INT-73
06.06.2024
Fino a qualche mese fa, il nome di Payal Kapadia, giovane cineasta Indiana, non era così conosciuto se non all’interno di qualche stretta cerchia di cinefili che avevano apprezzato i suoi cortometraggi e A Night of Knowing Nothing (2021), la sua strabiliante opera prima, un documentario, con alcune parti di finzione, incentrato sulle proteste universitarie del 2015/16 in India. Tutto è cambiato nel corso delle ultime due settimane. La selezione del nuovo lavoro di Kapadia, All We Imagine As Light, nella Competizione ufficiale di Cannes ha stupito per varie ragioni; in primis per via della scarsa presenza di registe donne nella selezione principale del festival, e poi per il fatto che il film segna il ritorno del cinema indiano nel concorso principale dopo più di trent’anni d'assenza. Quando abbiamo sentito pronunciare questo nome da Thierry Fremaux durante l’annuncio della selezione, non abbiamo potuto trattenere la nostra gioia. Come già citato, A Night of Knowing Nothing aveva mostrato il grande potenziale di Kapadia dietro la macchina da presa, ed eravamo piuttosto curiosi di vedere cosa aveva in serbo per il suo secondo lungometraggio. All We Imagine As Light ruota attorno alle vite di un gruppo di donne che vivono nella città di Mumbai focalizzandosi sul loro desiderio di libertà, sia dal punto di vista lavorativo che sentimentale.
Una volta mostrato il film sulla Croisette, si poteva già intuire di aver visto qualcosa di speciale, ogni scelta stilistica di Kapadia ha conquistato il consenso di pubblico e critica grazie al modo, intimo e gioioso, con cui affronta le varie tematiche che trainano la storia. Ci si aspettava un premio importante per All We Imagine As Light, e il nostro desiderio si è avverato quando, alla serata dei riconoscimenti, Kapadia è salita sul palco per ritirare il Grand Prix della giuria. La vittoria della regista stupisce ancora di più se si pensa al fatto che, all’inizio, la sua opera era stata selezionata per competere in Un Certain Regard. Questa scelta rimarca quanto sia importante dare una possibilità a voci giovani ed audaci, piuttosto che limitarsi a selezionare i soliti cineasti veterani nella sezione principale.
Abbiamo avuto il grande piacere di intervistare Payal Kapadia, che ci ha raccontato delle principali fonti d’ispirazione del suo film, delle scelte stilistiche legate all’uso dei colori e della lunga fase di preparazione.
Dopo il grande successo al Festival di Cannes, All We Imagine As Light verrà distribuito prossimamente nelle nostre sale da Europictures, e non possiamo che consigliarne la visione.
Quello che mi ha più stupito di All We Imagine As Light è il modo in cui hai affrontato tematiche piuttosto complesse mantenendo sempre un tono gioioso. Volevo chiederti, com'è stato girare questo film nella tua regione natia e se hai trovato la lavorazione “difficile”?
Beh, più passa il tempo e più mi rendo conto di quanto sia difficile girare un film…sto diventando meno critica rispetto al lavoro degli altri registi (la regista scoppia a ridere, n.d.r.)! Comunque sempre più donne si stanno cimentando nella regia in India e, come puoi vedere, al Festival sono state presentate diverse opere che hanno per lo più come protagoniste delle donne. Detto questo, non credo sia una questione che riguarda una lavorazione “facile” o “difficile”, semplicemente devo fare quello di cui ho bisogno per la buona riuscita del film.
Hai inserito qualche esperienza personale legata al tuo passato nelle protagoniste?
Più o meno. Credo che determinate esperienze del passato siano in grado di condizionare le persone e aiutarle a capire chi siano veramente. Sono cresciuta in un ambiente dove erano presenti per lo più donne ed ero interessata ad analizzare quel rapporto di sorellanza che si crea tra esse e come spesso, in un paese come il mio, la gerarchia della società metta in difficoltà tali rapporti. Inoltre volevo mostrare la dinamica tra persone appartenenti a diverse generazioni e come non ci sia sempre supporto tra queste. Spero davvero in un cambiamento nel futuro, questo pensiero è stato sempre presente nella mia testa ed è stato naturale inserire questa tematica all’interno del film.
Parlando del titolo del film, All We Imagine As Light, volevo chiederti a chi ti riferissi con il “We”.
Tutti noi. Nel senso, è come se ognuno di noi non fosse consapevole che esista un percorso alternativo nella nostra vita. Non puoi pensare ad esso perché non sai che esiste. In questo senso, volevo fare un film dove i personaggi possono immaginare, o sperare, un’altra vita. E questa storia assume un valore universale all’interno dell’opera, non importa se questa sia ambientata in India o no, tutti noi abbiamo questi pensieri.
Quali sono stati i principali ostacoli che hai dovuto affrontare per realizzare questo film?
Ne abbiamo avuti molti, il principale è stato girare a Mumbai. È piuttosto costoso perché è la "capitale cinematografica" dell’India, dove ogni grande produzione realizza i propri progetti. Non avevamo le risorse economiche ovviamente, quindi ho dovuto adoperare un approccio da documentarista e girare tutto con una piccola telecamera. Sono stata fortunata perché i miei attori erano piuttosto entusiasti di girare certe scene con questa modalità, come ad esempio la sequenza dove la coppia sta camminando su Mohammed Ali Road. Abbiamo avuto molte conversazioni ed eravamo consapevoli che dovevamo girare in diversi posti e che gli attori dovevano immedesimarsi nei personaggi e inserirsi in modo adeguato nel contesto. Questo perché è piuttosto difficile girare in una strada piena di persone e far sembrare tutto il più naturale possibile (la regista ride, n.d.r.). Avendo diretto dei documentari in passato, mi piace questo stile non invasivo dove non sono costretta a utilizzare grosse telecamere o apparecchi simili, mi concede più libertà.
Quindi le altre persone non erano a conoscenza che stavate girando?
Si, è come un documentario. Hanno visto la camera, ma non sapevano cosa stavamo girando.
Hanno dovuto firmare qualche liberatoria?
No, non tutte le persone inquadrate nel background, altrimenti ci sarebbe voluta un’eternitá a finire il film (la regista ride, n.d.r.).
Quanto è importante il fatto che le tue protagoniste provengano da Kerala?
Ho scritto la sceneggiatura iniziale del film come progetto finale per il diploma dell’accademia di cinema che frequentavo, e durante quel periodo avevo stretto una forte amicizia con questa ragazza che lavorava come infermiera. Mi ricordo che mi raccontava spesso le lezioni in cui si doveva “allenare” per il suo futuro lavoro ed ero molto affascinata dalle sue storie. Ho pensato che sarebbe stato un buon soggetto per un cortometraggio, ma con il passare del tempo questo è diventato un lungometraggio su come sia l’esperienza di una donna che arriva a Mumbai per lavoro e come sia difficile rendere questa città la propria casa. Inoltre, ho notato come queste lavoratrici siano per lo più infermiere. Usare questo tipo di professione è stato piuttosto utile perché è un mestiere rispettato da tutti in India, e permette alle donne di lasciare i paesini rurali per trasferirsi in città. C’è anche l’aspetto linguistico che mi ha affascinato; le persone che provengono da Kerala parlano il malayalam (lingua dravidica tipica delle regioni meridionali dell’India, n.d.r.) e non tutti a Mumbai conoscono quella lingua. Forse in occidente non si conosce bene la questione delle lingue in India, ma non tutti parlano l’hindi. Il trovarsi a vivere in una città dove hai questi problemi legati alla comunicazione ha aggiunto uno strato interessante alla narrativa del film. Ma questo stato di alienazione può concederti anche una certa privacy in alcuni contesti e, ad esempio, puoi parlare con una persona tranquillamente in un luogo affollato senza che gli altri capiscano le vostre conversazioni.
C’è una frase all’interno del tuo film che mi ha colpito molto: “la città prende via il tuo tempo”. Cosa intendevi? Volevi contrapporre la realtà della città di Mumbai con quella rurale dei villaggi d’origine dei personaggi?
La città di Mumbai è piena di contraddizioni. Puoi avere più opportunità rispetto ad altre parti del Paese. Per le donne è più facile, si può trovare lavoro facilmente e può sembrare di aver raggiunto un senso di libertà. Ma allo stesso tempo, per raggiungere questa libertà, hai bisogno di soldi, la città è cara, altrimenti sei costretto a passare metà delle tue giornate sui treni o a vivere in pessime condizioni. Queste circostanze provocano infelicità, e spesso sei anche costretto a lasciare indietro la tua famiglia.
Quale è stata l’ispirazione principale dietro alla scrittura dei tuoi personaggi? Esperienze pregresse o persone del tuo passato?
Essendo una donna in India, noti certi dettagli sulle relazioni che le altre hanno attorno a te, sia le amicizie, che le situazioni sentimentali soprattutto. Come citavo prima, sono cresciuta in un ambiente con molte donne e, anche se la storia del film non è la “mia”, rivedo alcune parti di me stessa nelle protagoniste. Ho cercato di creare una serie di personaggi che ricordano principalmente delle persone che ho conosciuto nella mia vita. A volte, quando si fa un film si cerca di rispondere a certe domande per capire meglio il mondo che ci circonda, o almeno questa è la mia visione di quello che è il cinema.
Il modo in cui hai usato la musica mi ha davvero colpito.
Volevo qualcosa che richiamasse quella sensazione gioiosa. La colonna sonora appartiene a Emahoy Tsegué-Maryam Guèbrou, compositrice africana venuta a mancare lo scorso anno. Quando ho trovato la sua musica ho pensato “Aah…”, non so come descrivere la sensazione che ho provato (la regista ride, n.d.r.)... mi ha esaltato molto e ho pensato fosse perfetta per rappresentare l’amore della coppia di innamorati del film.
Vorrei parlare della palette di colori che hai usato nel film, soprattutto il modo in cui hai adoperato il blu, c’è qualche significato legato alla storia che volevi raccontare?
A Mumbai, durante la stagione dei monsoni, la luce diventa “blu” e dà quella sensazione di magia per qualche ora del giorno. Inoltre, essendo una luce “diffusa” si crea un contrasto maggiore con i colori. Poi, sempre per via delle piogge torrenziali caratteristiche di quel periodo, l’acqua spesso filtra nelle pareti provocando delle perdite. Come rimedio la gente locale mette dei teli di plastica blu per coprire le abitazioni. La stagione dei monsoni è un periodo assurdo (la regista ride, n.d.r.). Mentre la seconda parte del film, quella ambientata in un distretto a sud, è caratterizzata dalla presenza del colore rosso. Questo deriva per lo più dalla colorazione del suolo e dalla caratteristica pietra rossa della zona. Anche le abitazioni sono fatte con questo materiale.
L’ultima volta che un film di produzione indiana è stato selezionato in Competizione al festival di Cannes è stato trent’anni fa. Come ti senti a riguardo?
Sono rimasta davvero sorpresa della selezione ed è stato davvero un privilegio presentare il mio film in Competizione, soprattutto perché non è una grossa produzione. Nel 2021 ero stata selezionata alla Quinzaine des cinéastes per la mia opera precedente e ritornare al festival con un film nella sezione più importante è una sensazione folle! Inoltre, essere selezionata insieme ai cineasti che ho studiato in tutti questi anni è stato un grosso onore per me.
Nel 2019 eri stata selezionata alla Cannes Residency, cosa mi puoi raccontare di quell’esperienza?
Mi piace molto come l'industria cinematografica francese gestisce il lato della produzione. Non ci si focalizza solo sul punto di vista finanziario del progetto, ma ci si concentra su un ogni singolo aspetto per facilitare il lavoro al cineasta. Per dirti, quando stai scrivendo il tuo primo lungometraggio hai come la sensazione di impazzire… vuoi cercare di inserire più cose possibili e può essere un’esperienza piuttosto alienante perché non ti senti compreso. Sono una persona piuttosto metodica, mi piace avere in mente una struttura precisa da seguire e questa esperienza mi ha permesso di avere una panoramica a trecentosessanta gradi sull’industria, dalla fase di scrittura a quella in cui bisogna proporre o esporre i progetti nei market. Ho avuto l’occasione di vivere a Parigi e collaborare a stretto contatto con i produttori francesi, ma soprattutto, sono grata per il laboratorio di scrittura e tutto l’aiuto che mi hanno dato per la preparazione del mio primo lungometraggio di finzione.
Hai impiegato tanto tempo a completare la sceneggiatura?
Si, un'eternità. Ho partecipato alla Residency tra il 2019 e il 2020, prima del Covid, ma poi, visto quello che è successo, sono cambiate alcune cose. Stavo già lavorando per finire A Night of Knowing Nothing, ma ho continuato a scrivere la sceneggiatura di All We Imagine As Light. Solo nel 2022 sono riuscita ad ottenere i fondi per iniziare a girare il film.
Rimanendo sul discorso sceneggiatura, quello che mi ha davvero impressionato è l’abilità con cui sei riuscita ad affrontare certe tematiche, da quella dell’amicizia/sorellanza delle protagoniste fino al ruolo che la città ricopre nella vita di queste persone, per non parlare delle varie sottotrame romantiche che hai sviluppato. È stato difficile trovare un equilibrio tra tutti questi elementi?
Oh si, non puoi capire quanto. A volte mi chiedo perché abbia inserito così tante cose (la regista ride, n.d.r.)! Quando impieghi tanto tempo a scrivere una sceneggiatura cambi come persona, in questi anni sono maturata e le mie preoccupazioni sono cambiate, ho iniziato a immedesimarmi di più con certi aspetti dei miei personaggi. Questa crescita interiore mi ha aiutato a cambiare la percezione iniziale che avevo di All We Imagine As Light.
Nella seconda metà del film c’è una scena piuttosto intima tra due personaggi, provocherà qualche controversia in India? Come vengono viste le scene a sfondo sessuale dall’industria cinematografica Indiana?
A dire il vero negli ultimi anni c’è stato un cambiamento sotto questo aspetto, come se ci fosse una conversazione più “aperta” sulla sessualità nel cinema indiano. Ovviamente c’è la questione della censura, soprattutto se vuoi che il film raggiunga le sale cinematografiche… a volte impongono delle rigide censure su cose che non ti aspetteresti e di cui non capisco davvero il perché. Non credo ci saranno problemi per la scena che citi, ma bisognerà aspettare e vedere.
Ora vorrei chiederti del processo di casting delle protagoniste, mi ha fatto davvero piacere rivedere sullo schermo Divya Prabha, protagonista di Ariyippu (2022) di Mahesh Narayanan, la sua interpretazione mi aveva davvero impressionato.
Mi fa piacere che tu abbia visto il film e concordo con te, è stata bravissima in quel ruolo. Sono sempre stata una sua grande estimatrice, ma il ruolo di Anu è piuttosto diverso da quelli che aveva interpretato in passato. L’avevo invitata durante la fase dei casting perché inizialmente la vedevo nel ruolo di Prabha, l’altra infermiera, soprattutto perché lei riesce a interpretare personaggi che sono più “maturi” rispetto alla sua età. Ma poi, quando la stavo aspettando alla stazione e l’ho vista scendere dal treno, ho pensato “no”, doveva interpretare Anu perché é così simile al personaggio, è una persona gioiosa e piena di vita. È stato piuttosto rivelatorio perché ero abituata a vederla solo in un certo tipo di ruoli. Ha fatto un grandissimo lavoro e non potrei essere più felice di così. Per quanto riguarda Kani Kusruti, quando avevo iniziato a scrivere la sceneggiatura sei anni fa, la volevo nel ruolo dell’ infermiera giovane perché l’avevo notata in alcuni cortometraggi. Ma poi è passato un po’ di tempo… e siamo cresciute (la regista, n.d.r.). È un’attrice fantastica comunque, saprebbe interpretare qualunque ruolo le viene proposto. Lei è anche presente in Girls Will Be Girls, film che è stato presentato allo scorso Sundance Film Festival e che ha vinto l’Audience Award. Mentre Chhaya Kadam, l’attrice che interpreta la donna più grande del gruppo, è presente anche in Sister Midnight di Karan Kandhari, film presentato nella Quinzaine des cinéastes. È una veterana del cinema arthouse indiano e recita anche in grandi produzioni al di fuori dell’industria bollywoodiana. Nel 2013 ha fatto Fendry, un film davvero grazioso, uno dei più belli di quell’anno, Chhaya aveva una presenza sullo schermo davvero possente che mi ha colpito. Quando le avevo chiesto di partecipare al film, non ero sicura avrebbe accettato perché è un’attrice piuttosto nota in India.
C’è qualche connessione tra A Night of Knowing Nothing e All We Imagine As Light?
Più o meno, c’è stato un periodo in cui ho lavorato contemporaneamente ad entrambi i film e inoltre una delle tematiche principali delle due opere è l’amicizia.
Quali sono state le tue reference cinematografiche mentre preparavi All We Imagine As Light ?
Guardo tanti film, sono una grande cinefila. Per esempio, amo Miguel Gomes e mi è dispiaciuto perdere la première del suo film perché dovevo fare tutte queste interviste con i giornalisti (la regista ride, n.d.r.). Satyajit Ray è stata un’ispirazione sicuramente, l’ho studiato per anni e apprezzo molto i film che ha girato a Calcutta, come ad esempio Pratidwandi (1970). Inoltre, lui ha sempre utilizzato questo mix fra non fiction e fiction che sto cercando di implementare anche io. Mi piace molto anche il cinema di Alice Rohrwacher, Claire Denis e Agnès Varda. Amo tantissimo Cleo dalle 5 alle 7 (1962) della Varda, l’idea di seguire un personaggio che vaga per una città e che osserva varie situazioni, aspetto che richiama una narrativa non fiction, è stata una delle maggiori ispirazioni per il mio film e spero di aver fatto un buon lavoro.
So che può sembrare una domanda prematura, ma hai già in mente qualche progetto per il futuro?
A dire il vero si, ho in mente questo film non fiction, con una piccola parte di finzione. Come avrai capito, mi piace sperimentare con questi due aspetti, ci sono più possibilità e mi sento più libera. Di solito quando devi fare un film in India, si creano sempre grosse produzioni con un'ottantina di persone nella crew, poi bisogna rispettare delle ferree tabelle di marcia e molte limitazioni… preferisco lavorare più liberamente.
INT-73
06.06.2024
Fino a qualche mese fa, il nome di Payal Kapadia, giovane cineasta Indiana, non era così conosciuto se non all’interno di qualche stretta cerchia di cinefili che avevano apprezzato i suoi cortometraggi e A Night of Knowing Nothing (2021), la sua strabiliante opera prima, un documentario, con alcune parti di finzione, incentrato sulle proteste universitarie del 2015/16 in India. Tutto è cambiato nel corso delle ultime due settimane. La selezione del nuovo lavoro di Kapadia, All We Imagine As Light, nella Competizione ufficiale di Cannes ha stupito per varie ragioni; in primis per via della scarsa presenza di registe donne nella selezione principale del festival, e poi per il fatto che il film segna il ritorno del cinema indiano nel concorso principale dopo più di trent’anni d'assenza. Quando abbiamo sentito pronunciare questo nome da Thierry Fremaux durante l’annuncio della selezione, non abbiamo potuto trattenere la nostra gioia. Come già citato, A Night of Knowing Nothing aveva mostrato il grande potenziale di Kapadia dietro la macchina da presa, ed eravamo piuttosto curiosi di vedere cosa aveva in serbo per il suo secondo lungometraggio. All We Imagine As Light ruota attorno alle vite di un gruppo di donne che vivono nella città di Mumbai focalizzandosi sul loro desiderio di libertà, sia dal punto di vista lavorativo che sentimentale.
Una volta mostrato il film sulla Croisette, si poteva già intuire di aver visto qualcosa di speciale, ogni scelta stilistica di Kapadia ha conquistato il consenso di pubblico e critica grazie al modo, intimo e gioioso, con cui affronta le varie tematiche che trainano la storia. Ci si aspettava un premio importante per All We Imagine As Light, e il nostro desiderio si è avverato quando, alla serata dei riconoscimenti, Kapadia è salita sul palco per ritirare il Grand Prix della giuria. La vittoria della regista stupisce ancora di più se si pensa al fatto che, all’inizio, la sua opera era stata selezionata per competere in Un Certain Regard. Questa scelta rimarca quanto sia importante dare una possibilità a voci giovani ed audaci, piuttosto che limitarsi a selezionare i soliti cineasti veterani nella sezione principale.
Abbiamo avuto il grande piacere di intervistare Payal Kapadia, che ci ha raccontato delle principali fonti d’ispirazione del suo film, delle scelte stilistiche legate all’uso dei colori e della lunga fase di preparazione.
Dopo il grande successo al Festival di Cannes, All We Imagine As Light verrà distribuito prossimamente nelle nostre sale da Europictures, e non possiamo che consigliarne la visione.
Quello che mi ha più stupito di All We Imagine As Light è il modo in cui hai affrontato tematiche piuttosto complesse mantenendo sempre un tono gioioso. Volevo chiederti, com'è stato girare questo film nella tua regione natia e se hai trovato la lavorazione “difficile”?
Beh, più passa il tempo e più mi rendo conto di quanto sia difficile girare un film…sto diventando meno critica rispetto al lavoro degli altri registi (la regista scoppia a ridere, n.d.r.)! Comunque sempre più donne si stanno cimentando nella regia in India e, come puoi vedere, al Festival sono state presentate diverse opere che hanno per lo più come protagoniste delle donne. Detto questo, non credo sia una questione che riguarda una lavorazione “facile” o “difficile”, semplicemente devo fare quello di cui ho bisogno per la buona riuscita del film.
Hai inserito qualche esperienza personale legata al tuo passato nelle protagoniste?
Più o meno. Credo che determinate esperienze del passato siano in grado di condizionare le persone e aiutarle a capire chi siano veramente. Sono cresciuta in un ambiente dove erano presenti per lo più donne ed ero interessata ad analizzare quel rapporto di sorellanza che si crea tra esse e come spesso, in un paese come il mio, la gerarchia della società metta in difficoltà tali rapporti. Inoltre volevo mostrare la dinamica tra persone appartenenti a diverse generazioni e come non ci sia sempre supporto tra queste. Spero davvero in un cambiamento nel futuro, questo pensiero è stato sempre presente nella mia testa ed è stato naturale inserire questa tematica all’interno del film.
Parlando del titolo del film, All We Imagine As Light, volevo chiederti a chi ti riferissi con il “We”.
Tutti noi. Nel senso, è come se ognuno di noi non fosse consapevole che esista un percorso alternativo nella nostra vita. Non puoi pensare ad esso perché non sai che esiste. In questo senso, volevo fare un film dove i personaggi possono immaginare, o sperare, un’altra vita. E questa storia assume un valore universale all’interno dell’opera, non importa se questa sia ambientata in India o no, tutti noi abbiamo questi pensieri.
Quali sono stati i principali ostacoli che hai dovuto affrontare per realizzare questo film?
Ne abbiamo avuti molti, il principale è stato girare a Mumbai. È piuttosto costoso perché è la "capitale cinematografica" dell’India, dove ogni grande produzione realizza i propri progetti. Non avevamo le risorse economiche ovviamente, quindi ho dovuto adoperare un approccio da documentarista e girare tutto con una piccola telecamera. Sono stata fortunata perché i miei attori erano piuttosto entusiasti di girare certe scene con questa modalità, come ad esempio la sequenza dove la coppia sta camminando su Mohammed Ali Road. Abbiamo avuto molte conversazioni ed eravamo consapevoli che dovevamo girare in diversi posti e che gli attori dovevano immedesimarsi nei personaggi e inserirsi in modo adeguato nel contesto. Questo perché è piuttosto difficile girare in una strada piena di persone e far sembrare tutto il più naturale possibile (la regista ride, n.d.r.). Avendo diretto dei documentari in passato, mi piace questo stile non invasivo dove non sono costretta a utilizzare grosse telecamere o apparecchi simili, mi concede più libertà.
Quindi le altre persone non erano a conoscenza che stavate girando?
Si, è come un documentario. Hanno visto la camera, ma non sapevano cosa stavamo girando.
Hanno dovuto firmare qualche liberatoria?
No, non tutte le persone inquadrate nel background, altrimenti ci sarebbe voluta un’eternitá a finire il film (la regista ride, n.d.r.).
Quanto è importante il fatto che le tue protagoniste provengano da Kerala?
Ho scritto la sceneggiatura iniziale del film come progetto finale per il diploma dell’accademia di cinema che frequentavo, e durante quel periodo avevo stretto una forte amicizia con questa ragazza che lavorava come infermiera. Mi ricordo che mi raccontava spesso le lezioni in cui si doveva “allenare” per il suo futuro lavoro ed ero molto affascinata dalle sue storie. Ho pensato che sarebbe stato un buon soggetto per un cortometraggio, ma con il passare del tempo questo è diventato un lungometraggio su come sia l’esperienza di una donna che arriva a Mumbai per lavoro e come sia difficile rendere questa città la propria casa. Inoltre, ho notato come queste lavoratrici siano per lo più infermiere. Usare questo tipo di professione è stato piuttosto utile perché è un mestiere rispettato da tutti in India, e permette alle donne di lasciare i paesini rurali per trasferirsi in città. C’è anche l’aspetto linguistico che mi ha affascinato; le persone che provengono da Kerala parlano il malayalam (lingua dravidica tipica delle regioni meridionali dell’India, n.d.r.) e non tutti a Mumbai conoscono quella lingua. Forse in occidente non si conosce bene la questione delle lingue in India, ma non tutti parlano l’hindi. Il trovarsi a vivere in una città dove hai questi problemi legati alla comunicazione ha aggiunto uno strato interessante alla narrativa del film. Ma questo stato di alienazione può concederti anche una certa privacy in alcuni contesti e, ad esempio, puoi parlare con una persona tranquillamente in un luogo affollato senza che gli altri capiscano le vostre conversazioni.
C’è una frase all’interno del tuo film che mi ha colpito molto: “la città prende via il tuo tempo”. Cosa intendevi? Volevi contrapporre la realtà della città di Mumbai con quella rurale dei villaggi d’origine dei personaggi?
La città di Mumbai è piena di contraddizioni. Puoi avere più opportunità rispetto ad altre parti del Paese. Per le donne è più facile, si può trovare lavoro facilmente e può sembrare di aver raggiunto un senso di libertà. Ma allo stesso tempo, per raggiungere questa libertà, hai bisogno di soldi, la città è cara, altrimenti sei costretto a passare metà delle tue giornate sui treni o a vivere in pessime condizioni. Queste circostanze provocano infelicità, e spesso sei anche costretto a lasciare indietro la tua famiglia.
Quale è stata l’ispirazione principale dietro alla scrittura dei tuoi personaggi? Esperienze pregresse o persone del tuo passato?
Essendo una donna in India, noti certi dettagli sulle relazioni che le altre hanno attorno a te, sia le amicizie, che le situazioni sentimentali soprattutto. Come citavo prima, sono cresciuta in un ambiente con molte donne e, anche se la storia del film non è la “mia”, rivedo alcune parti di me stessa nelle protagoniste. Ho cercato di creare una serie di personaggi che ricordano principalmente delle persone che ho conosciuto nella mia vita. A volte, quando si fa un film si cerca di rispondere a certe domande per capire meglio il mondo che ci circonda, o almeno questa è la mia visione di quello che è il cinema.
Il modo in cui hai usato la musica mi ha davvero colpito.
Volevo qualcosa che richiamasse quella sensazione gioiosa. La colonna sonora appartiene a Emahoy Tsegué-Maryam Guèbrou, compositrice africana venuta a mancare lo scorso anno. Quando ho trovato la sua musica ho pensato “Aah…”, non so come descrivere la sensazione che ho provato (la regista ride, n.d.r.)... mi ha esaltato molto e ho pensato fosse perfetta per rappresentare l’amore della coppia di innamorati del film.
Vorrei parlare della palette di colori che hai usato nel film, soprattutto il modo in cui hai adoperato il blu, c’è qualche significato legato alla storia che volevi raccontare?
A Mumbai, durante la stagione dei monsoni, la luce diventa “blu” e dà quella sensazione di magia per qualche ora del giorno. Inoltre, essendo una luce “diffusa” si crea un contrasto maggiore con i colori. Poi, sempre per via delle piogge torrenziali caratteristiche di quel periodo, l’acqua spesso filtra nelle pareti provocando delle perdite. Come rimedio la gente locale mette dei teli di plastica blu per coprire le abitazioni. La stagione dei monsoni è un periodo assurdo (la regista ride, n.d.r.). Mentre la seconda parte del film, quella ambientata in un distretto a sud, è caratterizzata dalla presenza del colore rosso. Questo deriva per lo più dalla colorazione del suolo e dalla caratteristica pietra rossa della zona. Anche le abitazioni sono fatte con questo materiale.
L’ultima volta che un film di produzione indiana è stato selezionato in Competizione al festival di Cannes è stato trent’anni fa. Come ti senti a riguardo?
Sono rimasta davvero sorpresa della selezione ed è stato davvero un privilegio presentare il mio film in Competizione, soprattutto perché non è una grossa produzione. Nel 2021 ero stata selezionata alla Quinzaine des cinéastes per la mia opera precedente e ritornare al festival con un film nella sezione più importante è una sensazione folle! Inoltre, essere selezionata insieme ai cineasti che ho studiato in tutti questi anni è stato un grosso onore per me.
Nel 2019 eri stata selezionata alla Cannes Residency, cosa mi puoi raccontare di quell’esperienza?
Mi piace molto come l'industria cinematografica francese gestisce il lato della produzione. Non ci si focalizza solo sul punto di vista finanziario del progetto, ma ci si concentra su un ogni singolo aspetto per facilitare il lavoro al cineasta. Per dirti, quando stai scrivendo il tuo primo lungometraggio hai come la sensazione di impazzire… vuoi cercare di inserire più cose possibili e può essere un’esperienza piuttosto alienante perché non ti senti compreso. Sono una persona piuttosto metodica, mi piace avere in mente una struttura precisa da seguire e questa esperienza mi ha permesso di avere una panoramica a trecentosessanta gradi sull’industria, dalla fase di scrittura a quella in cui bisogna proporre o esporre i progetti nei market. Ho avuto l’occasione di vivere a Parigi e collaborare a stretto contatto con i produttori francesi, ma soprattutto, sono grata per il laboratorio di scrittura e tutto l’aiuto che mi hanno dato per la preparazione del mio primo lungometraggio di finzione.
Hai impiegato tanto tempo a completare la sceneggiatura?
Si, un'eternità. Ho partecipato alla Residency tra il 2019 e il 2020, prima del Covid, ma poi, visto quello che è successo, sono cambiate alcune cose. Stavo già lavorando per finire A Night of Knowing Nothing, ma ho continuato a scrivere la sceneggiatura di All We Imagine As Light. Solo nel 2022 sono riuscita ad ottenere i fondi per iniziare a girare il film.
Rimanendo sul discorso sceneggiatura, quello che mi ha davvero impressionato è l’abilità con cui sei riuscita ad affrontare certe tematiche, da quella dell’amicizia/sorellanza delle protagoniste fino al ruolo che la città ricopre nella vita di queste persone, per non parlare delle varie sottotrame romantiche che hai sviluppato. È stato difficile trovare un equilibrio tra tutti questi elementi?
Oh si, non puoi capire quanto. A volte mi chiedo perché abbia inserito così tante cose (la regista ride, n.d.r.)! Quando impieghi tanto tempo a scrivere una sceneggiatura cambi come persona, in questi anni sono maturata e le mie preoccupazioni sono cambiate, ho iniziato a immedesimarmi di più con certi aspetti dei miei personaggi. Questa crescita interiore mi ha aiutato a cambiare la percezione iniziale che avevo di All We Imagine As Light.
Nella seconda metà del film c’è una scena piuttosto intima tra due personaggi, provocherà qualche controversia in India? Come vengono viste le scene a sfondo sessuale dall’industria cinematografica Indiana?
A dire il vero negli ultimi anni c’è stato un cambiamento sotto questo aspetto, come se ci fosse una conversazione più “aperta” sulla sessualità nel cinema indiano. Ovviamente c’è la questione della censura, soprattutto se vuoi che il film raggiunga le sale cinematografiche… a volte impongono delle rigide censure su cose che non ti aspetteresti e di cui non capisco davvero il perché. Non credo ci saranno problemi per la scena che citi, ma bisognerà aspettare e vedere.
Ora vorrei chiederti del processo di casting delle protagoniste, mi ha fatto davvero piacere rivedere sullo schermo Divya Prabha, protagonista di Ariyippu (2022) di Mahesh Narayanan, la sua interpretazione mi aveva davvero impressionato.
Mi fa piacere che tu abbia visto il film e concordo con te, è stata bravissima in quel ruolo. Sono sempre stata una sua grande estimatrice, ma il ruolo di Anu è piuttosto diverso da quelli che aveva interpretato in passato. L’avevo invitata durante la fase dei casting perché inizialmente la vedevo nel ruolo di Prabha, l’altra infermiera, soprattutto perché lei riesce a interpretare personaggi che sono più “maturi” rispetto alla sua età. Ma poi, quando la stavo aspettando alla stazione e l’ho vista scendere dal treno, ho pensato “no”, doveva interpretare Anu perché é così simile al personaggio, è una persona gioiosa e piena di vita. È stato piuttosto rivelatorio perché ero abituata a vederla solo in un certo tipo di ruoli. Ha fatto un grandissimo lavoro e non potrei essere più felice di così. Per quanto riguarda Kani Kusruti, quando avevo iniziato a scrivere la sceneggiatura sei anni fa, la volevo nel ruolo dell’ infermiera giovane perché l’avevo notata in alcuni cortometraggi. Ma poi è passato un po’ di tempo… e siamo cresciute (la regista, n.d.r.). È un’attrice fantastica comunque, saprebbe interpretare qualunque ruolo le viene proposto. Lei è anche presente in Girls Will Be Girls, film che è stato presentato allo scorso Sundance Film Festival e che ha vinto l’Audience Award. Mentre Chhaya Kadam, l’attrice che interpreta la donna più grande del gruppo, è presente anche in Sister Midnight di Karan Kandhari, film presentato nella Quinzaine des cinéastes. È una veterana del cinema arthouse indiano e recita anche in grandi produzioni al di fuori dell’industria bollywoodiana. Nel 2013 ha fatto Fendry, un film davvero grazioso, uno dei più belli di quell’anno, Chhaya aveva una presenza sullo schermo davvero possente che mi ha colpito. Quando le avevo chiesto di partecipare al film, non ero sicura avrebbe accettato perché è un’attrice piuttosto nota in India.
C’è qualche connessione tra A Night of Knowing Nothing e All We Imagine As Light?
Più o meno, c’è stato un periodo in cui ho lavorato contemporaneamente ad entrambi i film e inoltre una delle tematiche principali delle due opere è l’amicizia.
Quali sono state le tue reference cinematografiche mentre preparavi All We Imagine As Light ?
Guardo tanti film, sono una grande cinefila. Per esempio, amo Miguel Gomes e mi è dispiaciuto perdere la première del suo film perché dovevo fare tutte queste interviste con i giornalisti (la regista ride, n.d.r.). Satyajit Ray è stata un’ispirazione sicuramente, l’ho studiato per anni e apprezzo molto i film che ha girato a Calcutta, come ad esempio Pratidwandi (1970). Inoltre, lui ha sempre utilizzato questo mix fra non fiction e fiction che sto cercando di implementare anche io. Mi piace molto anche il cinema di Alice Rohrwacher, Claire Denis e Agnès Varda. Amo tantissimo Cleo dalle 5 alle 7 (1962) della Varda, l’idea di seguire un personaggio che vaga per una città e che osserva varie situazioni, aspetto che richiama una narrativa non fiction, è stata una delle maggiori ispirazioni per il mio film e spero di aver fatto un buon lavoro.
So che può sembrare una domanda prematura, ma hai già in mente qualche progetto per il futuro?
A dire il vero si, ho in mente questo film non fiction, con una piccola parte di finzione. Come avrai capito, mi piace sperimentare con questi due aspetti, ci sono più possibilità e mi sento più libera. Di solito quando devi fare un film in India, si creano sempre grosse produzioni con un'ottantina di persone nella crew, poi bisogna rispettare delle ferree tabelle di marcia e molte limitazioni… preferisco lavorare più liberamente.