INT-98
13.06.2025
Ambientato a Cluj, nel cuore della Transilvania, Kontinental ’25 segue la vicenda di Orsolya (Eszter Tompa), un'ufficiale giudiziaria di mezza età incaricata di sgomberare un senzatetto che ha occupato un vecchio edificio abbandonato. Nel momento in cui decide di lasciargli tempo per raccogliere i propri effetti personali, Orsolya si allontana, ma al suo ritorno trova l’uomo impiccato. Questo tragico evento scatena in lei una profonda crisi morale, obbligandola a confrontarsi con il peso delle sue responsabilità e con un mondo in cui le ingiustizie sociali sembrano dilagare senza soluzione.
Kontinental ‘25, che uscirà prossimamente in sala con I Wonder Pictures, è stato presentato alla Berlinale 2025, dove il regista Radu Jude è riuscito a vincere il premio per la Miglior sceneggiatura. Il 9 giugno il film è stato poi mostrato in anteprima italiana a Bologna, in occasione del BiograFilm, evento nel quale il cineasta ha ricevuto il Celebration of Lives Award.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Radu Jude, che ci ha raccontato delle origini di questo suo nuovo film, dell’omaggio esplicito ad Europa ‘51 (1952) di Roberto Rossellini, dell’uso dei social media al giorno d’oggi ed infine dei vari problemi che caratterizzano il cinema odierno.
Orsolya (Eszter Tompa), protagonista di Kontinental ‘25
Cosa puoi raccontarmi dell’inizio di questo progetto?
Il punto di partenza è stato un racconto che avevo letto molti anni fa. Ricordo che già nel 2011 avevo provato a farne un film, ma non riuscivo a trovare la “forma” giusta. Così, alla fine, ho dovuto mettere il progetto da parte. Anni dopo, ho scoperto la città di Cluj, che era passata dall’essere un paesino con qualche migliaio di abitanti a diventare una città con settantamila persone, e mi ha colpito la mancanza di una giustizia sociale, questa realtà era diventata lo scenario perfetto per rappresentare una situazione che riguarda la Romania più in generale. Vent’anni fa si diceva che i problemi della Romania derivassero dal fatto che non avevamo ancora raggiunto lo stadio capitalistico, si parlava di transizione, e il governo prometteva che tutto sarebbe migliorato una volta integrato il capitalismo. Ora, dopo oltre un decennio di capitalismo neoliberale, i problemi sono cambiati, ma non certo spariti. Anzi, sono persino peggiorati, e le disuguaglianze sociali sono aumentate. Alcuni, in particolare la borghesia, hanno beneficiato della transizione, ma allo stesso tempo i servizi sociali, i trasporti pubblici, la cultura, l’istruzione, la sanità e, soprattutto, il problema degli alloggi si stanno sgretolando. Tutte queste osservazioni mi hanno aiutato a ripensare l’idea originale del film. Finalmente ero riuscito a trovare la “forma” giusta. Ed è per questo che il processo è stato così lungo. E poi, essendo in Italia, non posso non citare Rossellini, uno dei miei grandi eroi. Lo si capisce anche dal titolo che ho scelto. Ho rivisto Europa ’51 qualche anno fa, e mi ha colpito in modo diverso rispetto al passato. È un film molto lontano da ciò che avevo in mente, ma da un punto di vista strutturale mi ha ispirato. Il titolo Kontinental ’25 è quindi un omaggio a Rossellini, ma in un certo senso, il mio è anche un film “anti-Rossellini”, lui era un umanista, e nei suoi film c’era spesso una dimensione spirituale che nasceva dal coinvolgimento sociale, che fosse legato al partito comunista o alla Chiesa. Oggi, in Romania, il partito comunista è costantemente screditato, e dall’altra parte non esiste una destra politica in cui le persone possano davvero credere. Quanto alla religione, la Chiesa Ortodossa prevale, questa sorta di corporazione, ossessionata dal denaro e spesso ostile alla comunità LGBTQ+. Non so se io sia meno umanista di Rossellini, ma riconosco che oggi le persone interagiscono in modo molto diverso rispetto al passato. Per esempio, stamattina ho visto su Instagram la foto di una persona che conosco, teneva in mano un croissant, e sotto c’era scritto “All Eyes on Gaza”. Ecco, credo tu abbia capito cosa intendo. C’è questa convinzione che basti postare un “Ceasefire Now” o dirsi contro Trump per impegnarsi politicamente. Ma spesso è più una questione di narcisismo che di reale attivismo. Forse sto divagando, lo so, è una risposta lunga, ma sono convinto che tutto sia collegato.
Nei tuoi ultimi film hai mostrato sempre più una voglia di sperimentare attraverso il medium cinematografico. In questo caso hai girato interamente il film con un iPhone 15. Da cosa nasce questa spinta alla sperimentazione?
È una domanda complessa. Non credo di avere una risposta definitiva, perché mi sento piuttosto confuso rispetto allo stato del cinema oggi. Ma forse è sempre stato così: all’inizio non veniva nemmeno considerato una forma d’arte, poi sono arrivati il sonoro, il colore, internet, i social media… È sempre stato un mezzo in crisi, in trasformazione. Non ho soluzioni a questa crisi, ma se vuoi essere un regista serio, non puoi evitare certe domande. A mio avviso, ci troviamo davanti a tre tipi di crisi: una economica, una legata alla rilevanza sociale e culturale del nostro lavoro, e una terza che riguarda il modo stesso in cui ci esprimiamo attraverso l’immagine. Oggi, ad esempio, molti video su TikTok sembrano dire più del cinema stesso. Viviamo in un’epoca instabile, governata dalle fake news, da elezioni truccate e da una generale tossicità che ci disconnette dalla realtà. Ma un social network come TikTok, per quanto controverso, è anche una telecamera con mille lenti, è spesso il mezzo più potente che abbiamo per documentare le ingiustizie che ci circondano. Se apro TikTok adesso, vedo volti, voci, luoghi che non troverai mai nei film. E quelle creazioni anonime, nate per gioco, a volte mostrano più immaginazione di certi prodotti cinematografici professionali. Vedi? (Il regista prende il telefono e mostra vari reels da TikTok, n.d.r.) Ci sono piccole finzioni, documentari improvvisati… tutto mescolato. E se voglio capire meglio la Romania e la sua gente, oggi guardo TikTok, mi dice più di quanto riesca a fare il cinema. La vera sfida per noi registi non è più solo “cosa” raccontare, ma “come” rappresentare il presente visivamente. È qui che entra in gioco anche la responsabilità del pubblico e dei giornalisti, bisogna reimparare a leggere le immagini. E l’arrivo dell’intelligenza artificiale non fa che rendere tutto ancora più complesso; foto e video generati dall’AI sono ormai indistinguibili da quelli reali. Se guardo a tutto questo da una prospettiva filosofica, ma anche pratica, il problema è il cambiamento. È inevitabile, e bisogna esserne consapevoli. Non possiamo più far finta che non sia in atto, è già qui.
Una sequenza del film
Come è stata influenzata la produzione del film dal tuo background culturale?
Non l’avevo citato prima perché la risposta stava diventando troppo lunga, ma approfitto ora per parlarne. Ho deciso di realizzare questo film dopo aver vissuto, per la prima volta nella mia vita, un periodo lontano dalla Romania. Sono stato sette mesi a Berlino. In quel tempo non ho imparato molto sulla Germania, ma ho capito molto di più sulla Romania. È un Paese pieno di contraddizioni, dove accadono costantemente eventi assurdi ed estremi. Questo lo rende interessante dal punto di vista sociale e politico. La nostra storia è travagliata: l’influenza dell’Impero Ottomano, della Russia, il terribile regime comunista, e oggi il neoliberismo. Geograficamente siamo nel mezzo tra Est e Ovest Europa, e c’è sempre stato questo tentativo di adottare valori occidentali anche in momenti in cui non riflettevamo la stessa ideologia della Nazione. Tutto questo ha generato un clima di tensione costante. In Romania sembriamo sempre sul punto di entrare in una crisi, anche dopo un evento positivo. Se succede qualcosa di buono, subito dopo arrivano due catastrofi che peggiorano tutto. Quando sono tornato da Berlino, ho capito che volevo documentare questa instabilità e raccontare perché la gente è stanca di vivere in Romania. Balzac, nella prefazione di La Comédie humaine, scriveva, più o meno, che voleva essere il “segretario” della storia della Francia. Ecco, mi sento allo stesso modo. Con tutto ciò che sta succedendo oggi, perché non affrontarlo anche in modo cinico? Non voglio essere cinico per forza, ma credo che con questo tipo di approccio si possa dire qualcosa di autentico. È una lezione che arriva anche dal Neorealismo italiano, dopo la Seconda guerra mondiale la complessità della situazione ha permesso la nascita di grandi film ed autori. In Romania, invece, ho la sensazione che molti registi non siano motivati a raccontare la realtà. Non vogliono documentare, non vogliono offrire un punto di vista. Quando sono tornato da Berlino stavo lavorando a un altro film, Dracula Park, che uscirà probabilmente entro la fine dell’anno (con possibile premiere al Festival di Venezia, n.d.r.). Avevamo un po’ di fondi rimasti da quella produzione, così ho colto l’occasione per girare Kontinental ’25. Non volevo aspettare i classici tempi lunghi per i finanziamenti, che in alcuni casi mi hanno portato via anche tre anni. Ho parlato con il mio produttore e gli ho proposto il film: niente luci, niente soldi, niente attrezzature, solo dieci giorni di riprese con lo stesso gruppo di attori di Dracula Park. Alcuni non sono nemmeno stati pagati, ma hanno accettato delle quote sul film. È un metodo di lavoro che mi è piaciuto molto, e penso che lo ripeterò il prossimo anno.
I tuoi film sono sempre molto attuali, soprattutto quando riflettono sulla politica rumena ma anche su quella estera. Ti rivedi nei tuoi personaggi? Sono tuoi alter ego?
Credo ci siano due prospettive quando si realizza un film. La prima è quella spazio-temporale: se vuoi raccontare il presente, hai un problema, perché tra la scrittura e l’uscita del film passa del tempo, e il “presente” diventa subito passato. Ma non è un problema per me. Anzi, mi piace che il film porti con sé questo tempo, che attraversi le questioni della contemporaneità e le metta in relazione col recente passato. La seconda prospettiva riguarda il citazionismo e il riferimento; che si tratti di cinema, della guerra in Ucraina o di Gaza, non sono io a parlare, sono i personaggi. Come dicevo prima, usando l’esempio della ragazza con il croissant e la scritta “All Eyes on Gaza”, spesso il contesto rivela più narcisismo che impegno sociale. I personaggi di Kontinental ’25 hanno la stessa “ufficialità” di quella persona, parlano del mondo, ma lo fanno secondo le loro contraddizioni. Non voglio giudicare, ma osservare. E analizzare. Quando qualcuno cita l’Ucraina, l’Iran o Gaza e poi mette al centro se stesso, è inevitabile che il messaggio cambi. Oppure forse sono io a fraintendere, e quei post sono vere analisi sociali… non lo so. Ripeto, non voglio criticare, ma capire entrambe le prospettive.
Orsolya (Eszter Tompa) e i suoi colleghi
Sono sicuro che sarai d’accordo con me nel dire che i social media distorcono la nostra realtà. Mi ha sempre colpito come rappresenti questa artificiosità nei tuoi film, c’è sempre un equilibrio, non solo in Kontinental '25, ma anche in Do Not Expect Too Much From the End of the World (2023). Come riesci a costruire questa armonia?
È una domanda difficile, e onestamente non credo di avere una risposta definitiva. Sono contrario alla visione stereotipata che spesso si ha dei social media. Si dice spesso che una comunicazione via Facebook, Instagram o Zoom, come stiamo facendo ora, non sia “reale” perché manca l’interazione faccia a faccia. Ovviamente c’è una differenza, ma non sono convinto che sia così profonda come si sostiene. Se parlo con qualcuno su Facebook, o chiamo un conoscente al telefono, mi sento meno solo. Non ho sempre bisogno di un incontro faccia a faccia. Per questo non posso negare il mondo digitale, senza mi sentirei ancora più isolato. In realtà, mi sento più connesso oggi di quanto lo sia mai stato. Nel mio caso c’è anche un problema di visibilità. Non sono una persona particolarmente famosa, ma ogni tanto qualcuno mi riconosce, e cominciano le critiche. Una delle attività più popolari oggi è proprio questa: criticare gli altri. È diventato uno “sport intellettuale” a tutti gli effetti. E io, a volte, provo ad “allenarmi” per non caderci, ma è difficile. Ci sarà sempre qualcuno che interpreta male le mie parole e comincia a dire: “Radu Jude ha detto questo, ha fatto quest’altro”, quando magari non è affatto vero. Ed è così che nascono le fake news, uno dei mali più insidiosi del nostro tempo. Nella mia carriera ho affrontato campagne d’odio, attacchi duri per via delle mie posizioni sulla politica e sulla storia della Romania, in particolare per aver affrontato il passato fascista del Paese. Ma ci sono situazioni che non puoi risolvere con il dialogo, certi individui sono impermeabili al confronto.
Ti aspetti qualche cambiamento, anche minimo, nella società rumena grazie ai tuoi film?
Quando si parla di cinema, spesso ci si scontra con un’idea molto ingenua, quasi utopica, del suo potere trasformativo, è come un circolo vizioso di irragionevoli aspettative. È un tipo di pretesa che, per esempio, non si ha con la pittura, nessuno chiede a un pittore se il suo quadro cambierà il mondo. Eppure questa domanda viene posta al cinema e alla letteratura. A un certo punto, ho iniziato a chiedermi: “Per chi sto facendo questi film?” E ho capito che il mio obiettivo non è cambiare le persone, ma fornire strumenti per riflettere. Detto questo, ogni film ha comunque un impatto; un film commerciale ti fa venire voglia di mangiare popcorn, uno propagandistico ti induce a votare un certo partito, uno politico ti fa cambiare idea su un tema, e uno storico ti insegna qualcosa, magari anche solo su ciò che chiamano “Roman Empire”. Tutto il cinema, in un modo o nell’altro, agisce sullo spettatore. Ma io non voglio convincere nessuno. Se un film riesce anche solo a stimolare una conversazione, per me è già tanto. Non farei mai un film che spinga le persone a pensarla come me, non ne sarei capace e non mi interessa. Spesso dico a me stesso: “Vorrei essere una brava persona”, ma se mi chiedi quanto dovrebbero costare le bollette o come tassare i cittadini, risponderei banalmente con un “tassiamo i ricchi, aiutiamo i poveri”.
Kontinental ‘25
Prima citavi come il secondo dopoguerra ha portato alla ribalta nuovi registi in Italia. Si potrebbe dire lo stesso della Romania dopo il 1989. Il cinema rumeno vive un buon momento da anni, cosa ne pensi a riguardo?
Hai ragione. Dopo la rivoluzione del 1989, il cinema rumeno ha trovato una nuova vitalità, anche grazie a una situazione economica leggermente più favorevole. Non parliamo di budget enormi, ma almeno c’erano più risorse e più libertà per fare film. Tuttavia, secondo me oggi manca qualcosa: l’originalità. Il cinema rumeno contemporaneo ha bisogno di più varietà e diversità. Tutti si lamentano del cinema commerciale, ma sono quei film a riempire le sale. E non voglio neanche parlare di qualità, perché ormai sono gli influencer, non gli attori, a spingere il pubblico verso un certo film. (il regista ride, n.d.r.) È uno scenario paradossale. Un altro problema è che molti giovani registi vogliono solo replicare ciò che è già stato fatto, oppure rincorrere uno standard “canonico” del passato. Non è questione di talento, ma di determinazione. È il desiderio di fare un cinema che dica qualcosa. E questo lo trovo più spesso nei film diretti da donne che da uomini. Ovviamente il punto è se le istituzioni decideranno di sostenere quei progetti. Perché, alla lunga, non è il talento a fare la differenza, ma l’accesso alle risorse e la determinazione. Io stesso non credo di essere un regista particolarmente talentuoso, sono andato avanti perché ero un po’ più ostinato di altri. E spero davvero che le nuove generazioni trovino il coraggio e la forza per affrontare le sfide del cinema contemporaneo.
Concluderei questa piacevole conversazione chiedendoti del parco di dinosauri che si vede all’inizio del film. Da dove nasce questa scelta?
Per darti una risposta breve… leggi Opera aperta di Umberto Eco (il regista ride, n.d.r.). Quel parco non era stato pianificato, si trovava semplicemente dietro l’hotel che ci ospitava durante le riprese. Le spese per l’alloggio erano coperte da una compagnia chiamata Wonderland, che ci ha anche offerto supporto nella realizzazione del film. A quel punto ho pensato: perché non usarlo? Non c’era alcuna intenzione simbolica iniziale. Ma ovviamente, una volta che metti qualcosa in un film, le interpretazioni arrivano, ed è giusto così. Quando citavo Opera aperta, non stavo scherzando più di tanto, Eco ci mostra la possibilità di avere molteplici letture. E forse hanno tutte un fondo di verità.
Il trailer di Kontinental ’25 (2025)
INT-98
13.06.2025
Ambientato a Cluj, nel cuore della Transilvania, Kontinental ’25 segue la vicenda di Orsolya (Eszter Tompa), un'ufficiale giudiziaria di mezza età incaricata di sgomberare un senzatetto che ha occupato un vecchio edificio abbandonato. Nel momento in cui decide di lasciargli tempo per raccogliere i propri effetti personali, Orsolya si allontana, ma al suo ritorno trova l’uomo impiccato. Questo tragico evento scatena in lei una profonda crisi morale, obbligandola a confrontarsi con il peso delle sue responsabilità e con un mondo in cui le ingiustizie sociali sembrano dilagare senza soluzione.
Kontinental ‘25, che uscirà prossimamente in sala con I Wonder Pictures, è stato presentato alla Berlinale 2025, dove il regista Radu Jude è riuscito a vincere il premio per la Miglior sceneggiatura. Il 9 giugno il film è stato poi mostrato in anteprima italiana a Bologna, in occasione del BiograFilm, evento nel quale il cineasta ha ricevuto il Celebration of Lives Award.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Radu Jude, che ci ha raccontato delle origini di questo suo nuovo film, dell’omaggio esplicito ad Europa ‘51 (1952) di Roberto Rossellini, dell’uso dei social media al giorno d’oggi ed infine dei vari problemi che caratterizzano il cinema odierno.
Orsolya (Eszter Tompa), protagonista di Kontinental ‘25
Cosa puoi raccontarmi dell’inizio di questo progetto?
Il punto di partenza è stato un racconto che avevo letto molti anni fa. Ricordo che già nel 2011 avevo provato a farne un film, ma non riuscivo a trovare la “forma” giusta. Così, alla fine, ho dovuto mettere il progetto da parte. Anni dopo, ho scoperto la città di Cluj, che era passata dall’essere un paesino con qualche migliaio di abitanti a diventare una città con settantamila persone, e mi ha colpito la mancanza di una giustizia sociale, questa realtà era diventata lo scenario perfetto per rappresentare una situazione che riguarda la Romania più in generale. Vent’anni fa si diceva che i problemi della Romania derivassero dal fatto che non avevamo ancora raggiunto lo stadio capitalistico, si parlava di transizione, e il governo prometteva che tutto sarebbe migliorato una volta integrato il capitalismo. Ora, dopo oltre un decennio di capitalismo neoliberale, i problemi sono cambiati, ma non certo spariti. Anzi, sono persino peggiorati, e le disuguaglianze sociali sono aumentate. Alcuni, in particolare la borghesia, hanno beneficiato della transizione, ma allo stesso tempo i servizi sociali, i trasporti pubblici, la cultura, l’istruzione, la sanità e, soprattutto, il problema degli alloggi si stanno sgretolando. Tutte queste osservazioni mi hanno aiutato a ripensare l’idea originale del film. Finalmente ero riuscito a trovare la “forma” giusta. Ed è per questo che il processo è stato così lungo. E poi, essendo in Italia, non posso non citare Rossellini, uno dei miei grandi eroi. Lo si capisce anche dal titolo che ho scelto. Ho rivisto Europa ’51 qualche anno fa, e mi ha colpito in modo diverso rispetto al passato. È un film molto lontano da ciò che avevo in mente, ma da un punto di vista strutturale mi ha ispirato. Il titolo Kontinental ’25 è quindi un omaggio a Rossellini, ma in un certo senso, il mio è anche un film “anti-Rossellini”, lui era un umanista, e nei suoi film c’era spesso una dimensione spirituale che nasceva dal coinvolgimento sociale, che fosse legato al partito comunista o alla Chiesa. Oggi, in Romania, il partito comunista è costantemente screditato, e dall’altra parte non esiste una destra politica in cui le persone possano davvero credere. Quanto alla religione, la Chiesa Ortodossa prevale, questa sorta di corporazione, ossessionata dal denaro e spesso ostile alla comunità LGBTQ+. Non so se io sia meno umanista di Rossellini, ma riconosco che oggi le persone interagiscono in modo molto diverso rispetto al passato. Per esempio, stamattina ho visto su Instagram la foto di una persona che conosco, teneva in mano un croissant, e sotto c’era scritto “All Eyes on Gaza”. Ecco, credo tu abbia capito cosa intendo. C’è questa convinzione che basti postare un “Ceasefire Now” o dirsi contro Trump per impegnarsi politicamente. Ma spesso è più una questione di narcisismo che di reale attivismo. Forse sto divagando, lo so, è una risposta lunga, ma sono convinto che tutto sia collegato.
Nei tuoi ultimi film hai mostrato sempre più una voglia di sperimentare attraverso il medium cinematografico. In questo caso hai girato interamente il film con un iPhone 15. Da cosa nasce questa spinta alla sperimentazione?
È una domanda complessa. Non credo di avere una risposta definitiva, perché mi sento piuttosto confuso rispetto allo stato del cinema oggi. Ma forse è sempre stato così: all’inizio non veniva nemmeno considerato una forma d’arte, poi sono arrivati il sonoro, il colore, internet, i social media… È sempre stato un mezzo in crisi, in trasformazione. Non ho soluzioni a questa crisi, ma se vuoi essere un regista serio, non puoi evitare certe domande. A mio avviso, ci troviamo davanti a tre tipi di crisi: una economica, una legata alla rilevanza sociale e culturale del nostro lavoro, e una terza che riguarda il modo stesso in cui ci esprimiamo attraverso l’immagine. Oggi, ad esempio, molti video su TikTok sembrano dire più del cinema stesso. Viviamo in un’epoca instabile, governata dalle fake news, da elezioni truccate e da una generale tossicità che ci disconnette dalla realtà. Ma un social network come TikTok, per quanto controverso, è anche una telecamera con mille lenti, è spesso il mezzo più potente che abbiamo per documentare le ingiustizie che ci circondano. Se apro TikTok adesso, vedo volti, voci, luoghi che non troverai mai nei film. E quelle creazioni anonime, nate per gioco, a volte mostrano più immaginazione di certi prodotti cinematografici professionali. Vedi? (Il regista prende il telefono e mostra vari reels da TikTok, n.d.r.) Ci sono piccole finzioni, documentari improvvisati… tutto mescolato. E se voglio capire meglio la Romania e la sua gente, oggi guardo TikTok, mi dice più di quanto riesca a fare il cinema. La vera sfida per noi registi non è più solo “cosa” raccontare, ma “come” rappresentare il presente visivamente. È qui che entra in gioco anche la responsabilità del pubblico e dei giornalisti, bisogna reimparare a leggere le immagini. E l’arrivo dell’intelligenza artificiale non fa che rendere tutto ancora più complesso; foto e video generati dall’AI sono ormai indistinguibili da quelli reali. Se guardo a tutto questo da una prospettiva filosofica, ma anche pratica, il problema è il cambiamento. È inevitabile, e bisogna esserne consapevoli. Non possiamo più far finta che non sia in atto, è già qui.
Una sequenza del film
Come è stata influenzata la produzione del film dal tuo background culturale?
Non l’avevo citato prima perché la risposta stava diventando troppo lunga, ma approfitto ora per parlarne. Ho deciso di realizzare questo film dopo aver vissuto, per la prima volta nella mia vita, un periodo lontano dalla Romania. Sono stato sette mesi a Berlino. In quel tempo non ho imparato molto sulla Germania, ma ho capito molto di più sulla Romania. È un Paese pieno di contraddizioni, dove accadono costantemente eventi assurdi ed estremi. Questo lo rende interessante dal punto di vista sociale e politico. La nostra storia è travagliata: l’influenza dell’Impero Ottomano, della Russia, il terribile regime comunista, e oggi il neoliberismo. Geograficamente siamo nel mezzo tra Est e Ovest Europa, e c’è sempre stato questo tentativo di adottare valori occidentali anche in momenti in cui non riflettevamo la stessa ideologia della Nazione. Tutto questo ha generato un clima di tensione costante. In Romania sembriamo sempre sul punto di entrare in una crisi, anche dopo un evento positivo. Se succede qualcosa di buono, subito dopo arrivano due catastrofi che peggiorano tutto. Quando sono tornato da Berlino, ho capito che volevo documentare questa instabilità e raccontare perché la gente è stanca di vivere in Romania. Balzac, nella prefazione di La Comédie humaine, scriveva, più o meno, che voleva essere il “segretario” della storia della Francia. Ecco, mi sento allo stesso modo. Con tutto ciò che sta succedendo oggi, perché non affrontarlo anche in modo cinico? Non voglio essere cinico per forza, ma credo che con questo tipo di approccio si possa dire qualcosa di autentico. È una lezione che arriva anche dal Neorealismo italiano, dopo la Seconda guerra mondiale la complessità della situazione ha permesso la nascita di grandi film ed autori. In Romania, invece, ho la sensazione che molti registi non siano motivati a raccontare la realtà. Non vogliono documentare, non vogliono offrire un punto di vista. Quando sono tornato da Berlino stavo lavorando a un altro film, Dracula Park, che uscirà probabilmente entro la fine dell’anno (con possibile premiere al Festival di Venezia, n.d.r.). Avevamo un po’ di fondi rimasti da quella produzione, così ho colto l’occasione per girare Kontinental ’25. Non volevo aspettare i classici tempi lunghi per i finanziamenti, che in alcuni casi mi hanno portato via anche tre anni. Ho parlato con il mio produttore e gli ho proposto il film: niente luci, niente soldi, niente attrezzature, solo dieci giorni di riprese con lo stesso gruppo di attori di Dracula Park. Alcuni non sono nemmeno stati pagati, ma hanno accettato delle quote sul film. È un metodo di lavoro che mi è piaciuto molto, e penso che lo ripeterò il prossimo anno.
I tuoi film sono sempre molto attuali, soprattutto quando riflettono sulla politica rumena ma anche su quella estera. Ti rivedi nei tuoi personaggi? Sono tuoi alter ego?
Credo ci siano due prospettive quando si realizza un film. La prima è quella spazio-temporale: se vuoi raccontare il presente, hai un problema, perché tra la scrittura e l’uscita del film passa del tempo, e il “presente” diventa subito passato. Ma non è un problema per me. Anzi, mi piace che il film porti con sé questo tempo, che attraversi le questioni della contemporaneità e le metta in relazione col recente passato. La seconda prospettiva riguarda il citazionismo e il riferimento; che si tratti di cinema, della guerra in Ucraina o di Gaza, non sono io a parlare, sono i personaggi. Come dicevo prima, usando l’esempio della ragazza con il croissant e la scritta “All Eyes on Gaza”, spesso il contesto rivela più narcisismo che impegno sociale. I personaggi di Kontinental ’25 hanno la stessa “ufficialità” di quella persona, parlano del mondo, ma lo fanno secondo le loro contraddizioni. Non voglio giudicare, ma osservare. E analizzare. Quando qualcuno cita l’Ucraina, l’Iran o Gaza e poi mette al centro se stesso, è inevitabile che il messaggio cambi. Oppure forse sono io a fraintendere, e quei post sono vere analisi sociali… non lo so. Ripeto, non voglio criticare, ma capire entrambe le prospettive.
Orsolya (Eszter Tompa) e i suoi colleghi
Sono sicuro che sarai d’accordo con me nel dire che i social media distorcono la nostra realtà. Mi ha sempre colpito come rappresenti questa artificiosità nei tuoi film, c’è sempre un equilibrio, non solo in Kontinental '25, ma anche in Do Not Expect Too Much From the End of the World (2023). Come riesci a costruire questa armonia?
È una domanda difficile, e onestamente non credo di avere una risposta definitiva. Sono contrario alla visione stereotipata che spesso si ha dei social media. Si dice spesso che una comunicazione via Facebook, Instagram o Zoom, come stiamo facendo ora, non sia “reale” perché manca l’interazione faccia a faccia. Ovviamente c’è una differenza, ma non sono convinto che sia così profonda come si sostiene. Se parlo con qualcuno su Facebook, o chiamo un conoscente al telefono, mi sento meno solo. Non ho sempre bisogno di un incontro faccia a faccia. Per questo non posso negare il mondo digitale, senza mi sentirei ancora più isolato. In realtà, mi sento più connesso oggi di quanto lo sia mai stato. Nel mio caso c’è anche un problema di visibilità. Non sono una persona particolarmente famosa, ma ogni tanto qualcuno mi riconosce, e cominciano le critiche. Una delle attività più popolari oggi è proprio questa: criticare gli altri. È diventato uno “sport intellettuale” a tutti gli effetti. E io, a volte, provo ad “allenarmi” per non caderci, ma è difficile. Ci sarà sempre qualcuno che interpreta male le mie parole e comincia a dire: “Radu Jude ha detto questo, ha fatto quest’altro”, quando magari non è affatto vero. Ed è così che nascono le fake news, uno dei mali più insidiosi del nostro tempo. Nella mia carriera ho affrontato campagne d’odio, attacchi duri per via delle mie posizioni sulla politica e sulla storia della Romania, in particolare per aver affrontato il passato fascista del Paese. Ma ci sono situazioni che non puoi risolvere con il dialogo, certi individui sono impermeabili al confronto.
Ti aspetti qualche cambiamento, anche minimo, nella società rumena grazie ai tuoi film?
Quando si parla di cinema, spesso ci si scontra con un’idea molto ingenua, quasi utopica, del suo potere trasformativo, è come un circolo vizioso di irragionevoli aspettative. È un tipo di pretesa che, per esempio, non si ha con la pittura, nessuno chiede a un pittore se il suo quadro cambierà il mondo. Eppure questa domanda viene posta al cinema e alla letteratura. A un certo punto, ho iniziato a chiedermi: “Per chi sto facendo questi film?” E ho capito che il mio obiettivo non è cambiare le persone, ma fornire strumenti per riflettere. Detto questo, ogni film ha comunque un impatto; un film commerciale ti fa venire voglia di mangiare popcorn, uno propagandistico ti induce a votare un certo partito, uno politico ti fa cambiare idea su un tema, e uno storico ti insegna qualcosa, magari anche solo su ciò che chiamano “Roman Empire”. Tutto il cinema, in un modo o nell’altro, agisce sullo spettatore. Ma io non voglio convincere nessuno. Se un film riesce anche solo a stimolare una conversazione, per me è già tanto. Non farei mai un film che spinga le persone a pensarla come me, non ne sarei capace e non mi interessa. Spesso dico a me stesso: “Vorrei essere una brava persona”, ma se mi chiedi quanto dovrebbero costare le bollette o come tassare i cittadini, risponderei banalmente con un “tassiamo i ricchi, aiutiamo i poveri”.
Kontinental ‘25
Prima citavi come il secondo dopoguerra ha portato alla ribalta nuovi registi in Italia. Si potrebbe dire lo stesso della Romania dopo il 1989. Il cinema rumeno vive un buon momento da anni, cosa ne pensi a riguardo?
Hai ragione. Dopo la rivoluzione del 1989, il cinema rumeno ha trovato una nuova vitalità, anche grazie a una situazione economica leggermente più favorevole. Non parliamo di budget enormi, ma almeno c’erano più risorse e più libertà per fare film. Tuttavia, secondo me oggi manca qualcosa: l’originalità. Il cinema rumeno contemporaneo ha bisogno di più varietà e diversità. Tutti si lamentano del cinema commerciale, ma sono quei film a riempire le sale. E non voglio neanche parlare di qualità, perché ormai sono gli influencer, non gli attori, a spingere il pubblico verso un certo film. (il regista ride, n.d.r.) È uno scenario paradossale. Un altro problema è che molti giovani registi vogliono solo replicare ciò che è già stato fatto, oppure rincorrere uno standard “canonico” del passato. Non è questione di talento, ma di determinazione. È il desiderio di fare un cinema che dica qualcosa. E questo lo trovo più spesso nei film diretti da donne che da uomini. Ovviamente il punto è se le istituzioni decideranno di sostenere quei progetti. Perché, alla lunga, non è il talento a fare la differenza, ma l’accesso alle risorse e la determinazione. Io stesso non credo di essere un regista particolarmente talentuoso, sono andato avanti perché ero un po’ più ostinato di altri. E spero davvero che le nuove generazioni trovino il coraggio e la forza per affrontare le sfide del cinema contemporaneo.
Concluderei questa piacevole conversazione chiedendoti del parco di dinosauri che si vede all’inizio del film. Da dove nasce questa scelta?
Per darti una risposta breve… leggi Opera aperta di Umberto Eco (il regista ride, n.d.r.). Quel parco non era stato pianificato, si trovava semplicemente dietro l’hotel che ci ospitava durante le riprese. Le spese per l’alloggio erano coperte da una compagnia chiamata Wonderland, che ci ha anche offerto supporto nella realizzazione del film. A quel punto ho pensato: perché non usarlo? Non c’era alcuna intenzione simbolica iniziale. Ma ovviamente, una volta che metti qualcosa in un film, le interpretazioni arrivano, ed è giusto così. Quando citavo Opera aperta, non stavo scherzando più di tanto, Eco ci mostra la possibilità di avere molteplici letture. E forse hanno tutte un fondo di verità.
Il trailer di Kontinental ’25 (2025)