NC-315
23.06.2025
Il cinema contemporaneo si trova oggi in una fase di confronto quasi inevitabile con un suo altro formato artistico progenitore, ovvero il medium teatrale. Sempre più spesso, infatti, lo spettatore è immerso e risulta travolto da flussi incessanti di immagini, in cui la digitalizzazione di queste ultime è non solo uno strumento tecnico, ma un dispositivo espressivo che veicola confessioni artistiche e intime. Non c’è più bisogno dell’iper-narrazione, dominante nei primi due decenni degli anni 2000, per scandagliare le identità frammentate dell’uomo odierno.
Oggi, tutto il cinema si concentra sulla forma. Nell’attualità cinematografica, che si rivolge sempre più spesso al confine tra visione e affezione, tra racconto e rottura sintattica, prende piede progressivamente un formato che radicalizza la presenza della psicologia e del turbamento interiore non tramite lo svolgimento delle azioni, quanto attraverso il modo in cui queste si manifestano sullo schermo. In questo senso, Hurry Up Tomorrow (2025), nuovo film di Trey Edward Shults e cronaca romanzata delle vicende che hanno portato alla creazione del nuovo album di Abel Tesfaye, conosciuto da tutti con lo pseudonimo The Weeknd, diventa un caso emblematico.
Il film-performance affonda le sue radici nella contaminazione tra arti visive, teatro post-drammatico di Lehmann, body art e cinema sperimentale. A conti fatti, si tratta di un’esplosione radicale del linguaggio filmico, in cui il corpo agisce, si espone e ha addirittura la possibilità di fallire. Un’estetica nuova, che poggia tutta la sua forza sulla ridefinizione del ruolo dello spettatore, che la filosofa mediale Laura U. Marks ha denominato haptic visuality (ovvero visualità atipica).
Secondo Marks, l’esperienza visiva acquisisce nuove percezioni di forme, superfici e oggetti attraverso la vista, rievocando però una sensazione tattile e più diretta nello spettatore. La performance, dunque, non è più uno strumento dell’attore, quanto piuttosto una strategia filmica che implica il fallimento del linguaggio, la ripetizione del trauma. Si tratta di un atto che dà corpo alla memoria gestuale e che sopravvive solamente all’interno del corpo che la assorbe. In questo senso, il film di Trey Edward Shults si colloca a metà tra l’effetto shock perturbante e la funzione archiviale, fondando tutto sulla sua densità sensoriale a discapito della progressione narrativa.
Il regista Trey Edward Shults prepara una scena con Jenna Ortega e Abel Tesfaye (The Weekend) sul set di Hurry Up Tomorrow (2025)
Abel Tesfaye (The Weekend) e Barry Keoghan in Hurry Up Tomorrow (2025)
La ricezione di Hurry Up Tomorrow dal punto di vista critico/pubblico non è stata per nulla entusiasmante, ma alla base vi è un motivo molto semplice: la messa in crisi della posizione spettatoriale. Chiamato a testimoniare una sofferenza che non può comprendere, lo spettatore diventa parte di un rituale mediale che lo costringe a confrontarsi con la propria complicità. La perdita del sé è tradotta in una grammatica visuale respingente, fatta di close-up respiranti, suoni diegetici sovrapposti, luci intermittenti. Il corpo, così, diventa veicolo d’esperienza e superficie del dolore. Una posizione che scomoda, di fatto, chi guarda, e lo induce a ripensare emotivamente alla messa in scena di un’identità che non è mai univoca, ma cambia con il passare dei minuti.
In questo senso, altri due grandi horror del 2024, ovvero Trap (2024) di M. Night Shyamalan e Smile 2 (2024) di Parker Finn, rievocano il genere quale spazio di resistenza alla forma, in chiave affine al film di Shults. In Trap, il protagonista (Josh Hartnett) mette in scena una performance rituale in cui è insieme regista e carnefice. Il pubblico, inconsapevole, è sospeso tra vittima e spettatore. In questo senso, il film riprende idealmente la lezione di Guy Debord: lo spettacolo è non solo rappresentazione del potere, ma sua forma operativa. Il cameo del regista riprende quello già visto in Old (2021), dove Shyamalan appare come deus ex machina che manipola e performa lo spazio narrativo e i personaggi, perseguendo l’obiettivo del racconto stesso. La performance è dunque trivalente, e lo spettatore è costretto ad assistere, immettendosi all’interno della “trappola” designata dal regista di Knock At The Cabin (2023).
Nel film di Parker Finn, invece, la messa in scena diventa uno spazio di trauma intimo-psicotico, dove la trasformazione è l’unico esito possibile della performance. Smile 2 ibrida linguaggi audiovisivi contemporanei - videoclip, arte performativa - per restituire l'effetto corrosivo dello showbiz sulla psiche. La logica del contagio alla base della saga non è solo narrativa, ma espande la sua influenza anche sotto il profilo mediale. Il trauma si trasmette attraverso la messa in scena davanti a un testimone. In questa dinamica, la performance diventa coatta e necessaria: chi non riesce a performare il proprio dolore è destinato a esplodere, chi lo fa davanti a un altro si salva, momentaneamente.
Jenna Ortega in una sequenza del film
Il cinema è dunque veicolo della maledizione, la quale agisce solo nella misura in cui viene vista, e quindi mediatizzata. Smile 2 assume, dunque, i caratteri di una parabola sulla cultura digitale, dove la paura si diffonde come un contenuto virale, e il trauma non può più essere elaborato ma solo trasmesso. Il corpo di Naomi Scott non è solo impersonificazione degli effetti dello showbiz, ma addirittura diventa medium del trauma, involontario performer della propria fine. Come nei due casi precedenti, il soggetto perde il controllo della propria presenza scenica: chiamato a performare il proprio fallimento, si frantuma sotto il peso delle aspettative, all’interno di uno spazio diegetico già contaminato, che occupa il triplo ruolo di trappola, palcoscenico e piattaforma digitale.
Dunque, l’importanza del film-performance nel cinema contemporaneo assume sempre più una forma ben definita, occupandosi di mettere in crisi non solo le forme del racconto, ma la posizione stessa dello spettatore. Chiamato a testimoniare una sofferenza che non può comprendere, lo spettatore diventa parte di un rituale mediale che lo costringe a confrontarsi con la propria complicità. Hurry Up Tomorrow, Trap e Smile 2 ci parlano non tanto di storie, quanto di stati alterati: della condizione psicologica, sociale ed estetica di un soggetto impossibilitato a rappresentarsi senza deformarsi.
In questo scenario, la performance non è più liberazione, ma sintomo che insiste: gesto residuo, iterativo, che sopravvive al soggetto stesso. Le casistiche diverse prese in analisi si disvelano, in realtà, come tre tasselli fondamentali di questa nuova grammatica dell'immagine. Una grammatica che fonda il suo orrore su tre aspetti fondamentali, ovvero il tremore psicologico, l'opacità della società circostante e soprattutto l'urgenza con cui il corpo è messo in scena, diventando a sua volta un veicolo di trasmissione di queste nuove “paure spettacolari”.
Il trailer di Hurry Up Tomorrow (2025)
NC-315
23.06.2025
Il regista Trey Edward Shults prepara una scena con Jenna Ortega e Abel Tesfaye (The Weekend) sul set di Hurry Up Tomorrow (2025)
Il cinema contemporaneo si trova oggi in una fase di confronto quasi inevitabile con un suo altro formato artistico progenitore, ovvero il medium teatrale. Sempre più spesso, infatti, lo spettatore è immerso e risulta travolto da flussi incessanti di immagini, in cui la digitalizzazione di queste ultime è non solo uno strumento tecnico, ma un dispositivo espressivo che veicola confessioni artistiche e intime. Non c’è più bisogno dell’iper-narrazione, dominante nei primi due decenni degli anni 2000, per scandagliare le identità frammentate dell’uomo odierno.
Oggi, tutto il cinema si concentra sulla forma. Nell’attualità cinematografica, che si rivolge sempre più spesso al confine tra visione e affezione, tra racconto e rottura sintattica, prende piede progressivamente un formato che radicalizza la presenza della psicologia e del turbamento interiore non tramite lo svolgimento delle azioni, quanto attraverso il modo in cui queste si manifestano sullo schermo. In questo senso, Hurry Up Tomorrow (2025), nuovo film di Trey Edward Shults e cronaca romanzata delle vicende che hanno portato alla creazione del nuovo album di Abel Tesfaye, conosciuto da tutti con lo pseudonimo The Weeknd, diventa un caso emblematico.
Il film-performance affonda le sue radici nella contaminazione tra arti visive, teatro post-drammatico di Lehmann, body art e cinema sperimentale. A conti fatti, si tratta di un’esplosione radicale del linguaggio filmico, in cui il corpo agisce, si espone e ha addirittura la possibilità di fallire. Un’estetica nuova, che poggia tutta la sua forza sulla ridefinizione del ruolo dello spettatore, che la filosofa mediale Laura U. Marks ha denominato haptic visuality (ovvero visualità atipica).
Secondo Marks, l’esperienza visiva acquisisce nuove percezioni di forme, superfici e oggetti attraverso la vista, rievocando però una sensazione tattile e più diretta nello spettatore. La performance, dunque, non è più uno strumento dell’attore, quanto piuttosto una strategia filmica che implica il fallimento del linguaggio, la ripetizione del trauma. Si tratta di un atto che dà corpo alla memoria gestuale e che sopravvive solamente all’interno del corpo che la assorbe. In questo senso, il film di Trey Edward Shults si colloca a metà tra l’effetto shock perturbante e la funzione archiviale, fondando tutto sulla sua densità sensoriale a discapito della progressione narrativa.
Abel Tesfaye (The Weekend) e Barry Keoghan in Hurry Up Tomorrow (2025)
La ricezione di Hurry Up Tomorrow dal punto di vista critico/pubblico non è stata per nulla entusiasmante, ma alla base vi è un motivo molto semplice: la messa in crisi della posizione spettatoriale. Chiamato a testimoniare una sofferenza che non può comprendere, lo spettatore diventa parte di un rituale mediale che lo costringe a confrontarsi con la propria complicità. La perdita del sé è tradotta in una grammatica visuale respingente, fatta di close-up respiranti, suoni diegetici sovrapposti, luci intermittenti. Il corpo, così, diventa veicolo d’esperienza e superficie del dolore. Una posizione che scomoda, di fatto, chi guarda, e lo induce a ripensare emotivamente alla messa in scena di un’identità che non è mai univoca, ma cambia con il passare dei minuti.
In questo senso, altri due grandi horror del 2024, ovvero Trap (2024) di M. Night Shyamalan e Smile 2 (2024) di Parker Finn, rievocano il genere quale spazio di resistenza alla forma, in chiave affine al film di Shults. In Trap, il protagonista (Josh Hartnett) mette in scena una performance rituale in cui è insieme regista e carnefice. Il pubblico, inconsapevole, è sospeso tra vittima e spettatore. In questo senso, il film riprende idealmente la lezione di Guy Debord: lo spettacolo è non solo rappresentazione del potere, ma sua forma operativa. Il cameo del regista riprende quello già visto in Old (2021), dove Shyamalan appare come deus ex machina che manipola e performa lo spazio narrativo e i personaggi, perseguendo l’obiettivo del racconto stesso. La performance è dunque trivalente, e lo spettatore è costretto ad assistere, immettendosi all’interno della “trappola” designata dal regista di Knock At The Cabin (2023).
Nel film di Parker Finn, invece, la messa in scena diventa uno spazio di trauma intimo-psicotico, dove la trasformazione è l’unico esito possibile della performance. Smile 2 ibrida linguaggi audiovisivi contemporanei - videoclip, arte performativa - per restituire l'effetto corrosivo dello showbiz sulla psiche. La logica del contagio alla base della saga non è solo narrativa, ma espande la sua influenza anche sotto il profilo mediale. Il trauma si trasmette attraverso la messa in scena davanti a un testimone. In questa dinamica, la performance diventa coatta e necessaria: chi non riesce a performare il proprio dolore è destinato a esplodere, chi lo fa davanti a un altro si salva, momentaneamente.
Jenna Ortega in una sequenza del film
Il cinema è dunque veicolo della maledizione, la quale agisce solo nella misura in cui viene vista, e quindi mediatizzata. Smile 2 assume, dunque, i caratteri di una parabola sulla cultura digitale, dove la paura si diffonde come un contenuto virale, e il trauma non può più essere elaborato ma solo trasmesso. Il corpo di Naomi Scott non è solo impersonificazione degli effetti dello showbiz, ma addirittura diventa medium del trauma, involontario performer della propria fine. Come nei due casi precedenti, il soggetto perde il controllo della propria presenza scenica: chiamato a performare il proprio fallimento, si frantuma sotto il peso delle aspettative, all’interno di uno spazio diegetico già contaminato, che occupa il triplo ruolo di trappola, palcoscenico e piattaforma digitale.
Dunque, l’importanza del film-performance nel cinema contemporaneo assume sempre più una forma ben definita, occupandosi di mettere in crisi non solo le forme del racconto, ma la posizione stessa dello spettatore. Chiamato a testimoniare una sofferenza che non può comprendere, lo spettatore diventa parte di un rituale mediale che lo costringe a confrontarsi con la propria complicità. Hurry Up Tomorrow, Trap e Smile 2 ci parlano non tanto di storie, quanto di stati alterati: della condizione psicologica, sociale ed estetica di un soggetto impossibilitato a rappresentarsi senza deformarsi.
In questo scenario, la performance non è più liberazione, ma sintomo che insiste: gesto residuo, iterativo, che sopravvive al soggetto stesso. Le casistiche diverse prese in analisi si disvelano, in realtà, come tre tasselli fondamentali di questa nuova grammatica dell'immagine. Una grammatica che fonda il suo orrore su tre aspetti fondamentali, ovvero il tremore psicologico, l'opacità della società circostante e soprattutto l'urgenza con cui il corpo è messo in scena, diventando a sua volta un veicolo di trasmissione di queste nuove “paure spettacolari”.
Il trailer di Hurry Up Tomorrow (2025)