INT-69
21.04.2024
Cosa possiamo fare per provare a sfuggire o evadere dalla monotonia lavorativa che la società ci impone? Si potrebbe ideare una rapina in banca, ad esempio, così da non poter mai più aver bisogno di lavorare... Ci sono dei lati negativi ovviamente, bisogna scontare qualche anno in galera, ma dopo questo periodo si può finalmente ottenere quella libertà tanto agognata. È questo il ragionamento che compie Morán (Daniel Elías), il protagonista di Los Delincuentes, la nuova fantasmagorica opera di Rodrigo Moreno.
Stanco della sua grigia esistenza, Morán decide di attuare il piano descritto; rubare dalla banca in cui lavora, nascondere i soldi, farsi arrestare e trascorrere qualche anno in galera. Ma per far sì che tutto questo funzioni, coinvolgerà anche il collega Román (Esteban Bigliardi), che avrà l’incarico di custodire i soldi. La banca, però, investigherà sull’accaduto e questo fatto metterà sotto pressione quest’ultimo, che deciderà di recarsi verso un’idilliaca e remota zona rurale per nascondere la refurtiva. Una volta giunto a meta, incontrerà una donna misteriosa, Norma (Margarita Molfino), che cambierà per sempre la sua vita.
Los Delincuentes ha probabilmente rappresentato una delle migliori opere del 2023. Abbiamo avuto il piacere di intervistare Rodrigo Moreno, il regista del film, che ci ha parlato a lungo delle varie reference cinematografiche all’interno del suo lavoro, approfondito il concetto di dualismo, l’uso della musica e la concezione del tempo legata alla storia, ed infine fatto una piccola digressione politica sulla tragica situazione che sta affliggendo l’Argentina.
Los Delincuentes è attualmente nelle sale italiane grazie a Lucky Red, che per l’occasione ha collaborato con MUBI per portare il film sul grande schermo prima dello sbarco sulla piattaforma streaming alla fine di maggio.
Mi piacerebbe cominciare questa conversazione chiedendoti dei personaggi principali dei tuoi film, poiché essi sono sempre alla ricerca della “libertà” come mezzo per evadere da un contesto di reclusione sociale ed emotiva. Come mai sei interessato a raccontare questo tipo di storie? Come sviluppi queste tipologie di personaggi?
Credo che tutti i miei film abbiamo un soggetto e una tematica simile, ovvero quella della relazione tra l’individuo e il mondo del lavoro, più nello specifico l’idea della produttività e del tempo di “non produttività”. Los Delincuentes è un nuovo step verso questa direzione sia da un punto di vista tematico che stilistico; il film è un mix di generi, è una commedia, ma anche un heist movie, un dramma esistenziale, una love story e c’è anche un po’ di avventura. Il mio obiettivo era quello di sperimentare con diversi generi, personaggi, paesaggi e scenari. Avevo in mente tutte queste caratteristiche quando ho iniziato la lavorazione del film, anche prima di ideare i protagonisti. Questo perché quando scrivo un personaggio, non sono interessato alla caratterizzazione psicologica, la cosiddetta “psicologia del personaggio”, aspetto che caratterizza il cinema contemporaneo. Di solito, nelle mie sceneggiature ci sono solo alcune indicazioni sui personaggi, il resto dipende dagli attori e da come li riprendo sul set. Il risultato finale è questo peculiare mix tra documentario e finzione.
Uno dei punti di partenza e delle maggiori influenze per Los Delincuentes è stato il grande classico del cinema argentino Apenas un delincuente (1949) di Hugo Fregonese, cosa ti ha colpito maggiormente di questo film? Los Delincuentes si potrebbe definire una modernizzazione di quella storia?
Molti anni fa, Hernán Musaluppi, uno dei produttori di Los Delincuentes, ma anche dei miei primi due lungometraggi, El custodio (2006) e Un mundo misterioso (2011), mi diede la possibilità di girare un remake di quel film. Mi aveva rassicurato dicendo che aveva i diritti per produrre il progetto, ma alla fine non era vero. Non avevo ancora visto il film, ma quando lo feci, rimasi sbalordito da questo eccellente noir degli anni ‘40 che incapsula perfettamente quel periodo storico, dalla lingua al portamento delle persone. All’inizio del film c’è un overture dove il protagonista, Morán, parla del fatto che deve andare a lavorare ogni singolo giorno e di come questa routine sia come una nuova forma di schiavitu. Questa scena rappresenta qualcosa che non si era mai vista in un film noir, infatti è impossibile trovare questo aspetto esistenziale in quel tipo di opere negli anni ‘40. Inoltre, come puoi notare, ho voluto preservare il nome del protagonista in Los Delincuentes. Questo è stato un punto importante che mi ha spinto ad iniziare questo progetto, ma allo stesso tempo, non volevo fare un remake vero e proprio, ho preferito rimodellare ed adattare quella narrativa in un nuovo contesto. Apenas un delincuente è stato il punto di partenza, ma la storia si è poi evoluta verso direzioni che mai mi sarei immaginato. Inoltre, è stato davvero meraviglioso creare questo tipo di dialogo con il cinema classico argentino. Dico questo perché la mia generazione di cineasti ha cercato di eliminare ogni forma di dialogo con il cinema tradizionale. Quando siamo “comparsi” per la prima volta nel panorama cinematografico a inizio secolo, ci siamo ribellati contro quel tipo di cinema, lo odiavamo, anche se c’era qualche eccezione, ovviamente. Ma in questo periodo della mia vita, sto cercando di riconnettermi con la tradizione e usarla per compiere un passo avanti nella mia carriera. E sono sicuro che si può fare un discorso simile anche con il cinema italiano; per esempio, quando guardi un film di Alice Rohrwacher, puoi riconoscere degli elementi che appartengono ad alcuni grandi classici del cinema italiano, è interessante riscoprire e, soprattutto, riconoscere il cinema tradizionale della propria nazione.
Rimanendo sempre sul discorso delle referenze cinematografiche, quando guardavamo Los Delincuentes, mi è venuto in mente un film georgiano del 2021, What Do We See When We Look at the Sky? di Alexandre Koberidze, soprattutto per il tono giocoso e l’approccio originale che contraddistingue le due opere, ed è raro trovare questo tipo di cinema al giorno d’oggi (il regista alza i pollici in alto come segno di approvazione per il paragone, n.d.r.). Purtroppo il cinema sta diventando sempre più scontato e privo di inventiva, per questo sono grato che ci siano film come Los Delincuentes. Sempre rimanendo su questo tono “giocoso” che contraddistingue la tua opera, mi è venuto in mente anche il cinema di Jacques Rivette, uno degli autori più rinomati della Nouvelle Vague, soprattutto perché in una delle sequenze iniziali riprendi alcuni edifici in una certa maniera, e di sottofondo si può sentire un brano ritmato, un tango, e questo mi ha ricordato una scena di Le Pont du Nord (1981) dove la protagonista, Batipste, gira la città in motorino con la canzone Libertango di Astor Piazzolla in sottofondo. Quindi volevo togliermi questa curiosità e chiederti se Jacques Rivette è stato in qualche modo una fonte d’ispirazione per Los Delincuentes e per il tuo cinema in generale.
Più che la Nouvelle Vague, preferisco citare il modernismo francese ed europeo come una delle fonti di ispirazione del mio cinema. Ovviamente, Rivette è stato una reference per me, anche perché è stato uno dei cineasti più grandi di quel periodo, insieme a Jacques Rozier, Eric Rohmer, Francois Truffaut e Jean-Luc Godard. Detto questo, ti ringrazio per il paragone. È buffo che mi hai chiesto di Rivette perché ieri, in una delle classi universitarie dove insegno, ho mostrato proprio Céline et Julie vont en bateau (1974). Mi piace molto il suo stile, ma devo ammettere che non ho pensato a lui nello specifico mentre lavoravo a Los Delincuentes. C’erano altri cineasti che mi erano venuti in mente, come ad esempio il già citato Rozier, il regista di Adieu Philippine (1962) e Du côté d’Orouët (1971), soprattutto perché i suoi film sono caratterizzati da quella sensazione di “libertà” che gli ha permesso di sperimentare con la narrativa, trovando nuovi modi e percorsi diversi per raccontare una storia. Vorrei citare anche Jean-Pierre Melville, ma anche Claude Chabrol per il modo in cui hanno preso in genere thriller e il noir e l’hanno rivoluzionato. E non posso non citare Ermanno Olmi, ho copiato una sequenza che era presente ne I Fidanzati (1963), quella in cui Roman prende la mano di Norma e scappano nella foresta.
Ora vorrei chiederti del concetto di dualismo all’interno del film, anche perché l’hai sviluppato più volte in maniera diversa, come ad esempio nell’utilizzo di specchi o dello split-screen, ma anche nella ripetizione di certe sequenze, come il giovane studente della moglie di Román che chiede al protagonista di versargli l’acqua più volte, in due istanti precisi del film. Ed infine hai sviluppato questo concetto anche con l’attore Germán de Silva, che ha il duplice ruolo del capo bancario e del “capo” malavitoso nella prigione. Puoi approfondire queste idee dietro al concetto del dualismo nel film? Inoltre, volevo anche chiederti la motivazione dietro al geniale uso degli anagrammi per i nomi dei vari personaggi.
Ci sono diverse motivazioni legate a queste scelte. Innanzitutto, mi aiutano a costruire l’artificio alla base del film; ovvero quello che mi permette di raccontare una storia surreale dove il pubblico non possa credere che quello che sta vedendo possa avvenire nella vita reale. Il contrario sarebbe una tragedia per me perché rappresenta la negazione del cinema e quello che dovrebbe trasmette. Quindi, per combattere questa concezione, ho deciso di rendere più evidente il lato “artificiale” del film, ad esempio utilizzando diversi anagrammi per i nomi dei personaggi, o la scelta di far interpretare un duplice ruolo a Germán de Silva. Inoltre, queste scelte sono connesse anche al fato, al destino di questi personaggi, che è molto simile nel caso di Morán e Román. Questa è un’altra motivazione legata all’uso degli anagrammi; il termine indica diverse parole formate dalle stesse lettere e nel film assume un significato simile, diversi destini, ma raggiunti a partire dagli stessi “elementi”, la stessa ragazza, lavoro, luoghi… Poi c’è il lato giocoso nell’ideare il destino di questi personaggi, “cosa faresti se tu fossi Morán? E Román?”. Anche la scelta di utilizzare lo split-screen è stata fondamentale per rimarcare questo concetto.
La mia prossima domanda è legata alla concezione del tempo all’interno del film. Ho rivisto Los Delincuentes di recente con un amico, e ad un certo punto ci siamo chiesti in quale anno/decennio fosse ambientato. Questo mi ha fatto riflettere, perché nel film vengono citati telefoni cellulari, ma l’apparecchiatura tecnologica all’interno della banca, come i calcolatori, sembra molto datata, o anche le automobili presenti nel film, queste hanno un’estetica non dei giorni nostri. Poi si possono vedere persone indossare le mascherine, probabilmente per via della pandemia, ed infine, quando Román è al cinema, si possono intravedere poster di film usciti negli ultimi anni, come Le livre d’image (2018) di Jean-Luc Godard. Quindi, volevo chiederti se potevi dirmi qualcosa su questa caratteristica del film.
Tutto quello che dici è corretto ed era voluto. Innanzitutto, devo ammettere che ho un problema con l’oggettistica; da un punto di vista del linguaggio cinematografico, preferisco inserire e riprendere un vecchio calcolatore piuttosto che un MacBook Pro o un iPhone. E lo stesso vale con le automobili, preferisco il design degli anni ‘90 rispetto alle grosse autovetture che circolano oggi. Queste scelte però non sono dettate solo dall’estetica del film, infatti aiutano a rafforzare il concetto che stavo spiegando nella risposta precedente, quello legato al realismo dell’opera. Non m’interessa se la banca non sembra quella dei giorni nostri, e mi chiedo quale sia il senso di fare questo quando stai girando un film… posso fare quello che voglio. Sempre riguardo le banche, oggi c’è anche la questione virtuale, il denaro non viene quasi mai passato di mano in mano, ci sono tecnologie che hanno questa funzione. Poi, siccome volevo rappresentare una rapina dal punto di vista cinematografico, dovevo creare la banca “adatta”. Il discorso continua anche per quanto riguarda la prigione, le divise ricordano Alcatraz e non quelle che si usano in Argentina oggi. Questi dettagli sono stati pianificati nel dettaglio con il mio scenografo. Ci sono degli aspetti che si prestano al mondo del cinema ed altri no. Ad esempio il fumare, non sono un fumatore, ma amo riprendere le persone che fumano, è un gesto così cinematografico.
Proprio riguardo a quest’ultima cosa che hai detto, penso che lo split-screen con Morán e Román che fumano sia una delle inquadrature più belle dello scorso anno.
Ti ringrazio (il regista ride, n.d.r.).
Sempre rimanendo su Román e Morán, volevo chiederti dei due grandi attori che li interpretano, Esteban Bigliardi e Daniel Elías. Dopo aver visto Los Delincuentes ho iniziato ad approfondire la filmografia del primo e l’ho apprezzato molto nelle vostre collaborazioni precedenti in Un mundo misterioso (2011) e Reimon (2014), ma non solo, di recente mi ha impressionato anche in La práctica (2023) di Martín Rejtman e La sociedad de la nieve (2023) di J.A. Bayona. Volevo chiederti se potevi dirmi qualcosa su com'è stato lavorare con entrambi in Los Delincuentes.
Visto che hai citato le mie precedenti collaborazioni con Esteban, puoi intuire che ci sia un rapporto ormai consolidato tra noi. Mi piace molto come attore perché c’è qualcosa di “nobile” nel modo in cui vive i personaggi che interpreta e, come regista, mi piace il modo in cui padroneggia la scena. Ogni volta che penso ad un nuovo film, non riesco a non pensare ad Esteban in uno dei ruoli principali, lo stesso con Germán De Silva. Per quanto riguarda Daniel Elías, è un attore nuovo per me, una vera rivelazione. Ha questo forte accento del nord dell’Argentina che magari può sfuggire ad un pubblico internazionale, ma qui è qualcosa che si nota facilmente, perché è piuttosto atipico sentire quel tipo di accento in un protagonista. Per farti capire, in Italia, è come se tu fossi abituato all’accento tipico di Roma e ad un certo punto arriva quell’attore con un accento del sud che risalta, non lo so, come Massimo Troisi, o Totò. Qui è lo stesso, Daniel ha questo accento che mi piace molto. Inoltre, è molto carismatico e ha una certa “pazzia” che mi affascina, spero di collaborare con lui e Germán De Silva nel mio prossimo film.
Quindi posso intuire che hai già in mente un nuovo progetto?
Si, ho diverse idee in mente al momento. Vorrei girare questo film alla fine dell’anno… ma come sai la situazione in Argentina è piuttosto tragica, è come se stessimo vivendo nell’era del fascismo. Lui (riferendosi al presidente dell’Argentina Javier Milei, n.d.r.) sta tagliando fondi ovunque, dal cinema, alla scienza e perfino dal sistema educativo nazionale… sta cercando di distruggere la Nazione! È un momento difficile e il futuro non sembra promettente. Non mi piace piangermi addosso, anche perché ho una posizione da privilegiato, posso pensare e produrre nuovi progetti, visto il successo a livello mondiale di Los Delincuentes, ma alcune difficoltà rimangono sempre. Comunque, se riesco, vorrei girare questo nuovo film verso novembre o dicembre, sarà un progetto più piccolo rispetto a Los Delincuentes e sarà incentrato su questo rapporto tra padre e figlio. Sarà ambientato a Buenos Aires e i due protagonisti andranno in diversi bar della città, il loro intento è di “visitare” questi luoghi prima che spariscano. Nel senso, ormai antichi locali stanno chiudendo ovunque in tutto il mondo per via della gentrificazione della società. Inoltre, mi piacerebbe fare un film in lingua francese o comunque in Francia, non so come sarà o di cosa tratterà, ma so che voglio ambientarlo in questi villaggi del sud della regione.
Nella seconda parte del film c’è una sequenza ambientata nella prigione dove Morán legge un poema tratto da La obsesión del espacio di Ricardo Zelarayán. Questa scena mi ha colpito molto perché è come se il personaggio avesse un momento di catarsi e iniziasse a trovare la “libertà” tramite una forma artistica. Volevo chiederti se potevi dirmi qualcosa sulla scelta di questo specifico passaggio letterario.
È piuttosto semplice. Volevo che Morán scoprisse il mondo della poesia all’interno della prigione perché rafforza quel concetto che citavo all’inizio riguardo alla produttività, ovvero quel contrasto tra il tempo in cui facciamo qualcosa di produttivo per noi stessi e il tempo di produttività che la società ci impone con il lavoro e la routine quotidiana. La “poesia” assume anche un significato più profondo se prendi in considerazione il personaggio di Ramón, il documentarista, lui sta girando questo film e sì, ha qualche idea di base legata alla natura e alle praterie, ma non sa esattamente cosa sta facendo. Queste scelte supportano e difendono l’idea di “non produttività”. Per quanto riguarda il poema di Zelarayán, La Gran Salina, devi sapere che a volte alcune scelte che faccio non hanno per forza un significato “profondo”; il poema mi piace molto, volevo inserirlo nel film, ma non sapevo se avrebbe funzionato in quel contesto. Non ero interessato a utilizzarlo in una maniera pedagogica, ma dopo aver terminato il film, mi sono reso conto che le parole di Zelarayán assumono un importante significato per Morán se si pensa a quello che gli è successo all’interno della storia.
Un altro elemento che ho apprezzato molto del film è l’uso della musica e della colonna sonora. All’inizio pensavo che le composizioni musicali che sentiamo fossero originali, ma poi ho scoperto che sono di Astor Piazzolla, cosa mi puoi dire di questo aspetto?
Volevo un tipo di musica che sapesse evocare certe atmosfere legate al cinema del passato, come quello di Melville e Chabrol, per questo li avevo citati in precedenza. Non mi piace la musica contemporanea che il cinema odierno adopera, è ovvia, troppo prevedibile, e da un punto di vista musicale, non credo sia “ricca” per i miei gusti. Cercavo una composizione con l’oboe, qualcosa di particolare, e poi ho trovato un brano di Astor Piazzolla, uno dei compositori più rinomati dello scorso secolo in Argentina. La maggior parte delle sue composizioni sono state realizzate per il bandoneon, lo strumento musicale fondamentale nelle orchestre di tango, che lui riuscì a suonare in una maniera davvero sofisticata ed innovativa. Non so perché, ma ho trovato questa composizione per oboe e non per bandoneon, ed era pure inedita, nessuna l’aveva mai registrata tranne questa orchestra in Romania durante la pandemia. Sono riuscito ad ottenere i diritti facilmente e l’ho utilizzata per lo più nella prima parte del film. Nella seconda, c’è un’altra composizione per oboe, ma questa volta del compositore francese Francis Poulenc. Questa sinfonia evocava alla perfezione i film noir. Ho anche utilizzato un brano composto da Camille Saint-Saëns per arpa e ovviamente la musica rock di Pappo’s Blues. Norberto Napolitano, soprannominato Pappo è stato uno dei chitarristi migliori della storia musicale dell’Argentina e la sua band, Pappo’s Blues, è diventata celebre per questo dry rock che facevano negli anni ‘70. Ho utilizzato diversi brani della band per il soundtrack, quello che risalta di più è Adónde está la libertad nella scena finale, anche perché la connessione con la storia mi sembra ovvia.
Prima di concludere l’intervista volevo parlare con te di un argomento che non riguarda il film, ovvero l’attuale clima politico in Argentina. Come citavi prima, il presidente Javier Milei sta imponendo dei tagli drastici che stanno riguardando ogni aspetto della società. Vuoi aggiungere qualcos’altro per riaffermare il tuo punto di vista sulla questione?
Penso che dopo la pandemia, il mondo sia peggiorato. Discorsi d’odio hanno iniziato a caratterizzare le nostre società, soprattutto la politica, e questi sono basati sul mépris, il disprezzo verso l’altro. In poco tempo questi si sono diffusi nei media e nei social media. Questo è quello che è successo in Argentina, ma anche in Italia e negli Stati Uniti. Il partito di estrema destra ha sfruttato in maniera intelligente questi hate speech per trarre vantaggio. Milei rispecchia tutto questo. Cosa possiamo fare in questa situazione? Innanzitutto, bisognerebbe creare dei nuovi linguaggi in grado di contrastare e competere contro questa “cultura dell’odio”. In questo caso, sembrerebbe naive da parte mia dire che bisogna combattere l’odio con l’amore, e non è neanche quello che intendo. Bisogna parlare di umanismo, e quello che possiamo fare è semplicemente essere noi stessi, avere certi valori e non distruggere la comunità che ci circonda. Quello che posso dire è questo; il senso di appartenenza ad una comunità o ad un gruppo può contrastare l’egoismo e l’individualismo di certi soggetti.
INT-69
21.04.2024
Cosa possiamo fare per provare a sfuggire o evadere dalla monotonia lavorativa che la società ci impone? Si potrebbe ideare una rapina in banca, ad esempio, così da non poter mai più aver bisogno di lavorare... Ci sono dei lati negativi ovviamente, bisogna scontare qualche anno in galera, ma dopo questo periodo si può finalmente ottenere quella libertà tanto agognata. È questo il ragionamento che compie Morán (Daniel Elías), il protagonista di Los Delincuentes, la nuova fantasmagorica opera di Rodrigo Moreno.
Stanco della sua grigia esistenza, Morán decide di attuare il piano descritto; rubare dalla banca in cui lavora, nascondere i soldi, farsi arrestare e trascorrere qualche anno in galera. Ma per far sì che tutto questo funzioni, coinvolgerà anche il collega Román (Esteban Bigliardi), che avrà l’incarico di custodire i soldi. La banca, però, investigherà sull’accaduto e questo fatto metterà sotto pressione quest’ultimo, che deciderà di recarsi verso un’idilliaca e remota zona rurale per nascondere la refurtiva. Una volta giunto a meta, incontrerà una donna misteriosa, Norma (Margarita Molfino), che cambierà per sempre la sua vita.
Los Delincuentes ha probabilmente rappresentato una delle migliori opere del 2023. Abbiamo avuto il piacere di intervistare Rodrigo Moreno, il regista del film, che ci ha parlato a lungo delle varie reference cinematografiche all’interno del suo lavoro, approfondito il concetto di dualismo, l’uso della musica e la concezione del tempo legata alla storia, ed infine fatto una piccola digressione politica sulla tragica situazione che sta affliggendo l’Argentina.
Los Delincuentes è attualmente nelle sale italiane grazie a Lucky Red, che per l’occasione ha collaborato con MUBI per portare il film sul grande schermo prima dello sbarco sulla piattaforma streaming alla fine di maggio.
Mi piacerebbe cominciare questa conversazione chiedendoti dei personaggi principali dei tuoi film, poiché essi sono sempre alla ricerca della “libertà” come mezzo per evadere da un contesto di reclusione sociale ed emotiva. Come mai sei interessato a raccontare questo tipo di storie? Come sviluppi queste tipologie di personaggi?
Credo che tutti i miei film abbiamo un soggetto e una tematica simile, ovvero quella della relazione tra l’individuo e il mondo del lavoro, più nello specifico l’idea della produttività e del tempo di “non produttività”. Los Delincuentes è un nuovo step verso questa direzione sia da un punto di vista tematico che stilistico; il film è un mix di generi, è una commedia, ma anche un heist movie, un dramma esistenziale, una love story e c’è anche un po’ di avventura. Il mio obiettivo era quello di sperimentare con diversi generi, personaggi, paesaggi e scenari. Avevo in mente tutte queste caratteristiche quando ho iniziato la lavorazione del film, anche prima di ideare i protagonisti. Questo perché quando scrivo un personaggio, non sono interessato alla caratterizzazione psicologica, la cosiddetta “psicologia del personaggio”, aspetto che caratterizza il cinema contemporaneo. Di solito, nelle mie sceneggiature ci sono solo alcune indicazioni sui personaggi, il resto dipende dagli attori e da come li riprendo sul set. Il risultato finale è questo peculiare mix tra documentario e finzione.
Uno dei punti di partenza e delle maggiori influenze per Los Delincuentes è stato il grande classico del cinema argentino Apenas un delincuente (1949) di Hugo Fregonese, cosa ti ha colpito maggiormente di questo film? Los Delincuentes si potrebbe definire una modernizzazione di quella storia?
Molti anni fa, Hernán Musaluppi, uno dei produttori di Los Delincuentes, ma anche dei miei primi due lungometraggi, El custodio (2006) e Un mundo misterioso (2011), mi diede la possibilità di girare un remake di quel film. Mi aveva rassicurato dicendo che aveva i diritti per produrre il progetto, ma alla fine non era vero. Non avevo ancora visto il film, ma quando lo feci, rimasi sbalordito da questo eccellente noir degli anni ‘40 che incapsula perfettamente quel periodo storico, dalla lingua al portamento delle persone. All’inizio del film c’è un overture dove il protagonista, Morán, parla del fatto che deve andare a lavorare ogni singolo giorno e di come questa routine sia come una nuova forma di schiavitu. Questa scena rappresenta qualcosa che non si era mai vista in un film noir, infatti è impossibile trovare questo aspetto esistenziale in quel tipo di opere negli anni ‘40. Inoltre, come puoi notare, ho voluto preservare il nome del protagonista in Los Delincuentes. Questo è stato un punto importante che mi ha spinto ad iniziare questo progetto, ma allo stesso tempo, non volevo fare un remake vero e proprio, ho preferito rimodellare ed adattare quella narrativa in un nuovo contesto. Apenas un delincuente è stato il punto di partenza, ma la storia si è poi evoluta verso direzioni che mai mi sarei immaginato. Inoltre, è stato davvero meraviglioso creare questo tipo di dialogo con il cinema classico argentino. Dico questo perché la mia generazione di cineasti ha cercato di eliminare ogni forma di dialogo con il cinema tradizionale. Quando siamo “comparsi” per la prima volta nel panorama cinematografico a inizio secolo, ci siamo ribellati contro quel tipo di cinema, lo odiavamo, anche se c’era qualche eccezione, ovviamente. Ma in questo periodo della mia vita, sto cercando di riconnettermi con la tradizione e usarla per compiere un passo avanti nella mia carriera. E sono sicuro che si può fare un discorso simile anche con il cinema italiano; per esempio, quando guardi un film di Alice Rohrwacher, puoi riconoscere degli elementi che appartengono ad alcuni grandi classici del cinema italiano, è interessante riscoprire e, soprattutto, riconoscere il cinema tradizionale della propria nazione.
Rimanendo sempre sul discorso delle referenze cinematografiche, quando guardavamo Los Delincuentes, mi è venuto in mente un film georgiano del 2021, What Do We See When We Look at the Sky? di Alexandre Koberidze, soprattutto per il tono giocoso e l’approccio originale che contraddistingue le due opere, ed è raro trovare questo tipo di cinema al giorno d’oggi (il regista alza i pollici in alto come segno di approvazione per il paragone, n.d.r.). Purtroppo il cinema sta diventando sempre più scontato e privo di inventiva, per questo sono grato che ci siano film come Los Delincuentes. Sempre rimanendo su questo tono “giocoso” che contraddistingue la tua opera, mi è venuto in mente anche il cinema di Jacques Rivette, uno degli autori più rinomati della Nouvelle Vague, soprattutto perché in una delle sequenze iniziali riprendi alcuni edifici in una certa maniera, e di sottofondo si può sentire un brano ritmato, un tango, e questo mi ha ricordato una scena di Le Pont du Nord (1981) dove la protagonista, Batipste, gira la città in motorino con la canzone Libertango di Astor Piazzolla in sottofondo. Quindi volevo togliermi questa curiosità e chiederti se Jacques Rivette è stato in qualche modo una fonte d’ispirazione per Los Delincuentes e per il tuo cinema in generale.
Più che la Nouvelle Vague, preferisco citare il modernismo francese ed europeo come una delle fonti di ispirazione del mio cinema. Ovviamente, Rivette è stato una reference per me, anche perché è stato uno dei cineasti più grandi di quel periodo, insieme a Jacques Rozier, Eric Rohmer, Francois Truffaut e Jean-Luc Godard. Detto questo, ti ringrazio per il paragone. È buffo che mi hai chiesto di Rivette perché ieri, in una delle classi universitarie dove insegno, ho mostrato proprio Céline et Julie vont en bateau (1974). Mi piace molto il suo stile, ma devo ammettere che non ho pensato a lui nello specifico mentre lavoravo a Los Delincuentes. C’erano altri cineasti che mi erano venuti in mente, come ad esempio il già citato Rozier, il regista di Adieu Philippine (1962) e Du côté d’Orouët (1971), soprattutto perché i suoi film sono caratterizzati da quella sensazione di “libertà” che gli ha permesso di sperimentare con la narrativa, trovando nuovi modi e percorsi diversi per raccontare una storia. Vorrei citare anche Jean-Pierre Melville, ma anche Claude Chabrol per il modo in cui hanno preso in genere thriller e il noir e l’hanno rivoluzionato. E non posso non citare Ermanno Olmi, ho copiato una sequenza che era presente ne I Fidanzati (1963), quella in cui Roman prende la mano di Norma e scappano nella foresta.
Ora vorrei chiederti del concetto di dualismo all’interno del film, anche perché l’hai sviluppato più volte in maniera diversa, come ad esempio nell’utilizzo di specchi o dello split-screen, ma anche nella ripetizione di certe sequenze, come il giovane studente della moglie di Román che chiede al protagonista di versargli l’acqua più volte, in due istanti precisi del film. Ed infine hai sviluppato questo concetto anche con l’attore Germán de Silva, che ha il duplice ruolo del capo bancario e del “capo” malavitoso nella prigione. Puoi approfondire queste idee dietro al concetto del dualismo nel film? Inoltre, volevo anche chiederti la motivazione dietro al geniale uso degli anagrammi per i nomi dei vari personaggi.
Ci sono diverse motivazioni legate a queste scelte. Innanzitutto, mi aiutano a costruire l’artificio alla base del film; ovvero quello che mi permette di raccontare una storia surreale dove il pubblico non possa credere che quello che sta vedendo possa avvenire nella vita reale. Il contrario sarebbe una tragedia per me perché rappresenta la negazione del cinema e quello che dovrebbe trasmette. Quindi, per combattere questa concezione, ho deciso di rendere più evidente il lato “artificiale” del film, ad esempio utilizzando diversi anagrammi per i nomi dei personaggi, o la scelta di far interpretare un duplice ruolo a Germán de Silva. Inoltre, queste scelte sono connesse anche al fato, al destino di questi personaggi, che è molto simile nel caso di Morán e Román. Questa è un’altra motivazione legata all’uso degli anagrammi; il termine indica diverse parole formate dalle stesse lettere e nel film assume un significato simile, diversi destini, ma raggiunti a partire dagli stessi “elementi”, la stessa ragazza, lavoro, luoghi… Poi c’è il lato giocoso nell’ideare il destino di questi personaggi, “cosa faresti se tu fossi Morán? E Román?”. Anche la scelta di utilizzare lo split-screen è stata fondamentale per rimarcare questo concetto.
La mia prossima domanda è legata alla concezione del tempo all’interno del film. Ho rivisto Los Delincuentes di recente con un amico, e ad un certo punto ci siamo chiesti in quale anno/decennio fosse ambientato. Questo mi ha fatto riflettere, perché nel film vengono citati telefoni cellulari, ma l’apparecchiatura tecnologica all’interno della banca, come i calcolatori, sembra molto datata, o anche le automobili presenti nel film, queste hanno un’estetica non dei giorni nostri. Poi si possono vedere persone indossare le mascherine, probabilmente per via della pandemia, ed infine, quando Román è al cinema, si possono intravedere poster di film usciti negli ultimi anni, come Le livre d’image (2018) di Jean-Luc Godard. Quindi, volevo chiederti se potevi dirmi qualcosa su questa caratteristica del film.
Tutto quello che dici è corretto ed era voluto. Innanzitutto, devo ammettere che ho un problema con l’oggettistica; da un punto di vista del linguaggio cinematografico, preferisco inserire e riprendere un vecchio calcolatore piuttosto che un MacBook Pro o un iPhone. E lo stesso vale con le automobili, preferisco il design degli anni ‘90 rispetto alle grosse autovetture che circolano oggi. Queste scelte però non sono dettate solo dall’estetica del film, infatti aiutano a rafforzare il concetto che stavo spiegando nella risposta precedente, quello legato al realismo dell’opera. Non m’interessa se la banca non sembra quella dei giorni nostri, e mi chiedo quale sia il senso di fare questo quando stai girando un film… posso fare quello che voglio. Sempre riguardo le banche, oggi c’è anche la questione virtuale, il denaro non viene quasi mai passato di mano in mano, ci sono tecnologie che hanno questa funzione. Poi, siccome volevo rappresentare una rapina dal punto di vista cinematografico, dovevo creare la banca “adatta”. Il discorso continua anche per quanto riguarda la prigione, le divise ricordano Alcatraz e non quelle che si usano in Argentina oggi. Questi dettagli sono stati pianificati nel dettaglio con il mio scenografo. Ci sono degli aspetti che si prestano al mondo del cinema ed altri no. Ad esempio il fumare, non sono un fumatore, ma amo riprendere le persone che fumano, è un gesto così cinematografico.
Proprio riguardo a quest’ultima cosa che hai detto, penso che lo split-screen con Morán e Román che fumano sia una delle inquadrature più belle dello scorso anno.
Ti ringrazio (il regista ride, n.d.r.).
Sempre rimanendo su Román e Morán, volevo chiederti dei due grandi attori che li interpretano, Esteban Bigliardi e Daniel Elías. Dopo aver visto Los Delincuentes ho iniziato ad approfondire la filmografia del primo e l’ho apprezzato molto nelle vostre collaborazioni precedenti in Un mundo misterioso (2011) e Reimon (2014), ma non solo, di recente mi ha impressionato anche in La práctica (2023) di Martín Rejtman e La sociedad de la nieve (2023) di J.A. Bayona. Volevo chiederti se potevi dirmi qualcosa su com'è stato lavorare con entrambi in Los Delincuentes.
Visto che hai citato le mie precedenti collaborazioni con Esteban, puoi intuire che ci sia un rapporto ormai consolidato tra noi. Mi piace molto come attore perché c’è qualcosa di “nobile” nel modo in cui vive i personaggi che interpreta e, come regista, mi piace il modo in cui padroneggia la scena. Ogni volta che penso ad un nuovo film, non riesco a non pensare ad Esteban in uno dei ruoli principali, lo stesso con Germán De Silva. Per quanto riguarda Daniel Elías, è un attore nuovo per me, una vera rivelazione. Ha questo forte accento del nord dell’Argentina che magari può sfuggire ad un pubblico internazionale, ma qui è qualcosa che si nota facilmente, perché è piuttosto atipico sentire quel tipo di accento in un protagonista. Per farti capire, in Italia, è come se tu fossi abituato all’accento tipico di Roma e ad un certo punto arriva quell’attore con un accento del sud che risalta, non lo so, come Massimo Troisi, o Totò. Qui è lo stesso, Daniel ha questo accento che mi piace molto. Inoltre, è molto carismatico e ha una certa “pazzia” che mi affascina, spero di collaborare con lui e Germán De Silva nel mio prossimo film.
Quindi posso intuire che hai già in mente un nuovo progetto?
Si, ho diverse idee in mente al momento. Vorrei girare questo film alla fine dell’anno… ma come sai la situazione in Argentina è piuttosto tragica, è come se stessimo vivendo nell’era del fascismo. Lui (riferendosi al presidente dell’Argentina Javier Milei, n.d.r.) sta tagliando fondi ovunque, dal cinema, alla scienza e perfino dal sistema educativo nazionale… sta cercando di distruggere la Nazione! È un momento difficile e il futuro non sembra promettente. Non mi piace piangermi addosso, anche perché ho una posizione da privilegiato, posso pensare e produrre nuovi progetti, visto il successo a livello mondiale di Los Delincuentes, ma alcune difficoltà rimangono sempre. Comunque, se riesco, vorrei girare questo nuovo film verso novembre o dicembre, sarà un progetto più piccolo rispetto a Los Delincuentes e sarà incentrato su questo rapporto tra padre e figlio. Sarà ambientato a Buenos Aires e i due protagonisti andranno in diversi bar della città, il loro intento è di “visitare” questi luoghi prima che spariscano. Nel senso, ormai antichi locali stanno chiudendo ovunque in tutto il mondo per via della gentrificazione della società. Inoltre, mi piacerebbe fare un film in lingua francese o comunque in Francia, non so come sarà o di cosa tratterà, ma so che voglio ambientarlo in questi villaggi del sud della regione.
Nella seconda parte del film c’è una sequenza ambientata nella prigione dove Morán legge un poema tratto da La obsesión del espacio di Ricardo Zelarayán. Questa scena mi ha colpito molto perché è come se il personaggio avesse un momento di catarsi e iniziasse a trovare la “libertà” tramite una forma artistica. Volevo chiederti se potevi dirmi qualcosa sulla scelta di questo specifico passaggio letterario.
È piuttosto semplice. Volevo che Morán scoprisse il mondo della poesia all’interno della prigione perché rafforza quel concetto che citavo all’inizio riguardo alla produttività, ovvero quel contrasto tra il tempo in cui facciamo qualcosa di produttivo per noi stessi e il tempo di produttività che la società ci impone con il lavoro e la routine quotidiana. La “poesia” assume anche un significato più profondo se prendi in considerazione il personaggio di Ramón, il documentarista, lui sta girando questo film e sì, ha qualche idea di base legata alla natura e alle praterie, ma non sa esattamente cosa sta facendo. Queste scelte supportano e difendono l’idea di “non produttività”. Per quanto riguarda il poema di Zelarayán, La Gran Salina, devi sapere che a volte alcune scelte che faccio non hanno per forza un significato “profondo”; il poema mi piace molto, volevo inserirlo nel film, ma non sapevo se avrebbe funzionato in quel contesto. Non ero interessato a utilizzarlo in una maniera pedagogica, ma dopo aver terminato il film, mi sono reso conto che le parole di Zelarayán assumono un importante significato per Morán se si pensa a quello che gli è successo all’interno della storia.
Un altro elemento che ho apprezzato molto del film è l’uso della musica e della colonna sonora. All’inizio pensavo che le composizioni musicali che sentiamo fossero originali, ma poi ho scoperto che sono di Astor Piazzolla, cosa mi puoi dire di questo aspetto?
Volevo un tipo di musica che sapesse evocare certe atmosfere legate al cinema del passato, come quello di Melville e Chabrol, per questo li avevo citati in precedenza. Non mi piace la musica contemporanea che il cinema odierno adopera, è ovvia, troppo prevedibile, e da un punto di vista musicale, non credo sia “ricca” per i miei gusti. Cercavo una composizione con l’oboe, qualcosa di particolare, e poi ho trovato un brano di Astor Piazzolla, uno dei compositori più rinomati dello scorso secolo in Argentina. La maggior parte delle sue composizioni sono state realizzate per il bandoneon, lo strumento musicale fondamentale nelle orchestre di tango, che lui riuscì a suonare in una maniera davvero sofisticata ed innovativa. Non so perché, ma ho trovato questa composizione per oboe e non per bandoneon, ed era pure inedita, nessuna l’aveva mai registrata tranne questa orchestra in Romania durante la pandemia. Sono riuscito ad ottenere i diritti facilmente e l’ho utilizzata per lo più nella prima parte del film. Nella seconda, c’è un’altra composizione per oboe, ma questa volta del compositore francese Francis Poulenc. Questa sinfonia evocava alla perfezione i film noir. Ho anche utilizzato un brano composto da Camille Saint-Saëns per arpa e ovviamente la musica rock di Pappo’s Blues. Norberto Napolitano, soprannominato Pappo è stato uno dei chitarristi migliori della storia musicale dell’Argentina e la sua band, Pappo’s Blues, è diventata celebre per questo dry rock che facevano negli anni ‘70. Ho utilizzato diversi brani della band per il soundtrack, quello che risalta di più è Adónde está la libertad nella scena finale, anche perché la connessione con la storia mi sembra ovvia.
Prima di concludere l’intervista volevo parlare con te di un argomento che non riguarda il film, ovvero l’attuale clima politico in Argentina. Come citavi prima, il presidente Javier Milei sta imponendo dei tagli drastici che stanno riguardando ogni aspetto della società. Vuoi aggiungere qualcos’altro per riaffermare il tuo punto di vista sulla questione?
Penso che dopo la pandemia, il mondo sia peggiorato. Discorsi d’odio hanno iniziato a caratterizzare le nostre società, soprattutto la politica, e questi sono basati sul mépris, il disprezzo verso l’altro. In poco tempo questi si sono diffusi nei media e nei social media. Questo è quello che è successo in Argentina, ma anche in Italia e negli Stati Uniti. Il partito di estrema destra ha sfruttato in maniera intelligente questi hate speech per trarre vantaggio. Milei rispecchia tutto questo. Cosa possiamo fare in questa situazione? Innanzitutto, bisognerebbe creare dei nuovi linguaggi in grado di contrastare e competere contro questa “cultura dell’odio”. In questo caso, sembrerebbe naive da parte mia dire che bisogna combattere l’odio con l’amore, e non è neanche quello che intendo. Bisogna parlare di umanismo, e quello che possiamo fare è semplicemente essere noi stessi, avere certi valori e non distruggere la comunità che ci circonda. Quello che posso dire è questo; il senso di appartenenza ad una comunità o ad un gruppo può contrastare l’egoismo e l’individualismo di certi soggetti.