere di notte mettono in scena una fantasia infallibile e perfetta pur di inventarsi un presente in cui non vi sia l’influenza del loro passato.
Vi suona familiare? Potreste rendervi conto che non è tanto diverso da come gli uomini oggi reagiscono di fronte alle accuse che gli vengono rivolte quando gli si fanno notare le dinamiche patriarcali a cui (in maniera volontaria o meno) prendono parte: il “not all men” è il corrispettivo della vita che gli uomini nel film della Cavani tentano di costruirsi. Lungi dal paragonare questi uomini a dei nazisti, ma entrambe sono categorie che considerano la donna inferiore e assoggettabile ad una subordinazione fisica e psicologica. Il “not all men” del film (quanto quello della realtà) è una menzogna che la regista smaschera molto bene tramite il rapporto di Max e Lucia, gli unici che paradossalmente prendono coscienza proprio di questo fatto e si sfogano con urla liberatorie.
Il ribaltamento del rapporto che si dipinge ne Il portiere di notte (in cui la donna si infiltra nell’immaginario maschile) ricorda le modalità attuate da molti in questi casi: occhio per occhio e gogne mediatiche per riappropriarsi del potere. Che sia lecito, giusto o sbagliato, sta allo spettatore, al pubblico e alla piazza deciderlo. La scelta di Liliana Cavani resta invece di una complessità intellettuale importante, che dagli anni ’70 viaggia fino ai giorni nostri non solo per essere riletta come fatto alla luce degli ultimi avvenimenti, ma anche per combattere pellicole scritte e dirette da uomini che affrontano il tema appropriandosi di concetti femministi e dimostrando come poco gli appartengano: il cinema mainstream dei supereroi spesso si ingarbuglia su queste tematiche tirando fuori morali retoriche e ingenue che fanno più male che bene, ma anche figure affermate come il regista e sceneggiatore Alex Garland nel suo ultimo film Men (2022) è caduto nel tranello di voler spiegare il femminismo ancora una volta tramite traumi irrisolti, come se volesse semplicemente pulirsi la coscienza.
Notiamo come è un rischio più del cinema contemporaneo, quindi. Si riconosce poco “mansplaining” nel cinema di quegli anni, dei primi movimenti femministi e de Il portiere di notte (1974). Infatti, a ridosso dell’esplosione della rivoluzione femminista (1968) fu proprio un uomo – il maestro Mario Monicelli – a tracciare una figura modernissima che si scagliava contro la società maschilista nel film La ragazza con la pistola, con Monica Vitti: la storia è quella di Assunta Patanè, una donna sedotta e abbandonata da Vincenzo Macaluso (Carlo Giuffrè). Dopo essere stata “posseduta” e quindi disonorata da lui, viene ripudiata dalla famiglia. Determinata a riconquistare la dignità persa, Assunta decide di cercare Vincenzo in Inghilterra, dove si è rifugiato dopo essersi sottratto al matrimonio riparatore.
Assunta è una “maschilista”, nel senso che è una donna che aderisce inconsciamente al maschilismo perché non ha conosciuto altro nella sua vita. Nel momento in cui però impugna la pistola del titolo, Assunta abbandona ogni compromesso accettato fino a quel momento con un occhio al futuro della restaurazione femminista. Ciò avviene all’interno della commedia all’italiana, dove il contesto è buffo e i personaggi improbabili (e implausibili), ma proprio per questo è sorprendente il ritratto di questo personaggio femminile così forte da essere protagonista e autrice della sua stessa narrazione. Tiene l’arma in mano così come Lucia Atherton si appropriava dell’immaginario maschile (e maschilista) incarnato dall’ex ufficiale nazista.
Quando arriva a Londra, Assunta si scontra con la società anglosassone che mette in mostra tutta al sua arretratezza e non concepisce la logica dietro i suoi gesti e le sue volontà. Lontana dalla sua terra, la donna conosce per la prima volta una realtà diversa e dei punti di vista a lei sconosciuti fino a quel viaggio. Assunta diventa così indipendente dando un taglio netto al suo passato, ma non prima di avere la possibilità di ripagare Vincenzo con la sua stessa moneta. Quello de La ragazza con la pistola - e di altri film con Monica Vitti come Dramma della gelosia (1970) o Amore mio aiutami (1969) - è un femminismo anacronistico: in questi film i personaggi della Vitti finiscono sempre per prendersi un sacco di botte, ricalcando una narrazione popolare che ancora oggi subiamo.
Oggi non vedremmo mai una scena come il finale di Amore mio aiutami in cui Alberto Sordi prendeva a pugni la Vitti, tant’è che – per esempio – l’unica scena esplicita di violenza in C’è ancora domani è trasformata in una coreografia danzata. Tenendo conto degli anni in cui questi film venivano prodotti, c’è una cosa fondamentale da notare: le protagoniste della Vitti mantenevano, anche di fronte alla violenza, la loro dignità, ribadendo fino all’ultimo chi fossero e cosa volevano. In La ragazza con la pistola, quando Assunta diventa “autrice della sua narrazione” continua comunque a dare la caccia a Vincenzo come – e torniamo ancora a Il portiere di notte – Lucia che continua a voler essere padrona del rapporto con il proprio aguzzino.
Monicelli dipinge il percorso di Assunta Patanè attraverso l'emancipazione femminile, delineando un cammino che sarebbe poi arrivato dalle richieste femministe negli anni ’70, plasmando una riflessione su un tema delicato con tale grazia che viene difficile immaginare altri autori d’oggi capaci delle medesime narrazioni. Dal canto suo poteva contare su un’icona del cinema come Monica Vitti che riteneva che, se la comicità italiana si era costruita sui difetti dell’uomo, i suoi personaggi si sarebbero allora basati sulle fragilità e sulla conquista di una coscienza. La condizione dei suoi personaggi non era mai subita, ma imposta con l’orgoglio e la fierezza di chi voleva sempre avere l’ultima parola e dare “fastidio” fino all’ultimo al sistema patriarcale. In un’intervista con Enzo Biagi nel 1971, il giornalista le chiedeva perché si battesse per il femminismo e la Vitti rispondeva chiaramente: «Perché forse è ora.»
Il cinema ha la possibilità, ma soprattutto la capacità (e potremmo dire a questo punto anche la responsabilità), di decostruire l’archetipo femminile proprio attraverso quegli stessi temi che hanno irrobustito i suoi clichés. La decostruzione attuata da Paola Cortellesi dialoga col passato per riflettere sul presente, mentre il “passato” di Liliana Cavani e Mario Monicelli (e Monica Vitti) dialogava già con il futuro, solo che ancora non sapeva che stesse “decostruendo” un qualcosa di cui ancora non si era raggiunta la piena consapevolezza. È chiaro che il comune denominatore è un persistente sentimento di lotta che non si spegne da più di cinquant’anni, passando anche da strumenti come il cinema: è così che esso diventa (e deve diventare) un atto politico che può aiutarci a smuovere anche le coscienze più testarde.
La rappresentazione della donna nel cinema
italiano tra sfide storiche e urgenze attuali,
di Davide Merola
TR-91
13.01.2024
L’opera di Paola Cortellesi (C’è ancora domani) ha superato i 30 milioni di euro d’incasso: è il quinto film più visto di sempre nella storia del cinema italiano. Si è già detto molto sui motivi del successo che hanno portato il lungometraggio sul podio delle pellicole più viste in Italia durante l’anno appena trascorso, superando persino Barbie e Oppenheimer. Sicuramente tra le motivazioni del trionfo di C’è ancora domani va rintracciato un sentimento di fondo che riempie la pancia del nostro Paese (che in realtà c’è sempre stato e sempre si è fatto sentire forte e chiaro) e che mai come negli ultimi mesi ha raccolto una partecipazione così popolare e collettiva: la lotta al sistema patriarcale e alla cultura dello stupro che prevarica sulle donne non solo in Italia, ma qui più che altrove, dove ad oggi si contano più di 100 femminicidi solo nel 2023. È una lotta alimentata non solo da questi eventi, ma anche dai fatti di cronaca dell’estate scorsa come gli stupri di gruppo di Palermo e Caivano, così come dalle narrazioni giornalistiche. E questa lotta per le responsabilità si fa giustamente feroce.
Anche C’è ancora domani è uno spazio “inusuale” – per modo di dire – in cui è passato un messaggio di lotta per un cambiamento (tant’è che la canzone di Daniele Silvestri alla fine del film recita «canto anche a bocca chiusa»), un messaggio che Paola Cortellesi inserisce nel contesto storico raccontato nel film – lontano dalle nuovissime generazioni – per far confrontare il Paese con un passato che in tante occasioni romanticizza e ha romanticizzato e che per una volta ci viene mostrato come “quando si stava peggio”, si stava peggio e basta (decostruendo tra l’altro il genere della commedia all’italiana). Il messaggio di C’è ancora domani ha avuto un eco talmente forte che è andato ben oltre il bianco e nero del film, le citazioni neorealiste e l’ambientazione degli anni ’40, risuonando in un tessuto sociale del presente che è tutt’ora in tumulto. Si potrebbe dire che il lavoro della Cortellesi ha avuto una fortuna “grottesca” e che nei fatti di cronaca degli ultimi mesi abbia trovato il “cattivo miracolo” - per citare Nope (2022) di Jordan Peele - che ha smosso non solo le persone nei cinema, ma anche nelle piazze.
Questo non significa che non vi sia stata una “narrazione femminista” (anche se è riduttivo definirla così) nell’immaginario del nostro Paese prima del film di Paola Cortellesi: è un tipo di cinema infatti già rintracciabile in parallelo con gli anni di piombo, i movimenti politici dal ’68 in poi e la commedia all’italiana. Titoli che hanno fatto scuola e di cui C’è ancora domani ha incorporato ed ereditato la lezione. In questa disamina metteremo un attimo da parte il film di Cortellesi per vedere come appunto questo concetto di “narrazione femminista” fosse già emerso in vesti peculiari.
Il primo titolo in questione è Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, un film sul potere e il male (e, come vedremo, di conseguenza anche sul Nazismo) che imbastisce la sua narrazione di un rapporto con toni perversi e al limite dell’erotico: un ufficiale nazista lavora come portiere di notte in un albergo di Vienna. Quando in questo hotel incontra un’ex deportata ebrea, riemerge l’orrore. Il solo fatto che a metà degli anni ’70 sia stato prodotto un film con un incipit del genere è strabiliante, come lo è il fatto che la sua fama sia sopravvissuta al vaglio di questa era moderna del cinema, nonostante sia notoriamente riconosciuto come una pellicola forte (“non per tutti” come si usa dire). Più che entrare nei termini della romanticizzazione del male o peggio dell’Olocausto – che è la critica più grande che viene fatta al film sin dai tempi della sua uscita – il tentativo qui è quello di rileggere la pellicola “al presente”: traslare Il portiere di notte ai giorni nostri tenendo soprattutto conto del contesto sociale sopracitato, proprio per quanto riguarda i temi della cultura dello stupro e del possesso.
Il portiere di notte venne molto criticato dalle femministe dell’epoca per un motivo chiaro: Lucia, la protagonista, si discosta dall'immagine tradizionale della donna vittima, che è spesso dipinta come innocente, ingenua e pura; la sua caratterizzazione non segue gli stereotipi convenzionali associati alle figure femminili nelle narrazioni di questo genere, presentandola in modo più complesso e realistico. È lei che induce l’uomo a compiere delle azioni e la sola idea che Lucia provi piacere nell’essere abusata fa di lei una donna colpevole. Quello che forse non fu capito immediatamente era il fatto che il personaggio di Charlotte Rampling si stesse appropriando dell’immaginario tossico maschile per distruggerlo dall’interno, non importa a quale costo.
Il lungometraggio indaga su questi aspetti anche in maniera feticista, ma resta una visione umana e per questo complessa anche da comprendere. La stessa Liliana Cavani disse che Il portiere di notte non è un film sul sadomasochismo, ma più che altro una riflessione sul potere quando viene confuso per amore: non c’è una sola vittima come non c’è un solo abusatore. La morale è che il mondo descritto nell'opera è privo di ogni bene ed è invece influenzato in ogni suo aspetto dal male che permea i rapporti e le persone, pronte ad esercitarlo ogni volta che saranno in possesso del potere necessario.
Liliana Cavani non problematizza questo rapporto, ma lo fa sbocciare davanti allo spettatore proprio come il male puro che venne fuori – appunto – attraverso il Nazismo, con un collegamento che si rivela quindi molto funzionale per descrivere le dinamiche di abuso e potere presenti nel film. Anche se si parla di generiche “persone”, in realtà a perpetrare queste dinamiche sono esclusivamente gli uomini (i nazisti nel film), che in particolar modo ne Il portiere di notte mettono in scena una fantasia infallibile e perfetta pur di inventarsi un presente in cui non vi sia l’influenza del loro passato.
Vi suona familiare? Potreste rendervi conto che non è tanto diverso da come gli uomini oggi reagiscono di fronte alle accuse che gli vengono rivolte quando gli si fanno notare le dinamiche patriarcali a cui (in maniera volontaria o meno) prendono parte: il “not all men” è il corrispettivo della vita che gli uomini nel film della Cavani tentano di costruirsi. Lungi dal paragonare questi uomini a dei nazisti, ma entrambe sono categorie che considerano la donna inferiore e assoggettabile ad una subordinazione fisica e psicologica. Il “not all men” del film (quanto quello della realtà) è una menzogna che la regista smaschera molto bene tramite il rapporto di Max e Lucia, gli unici che paradossalmente prendono coscienza proprio di questo fatto e si sfogano con urla liberatorie.
Il ribaltamento del rapporto che si dipinge ne Il portiere di notte (in cui la donna si infiltra nell’immaginario maschile) ricorda le modalità attuate da molti in questi casi: occhio per occhio e gogne mediatiche per riappropriarsi del potere. Che sia lecito, giusto o sbagliato, sta allo spettatore, al pubblico e alla piazza deciderlo. La scelta di Liliana Cavani resta invece di una complessità intellettuale importante, che dagli anni ’70 viaggia fino ai giorni nostri non solo per essere riletta come fatto alla luce degli ultimi avvenimenti, ma anche per combattere pellicole scritte e dirette da uomini che affrontano il tema appropriandosi di concetti femministi e dimostrando come poco gli appartengano: il cinema mainstream dei supereroi spesso si ingarbuglia su queste tematiche tirando fuori morali retoriche e ingenue che fanno più male che bene, ma anche figure affermate come il regista e sceneggiatore Alex Garland nel suo ultimo film Men (2022) è caduto nel tranello di voler spiegare il femminismo ancora una volta tramite traumi irrisolti, come se volesse semplicemente pulirsi la coscienza.
Notiamo come è un rischio più del cinema contemporaneo, quindi. Si riconosce poco “mansplaining” nel cinema di quegli anni, dei primi movimenti femministi e de Il portiere di notte (1974). Infatti, a ridosso dell’esplosione della rivoluzione femminista (1968) fu proprio un uomo – il maestro Mario Monicelli – a tracciare una figura modernissima che si scagliava contro la società maschilista nel film La ragazza con la pistola, con Monica Vitti: la storia è quella di Assunta Patanè, una donna sedotta e abbandonata da Vincenzo Macaluso (Carlo Giuffrè). Dopo essere stata “posseduta” e quindi disonorata da lui, viene ripudiata dalla famiglia. Determinata a riconquistare la dignità persa, Assunta decide di cercare Vincenzo in Inghilterra, dove si è rifugiato dopo essersi sottratto al matrimonio riparatore.
Assunta è una “maschilista”, nel senso che è una donna che aderisce inconsciamente al maschilismo perché non ha conosciuto altro nella sua vita. Nel momento in cui però impugna la pistola del titolo, Assunta abbandona ogni compromesso accettato fino a quel momento con un occhio al futuro della restaurazione femminista. Ciò avviene all’interno della commedia all’italiana, dove il contesto è buffo e i personaggi improbabili (e implausibili), ma proprio per questo è sorprendente il ritratto di questo personaggio femminile così forte da essere protagonista e autrice della sua stessa narrazione. Tiene l’arma in mano così come Lucia Atherton si appropriava dell’immaginario maschile (e maschilista) incarnato dall’ex ufficiale nazista.
Quando arriva a Londra, Assunta si scontra con la società anglosassone che mette in mostra tutta al sua arretratezza e non concepisce la logica dietro i suoi gesti e le sue volontà. Lontana dalla sua terra, la donna conosce per la prima volta una realtà diversa e dei punti di vista a lei sconosciuti fino a quel viaggio. Assunta diventa così indipendente dando un taglio netto al suo passato, ma non prima di avere la possibilità di ripagare Vincenzo con la sua stessa moneta. Quello de La ragazza con la pistola - e di altri film con Monica Vitti come Dramma della gelosia (1970) o Amore mio aiutami (1969) - è un femminismo anacronistico: in questi film i personaggi della Vitti finiscono sempre per prendersi un sacco di botte, ricalcando una narrazione popolare che ancora oggi subiamo.
Oggi non vedremmo mai una scena come il finale di Amore mio aiutami in cui Alberto Sordi prendeva a pugni la Vitti, tant’è che – per esempio – l’unica scena esplicita di violenza in C’è ancora domani è trasformata in una coreografia danzata. Tenendo conto degli anni in cui questi film venivano prodotti, c’è una cosa fondamentale da notare: le protagoniste della Vitti mantenevano, anche di fronte alla violenza, la loro dignità, ribadendo fino all’ultimo chi fossero e cosa volevano. In La ragazza con la pistola, quando Assunta diventa “autrice della sua narrazione” continua comunque a dare la caccia a Vincenzo come – e torniamo ancora a Il portiere di notte – Lucia che continua a voler essere padrona del rapporto con il proprio aguzzino.
Monicelli dipinge il percorso di Assunta Patanè attraverso l'emancipazione femminile, delineando un cammino che sarebbe poi arrivato dalle richieste femministe negli anni ’70, plasmando una riflessione su un tema delicato con tale grazia che viene difficile immaginare altri autori d’oggi capaci delle medesime narrazioni. Dal canto suo poteva contare su un’icona del cinema come Monica Vitti che riteneva che, se la comicità italiana si era costruita sui difetti dell’uomo, i suoi personaggi si sarebbero allora basati sulle fragilità e sulla conquista di una coscienza. La condizione dei suoi personaggi non era mai subita, ma imposta con l’orgoglio e la fierezza di chi voleva sempre avere l’ultima parola e dare “fastidio” fino all’ultimo al sistema patriarcale. In un’intervista con Enzo Biagi nel 1971, il giornalista le chiedeva perché si battesse per il femminismo e la Vitti rispondeva chiaramente: «Perché forse è ora.»
Il cinema ha la possibilità, ma soprattutto la capacità (e potremmo dire a questo punto anche la responsabilità), di decostruire l’archetipo femminile proprio attraverso quegli stessi temi che hanno irrobustito i suoi clichés. La decostruzione attuata da Paola Cortellesi dialoga col passato per riflettere sul presente, mentre il “passato” di Liliana Cavani e Mario Monicelli (e Monica Vitti) dialogava già con il futuro, solo che ancora non sapeva che stesse “decostruendo” un qualcosa di cui ancora non si era raggiunta la piena consapevolezza. È chiaro che il comune denominatore è un persistente sentimento di lotta che non si spegne da più di cinquant’anni, passando anche da strumenti come il cinema: è così che esso diventa (e deve diventare) un atto politico che può aiutarci a smuovere anche le coscienze più testarde.