Il racconto del cinema italiano nei
sobborghi umani ed esistenziali della capitale,
di Francesca Accurso
TR-29
16.04.2021
Dalla nascita dell’industria cinematografica al neorealismo di Roma città aperta e Ladri di biciclette, l’Urbe e la sua immagine filmica si intrecciano in modo inestricabile, al punto che talvolta appare difficile separare la realtà storica dalla sua rappresentazione filmica. Progressivamente è emerso un tentativo di denuncia relativa al disagio e alla marginalità di esistenze confinate in spazi periferici, non solo a livello spaziale ma soprattutto psicologico e sociale. Tale tendenza ha contribuito da un lato ad allargare lo spettro socio-geografico del racconto filmico, e dall’altro ha portato il pubblico a contatto con nuovi modi di rappresentazione dei luoghi.
Quando Pier Paolo Pasolini esordì il 31 agosto del 1961 con Accattone alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, e ancor prima, già durante le riprese, molti critici letterari manifestarono la loro antipatia nei confronti di un film che si presentava necessario. Era diffusa l’idea che la scelta del regista fosse l'ennesima esibizione di quella visceralità autentica, considerata come sua unica cifra stilistica. Non si trattava, infatti, di una mera “traduzione” in chiave filmica degli stilemi della poetica pasoliniana, quanto piuttosto il primo vero piano, a tutto schermo, della tensione etica e formale del sottoproletariato romano.
C’è soprattutto l’adesione totale ad un mondo subalterno, l’amore viscerale per l’universo sottoproletario delle borgate romane colte nella loro violenta sopravvivenza ai margini di una città che si profila all’orizzonte come un inattingibile altrove. Ambientato nel cuore pulsante delle borgate romane – Pietralata, il Quarticciolo, Gordiani – Accattone è espressione di un cinema dichiaratamente povero, dove la morte diviene archetipo poetico ma soprattutto un sentimento nostalgico e familiare.
Accattone per Pasolini ha rappresentato non solo il suo primo film, ma un’indagine a tutto schermo della sua frattura esistenziale a livello (fenomenologico, simbolico, storico). Precaria, sul punto di scomparire, la periferia romana viene inghiottita dalla città nuova che avanza. Con Accattone, il mondo della borgata diventa immediatamente reale e i personaggi prendono letteralmente corpo davanti alla macchina da presa. Dei suoi personaggi, Pasolini regista vuole cogliere la vitalità ancora primitiva, il rifiuto anarchico delle regole, la traiettoria oscura del loro destino segnato da un’inevitabile sconfitta. Per citare le sue parole: “In Accattone ho voluto rappresentare la degradazione e l’umile condizione umana di un personaggio che vive nel fango e nella polvere delle borgate di Roma”.
Vittorio Cataldi (Franco Citti), detto Accattone, è un sottoproletario delle borgate romane che vive alla giornata, mantenuto dalla prostituta Maddalena. Quando la donna finisce in carcere, Accattone cerca di tornare dalla moglie Ascenza, dalla quale ha avuto un figlio, ma viene malamente cacciato. Trascorre le sue giornate sbandate con gli amici in uno scalcinato baretto, alla continua ricerca di espedienti per rimediare un pasto e riempire lo stomaco. Sul finire di una giornata inconcludente, Accattone decide insieme ai suoi amici di tentare la via del furto. Fermati dai carabinieri, durante la fuga Accattone salta su una motocicletta, ma poco più in là va a schiantarsi contro un camion e muore. Riverso sull’asfalto, quando la morte lo schiaccia, pronuncia le sue ultime parole: «Ah! Mo’ sto bbene», cosciente di aver tentato tutto quello che uno come lui poteva umanamente tentare.
Accattone funziona da catalizzatore sul quale si concentra l’intera messa in scena. L’ambientazione, la musica, la fotografia concorrono a costruire uno spazio drammatico che si organizza e si struttura intorno alla personalità del protagonista. La parabola di Accattone si risolve in un progressivo percorso a vuoto negli interminabili vagabondaggi nella borgata romana, vista come una sorta di lager, che diviene lo sfondo necessario all’esclusione del protagonista. L’evoluzione del personaggio e il suo tentativo incerto di liberazione avvengono all’interno di un mondo alienato, sullo sfondo di una città estranea ma al contempo sempre incombente, dentro l’inferno e l’esilio della borgata, relegata ai margini.
Chiunque abbia preso in mano la macchina da presa e si si sia spinto all’analisi filmica di quartieri durissimi come quelli rappresentati in Accattone deve qualcosa a Pasolini. Lo stesso Martin Scorsese ha ricordato l’importanza che il primo film di Pier Paolo Pasolini ebbe per lui: «Lo vidi per la prima volta al New York Film Festival del 1964 e fu un'esperienza visiva potentissima. Un lampo. Riuscii subito a identificarmi nei personaggi della trama, essendo io cresciuto in un quartiere molto duro».
Molti i registi contemporanei che sulle orme pasoliniane hanno rivolto l’obiettivo sulla cruda romanità periferica, con le sue innumerevoli difficoltà soggettive e oggettive. Terreno fertile di diversi lungometraggi. Alcuni dei più significativi: Non essere cattivo (2015) del maestro Claudio Caligari e La terra dell’abbastanza (2018) dei registi gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo.
Non essere cattivo, l’ultimo capolavoro a firma di Claudio Caligari, è un film che riprende le linee della poetica pasoliniana scegliendo l’ambientazione ostiense dei primi anni ’90 già presente nel primo progetto del regista piemontese, Amore Tossico (1983). Proiezione estetica e narrativa, quest’ultima, del primo tassello della visione caligariana dell’esistenza umana. Non essere cattivo aggiorna Amore Tossico in una nuova società, quella dei consumi, degli anni ‘90, dell’ebbrezza da sostanze stupefacenti. Lampante è la dichiarazione d’intenti del regista, che fa partire il film esattamente come il suo predecessore del 1983: il campo lungo sul lungomare di Ostia dove, trentadue anni dopo, al posto ci Ciopper e Roberto troviamo Cesare e Vittorio. Come ha più volte detto Giordano Meacci, autore della sceneggiatura del film, insieme a Francesca Serafini, l’idea del regista era piuttosto netta proprio perché Non essere cattivo doveva rappresentare il terzo atto di un percorso in cui la borgata di Pasolini, che aveva conosciuto l’eroina negli anni ’80, negli anni ’90 incontrava le droghe sintetiche.
La droga diviene simbolo del potere e rappresentazione della realtà. Una chiave per raccontare un determinato mondo partendo da un particolare e poi allargandolo. In Non essere cattivo, la cocaina e l’ecstasy vengono replicate come una sorta di mantra per evidenziare come l’identità di un individuo sia costruita mediante la contrattazione con i vincoli e le opportunità offerte dal contesto sociale. «Con il suo Martino (così chiamava Martin Scorsese) in un angolo di cuore e Pasolini sempre a portata di citazione» per riprendere le parole dell’attore Valerio Mastandrea, amico fraterno del regista, Claudio Caligari ha portato sullo schermo temi delicati tra cui quello della dipendenza tra persone. Quella che si instaura tra i due protagonisti del film Cesare (Luca Marinelli) e Vittorio (Alessandro Borghi).
Il film è imperniato in particolare sull’interazione fra i due protagonisti Cesare e Vittorio e su come entrambi affrontano il mondo che li circonda. Vittorio, riflessivo e incline a una continua riflessione su se stesso, è alla ricerca di una redenzione, incapace di arginare il proprio rimuginare infinito, con conseguenze a tratti incontrollabili sulle persone che lo circondano (Linda e suo figlio Tommasino). Cesare, invece, è uno che non fa domande convinto di avere già da sé tutte le risposte.
Amici fraterni fin dall’infanzia, Cesare e Vittorio sono due giovani romani dannati dall’adolescenza in cerca di nuove strade, col volto e il corpo corrosi dalla tossicità, risultante dal male distruttivo dell’uso spasmodico di stupefacenti. Il loro rapporto muta quando il più riflessivo dei due, Vittorio, tenta di iniziare una vita normale votata al lavoro in un cantiere e a una nuova famiglia, dopo la sua devozione ad una vita violenta, per parafrasare il romanzo scritto da Pasolini nel 1959.
Cesare e Vittorio combattono per sopravvivere su un terreno maledetto che si impossessa con facilità di due ragazzi di vita, con un messaggio finale di speranza, che con la volontà si può cambiare vita, il tutto raccontato con l’inquadratura finale del neonato figlio di Cesare, morto mentre faceva una rapina. Due figure antitetiche ma al contempo complementari, rese perfettamente dolenti dalle recitazioni naturalistiche di Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Giovani senza futuro, vite solcate da strade solitarie e perdute che si fondono nel fotogramma come un dettaglio da custodire gelosamente. Con il suo consueto rispetto per gli attori, Caligari utilizza la mdp per scandagliare i volti e la gestualità dei suoi protagonisti, proprio come fece il suo ispiratore. Il regista tratteggia con grande maestria la vita degli ultimi, con una storia cruda che evoca l’ambiente sociale di Accattone dove Pier Paolo Pasolini narra la realtà delle borgate romane, fatta di prostituzione e di una esistenza vissuta tra espedienti di ogni genere.
Claudio Caligari ci parla di una zona di Roma, tra Ostia e Fiumicino, dove il disagio sociale e l’incapacità di affrontare la dura realtà della vita è coperta dalla droga e dal suo commercio. Due modi di raccontare il degrado, il disagio sociale e la vita nelle periferie metropolitane. Il tutto è inoltre rafforzato e reso simile al vero con l’adozione di un gergo popolare, frutto di un lavoro scrupolosissimo sui codici di linguaggio.
Tacciati spesso per essere arrivati tardi sul terreno ardente della periferia romana, adoratori onnivori di Pasolini e del Neorealismo; i fratelli dark, così li definiscono nell’ambiente, Fabio e Damiano D’Innocenzo, gemelli classe 1988, esordiscono nel 2018 con La terra dell’abbastanza.
Tra i palazzi dai colori pastello della Roma di Ponte di Nona, Mirko (Matteo Olivetti) e Manolo (Andrea Carpenzano) sono due adolescenti e amici d’infanzia. Frequentano l’alberghiero e sperano un giorno, finita la scuola, di farsi strada come barman, sognando una vita che per loro possa essere “abbastanza”. Il legame fraterno dei due giovani protagonisti, accomunati da una stringente voglia di riscatto, si unisce al loro fortissimo senso di colpa, a una profonda sofferenza da cui faticano a uscire. La conseguente iniziazione alla malavita diviene l’unico spiraglio per non confrontarsi con quel dolore. Un vortice spaventoso trascina l’uno nell’assuefazione e l’altro nel tormento. Non a caso Mirko e Manolo incarnano due schegge incredule di un sistema in cui basta un attimo, un secondo senza ritorno, per un passaggio diretto da zero a mille. Sono figli di genitori che hanno rinunciato al loro ruolo, il cui mondo fluttua tra tenerezza e violenza, tra disperazione e morte.
Alla fotografia, Paolo Carnera, con inquadrature a distanza ravvicinata volte a mettere in risalto le espressioni e i sentimenti dei due giovani protagonisti. Sulla scelta delle location a Ponte di Nona, lo stesso regista Fabio D’Innocenzo ha dichiarato: «Abbiamo fatto il giro del raccordo anulare. Cercavamo una periferia che restituisse in chiave architettonica una condizione, quella dell’adolescenza, che è molto sfaccettata, fiabesca e lontana dagli agglomerati spersonalizzati di Tor Bella Monaca che è dove siamo nati. Noi volevamo un posto che ci riconsegnasse anche sentimenti romantici. Quando l’abbiamo vista è stato un po’ un colpo di fulmine».
La periferia da marginale diviene luogo – non solo architettonico – che accompagna e assorbe vicende e circostanze dei personaggi protagonisti, contribuendo alla loro definizione. Con quel «I giovini devono poté sognà», Mirko e Manolo tentano la fuga dalla loro condizione di periferizzazione stagnante muovendosi verso il dinamismo del centro urbano. Ma il loro tentativo si rivelerà fallace.
Fabio e Damiano D’Innocenzo, come già Caligari e ancor prima Pasolini, rientrano tra i registi che hanno messo il corpo al centro della scena, concentrandosi sui rapporti sociali e non e soprattutto su alcuni meccanismi che caratterizzano l’esistenza umana. Il duo di registi gemelli ha sceneggiato abilmente la gioventù pasoliniana divorata nella descrizione carnale e psicologica della perdita dell’innocenza, catapultando i due protagonisti in un mondo corrotto dove la morte non segue dinamiche fisse, colpisce e basta. Loro, che hanno vissuto la periferia sin dalla nascita, per poi spostarsi sul litorale romano (Lavinio, Anzio e Nettuno), conservano dei retaggi di quell’ambiente sviluppati nel modo di parlare, ascoltare e porsi con la gente, fino a decidere di trasferirli nel loro film d’esordio.
In questa chiave autentica, gran parte della vicenda narrata si svolge a Ponte di Nona, ma nel film colpisce anche un'incursione cittadina a via Giolitti in zona Termini, che ritrae la scena di un omicidio all’interno di un esercizio commerciale. È così dunque che dalla marginalità geografica della periferia i due protagonisti diventano adulti all’interno di un mondo urbano.
C’è una matrice di fondo, un filo conduttore che lega inevitabilmente questi tre lungometraggi. La parabola degli ultimi, l’amicizia fraterna, il non voler rendere edulcorata una realtà. Caligari e i D’Innocenzo, come Pasolini, senza complicità ma neppure atteggiamenti consolatori, danno voce e corpo a coloro che vivono nell’emarginazione, raccontando una città vista dalle sue periferie in cui si intrecciano inestricabilmente architettura e vicende umane. Come Accattone, impegnato in un viaggio esistenziale, progressivo e fatale di avvicinamento alla morte, anche Cesare in Non essere cattivo e Mirko e Manolo ne La terra dell’abbastanza delineano lo stesso percorso. Con una visione lucida e spietata questi cineasti nostrani hanno messo al centro della scena il malessere giovanile. La cinepresa inquadra la borgata come un campo di sterminio, un tempo immobile ed eterno della sofferenza umana, restituendo allo spettatore la sensazione di trovarsi dinanzi a modi di interpretare la realtà quotidiana vissuta al limite della degradazione umana.
La città diviene un personaggio alla pari di quelli interpretati dagli attori. Nel mettere in scena e riscoprire l’Urbe che si espande e cambia costantemente di pari passo con le sue contraddizioni, queste opere analizzano la complessità del tessuto cittadino contemporaneo e la possibilità di quest’ultimo di alimentare, rigenerare o quantomeno arricchire l’immaginario del cinema italiano. La cinepresa inquadra la borgata come un lager esistenziale, un tempo immobile ed eterno della sofferenza umana, restituendo allo spettatore la sensazione di trovarsi dinanzi a modi di interpretare la realtà quotidiana vissuta al limite della degradazione umana.
Simili lungometraggi contribuiscono a delineare un percorso che tende a smuovere le coscienze, incentivando una maggiore considerazione della marginalità morale e spaziale, inducendoci a ripensare le periferie non solo come luoghi dominati dalla negatività e criminalità, ma come terreni in cui abitano sentimenti di rivalsa nei confronti della vita.
Il racconto del cinema italiano nei
sobborghi umani ed esistenziali della capitale,
di Francesca Accurso
TR-29
16.04.2021
Dalla nascita dell’industria cinematografica al neorealismo di Roma città aperta e Ladri di biciclette, l’Urbe e la sua immagine filmica si intrecciano in modo inestricabile, al punto che talvolta appare difficile separare la realtà storica dalla sua rappresentazione filmica. Progressivamente è emerso un tentativo di denuncia relativa al disagio e alla marginalità di esistenze confinate in spazi periferici, non solo a livello spaziale ma soprattutto psicologico e sociale. Tale tendenza ha contribuito da un lato ad allargare lo spettro socio-geografico del racconto filmico, e dall’altro ha portato il pubblico a contatto con nuovi modi di rappresentazione dei luoghi.
Quando Pier Paolo Pasolini esordì il 31 agosto del 1961 con Accattone alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, e ancor prima, già durante le riprese, molti critici letterari manifestarono la loro antipatia nei confronti di un film che si presentava necessario. Era diffusa l’idea che la scelta del regista fosse l'ennesima esibizione di quella visceralità autentica, considerata come sua unica cifra stilistica. Non si trattava, infatti, di una mera “traduzione” in chiave filmica degli stilemi della poetica pasoliniana, quanto piuttosto il primo vero piano, a tutto schermo, della tensione etica e formale del sottoproletariato romano.
C’è soprattutto l’adesione totale ad un mondo subalterno, l’amore viscerale per l’universo sottoproletario delle borgate romane colte nella loro violenta sopravvivenza ai margini di una città che si profila all’orizzonte come un inattingibile altrove. Ambientato nel cuore pulsante delle borgate romane – Pietralata, il Quarticciolo, Gordiani – Accattone è espressione di un cinema dichiaratamente povero, dove la morte diviene archetipo poetico ma soprattutto un sentimento nostalgico e familiare.
Accattone per Pasolini ha rappresentato non solo il suo primo film, ma un’indagine a tutto schermo della sua frattura esistenziale a livello (fenomenologico, simbolico, storico). Precaria, sul punto di scomparire, la periferia romana viene inghiottita dalla città nuova che avanza. Con Accattone, il mondo della borgata diventa immediatamente reale e i personaggi prendono letteralmente corpo davanti alla macchina da presa. Dei suoi personaggi, Pasolini regista vuole cogliere la vitalità ancora primitiva, il rifiuto anarchico delle regole, la traiettoria oscura del loro destino segnato da un’inevitabile sconfitta. Per citare le sue parole: “In Accattone ho voluto rappresentare la degradazione e l’umile condizione umana di un personaggio che vive nel fango e nella polvere delle borgate di Roma”.
Vittorio Cataldi (Franco Citti), detto Accattone, è un sottoproletario delle borgate romane che vive alla giornata, mantenuto dalla prostituta Maddalena. Quando la donna finisce in carcere, Accattone cerca di tornare dalla moglie Ascenza, dalla quale ha avuto un figlio, ma viene malamente cacciato. Trascorre le sue giornate sbandate con gli amici in uno scalcinato baretto, alla continua ricerca di espedienti per rimediare un pasto e riempire lo stomaco. Sul finire di una giornata inconcludente, Accattone decide insieme ai suoi amici di tentare la via del furto. Fermati dai carabinieri, durante la fuga Accattone salta su una motocicletta, ma poco più in là va a schiantarsi contro un camion e muore. Riverso sull’asfalto, quando la morte lo schiaccia, pronuncia le sue ultime parole: «Ah! Mo’ sto bbene», cosciente di aver tentato tutto quello che uno come lui poteva umanamente tentare.
Accattone funziona da catalizzatore sul quale si concentra l’intera messa in scena. L’ambientazione, la musica, la fotografia concorrono a costruire uno spazio drammatico che si organizza e si struttura intorno alla personalità del protagonista. La parabola di Accattone si risolve in un progressivo percorso a vuoto negli interminabili vagabondaggi nella borgata romana, vista come una sorta di lager, che diviene lo sfondo necessario all’esclusione del protagonista. L’evoluzione del personaggio e il suo tentativo incerto di liberazione avvengono all’interno di un mondo alienato, sullo sfondo di una città estranea ma al contempo sempre incombente, dentro l’inferno e l’esilio della borgata, relegata ai margini.
Chiunque abbia preso in mano la macchina da presa e si si sia spinto all’analisi filmica di quartieri durissimi come quelli rappresentati in Accattone deve qualcosa a Pasolini. Lo stesso Martin Scorsese ha ricordato l’importanza che il primo film di Pier Paolo Pasolini ebbe per lui: «Lo vidi per la prima volta al New York Film Festival del 1964 e fu un'esperienza visiva potentissima. Un lampo. Riuscii subito a identificarmi nei personaggi della trama, essendo io cresciuto in un quartiere molto duro».
Molti i registi contemporanei che sulle orme pasoliniane hanno rivolto l’obiettivo sulla cruda romanità periferica, con le sue innumerevoli difficoltà soggettive e oggettive. Terreno fertile di diversi lungometraggi. Alcuni dei più significativi: Non essere cattivo (2015) del maestro Claudio Caligari e La terra dell’abbastanza (2018) dei registi gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo.
Non essere cattivo, l’ultimo capolavoro a firma di Claudio Caligari, è un film che riprende le linee della poetica pasoliniana scegliendo l’ambientazione ostiense dei primi anni ’90 già presente nel primo progetto del regista piemontese, Amore Tossico (1983). Proiezione estetica e narrativa, quest’ultima, del primo tassello della visione caligariana dell’esistenza umana. Non essere cattivo aggiorna Amore Tossico in una nuova società, quella dei consumi, degli anni ‘90, dell’ebbrezza da sostanze stupefacenti. Lampante è la dichiarazione d’intenti del regista, che fa partire il film esattamente come il suo predecessore del 1983: il campo lungo sul lungomare di Ostia dove, trentadue anni dopo, al posto ci Ciopper e Roberto troviamo Cesare e Vittorio. Come ha più volte detto Giordano Meacci, autore della sceneggiatura del film, insieme a Francesca Serafini, l’idea del regista era piuttosto netta proprio perché Non essere cattivo doveva rappresentare il terzo atto di un percorso in cui la borgata di Pasolini, che aveva conosciuto l’eroina negli anni ’80, negli anni ’90 incontrava le droghe sintetiche.
La droga diviene simbolo del potere e rappresentazione della realtà. Una chiave per raccontare un determinato mondo partendo da un particolare e poi allargandolo. In Non essere cattivo, la cocaina e l’ecstasy vengono replicate come una sorta di mantra per evidenziare come l’identità di un individuo sia costruita mediante la contrattazione con i vincoli e le opportunità offerte dal contesto sociale. «Con il suo Martino (così chiamava Martin Scorsese) in un angolo di cuore e Pasolini sempre a portata di citazione» per riprendere le parole dell’attore Valerio Mastandrea, amico fraterno del regista, Claudio Caligari ha portato sullo schermo temi delicati tra cui quello della dipendenza tra persone. Quella che si instaura tra i due protagonisti del film Cesare (Luca Marinelli) e Vittorio (Alessandro Borghi).
Il film è imperniato in particolare sull’interazione fra i due protagonisti Cesare e Vittorio e su come entrambi affrontano il mondo che li circonda. Vittorio, riflessivo e incline a una continua riflessione su se stesso, è alla ricerca di una redenzione, incapace di arginare il proprio rimuginare infinito, con conseguenze a tratti incontrollabili sulle persone che lo circondano (Linda e suo figlio Tommasino). Cesare, invece, è uno che non fa domande convinto di avere già da sé tutte le risposte.
Amici fraterni fin dall’infanzia, Cesare e Vittorio sono due giovani romani dannati dall’adolescenza in cerca di nuove strade, col volto e il corpo corrosi dalla tossicità, risultante dal male distruttivo dell’uso spasmodico di stupefacenti. Il loro rapporto muta quando il più riflessivo dei due, Vittorio, tenta di iniziare una vita normale votata al lavoro in un cantiere e a una nuova famiglia, dopo la sua devozione ad una vita violenta, per parafrasare il romanzo scritto da Pasolini nel 1959.
Cesare e Vittorio combattono per sopravvivere su un terreno maledetto che si impossessa con facilità di due ragazzi di vita, con un messaggio finale di speranza, che con la volontà si può cambiare vita, il tutto raccontato con l’inquadratura finale del neonato figlio di Cesare, morto mentre faceva una rapina. Due figure antitetiche ma al contempo complementari, rese perfettamente dolenti dalle recitazioni naturalistiche di Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Giovani senza futuro, vite solcate da strade solitarie e perdute che si fondono nel fotogramma come un dettaglio da custodire gelosamente. Con il suo consueto rispetto per gli attori, Caligari utilizza la mdp per scandagliare i volti e la gestualità dei suoi protagonisti, proprio come fece il suo ispiratore. Il regista tratteggia con grande maestria la vita degli ultimi, con una storia cruda che evoca l’ambiente sociale di Accattone dove Pier Paolo Pasolini narra la realtà delle borgate romane, fatta di prostituzione e di una esistenza vissuta tra espedienti di ogni genere.
Claudio Caligari ci parla di una zona di Roma, tra Ostia e Fiumicino, dove il disagio sociale e l’incapacità di affrontare la dura realtà della vita è coperta dalla droga e dal suo commercio. Due modi di raccontare il degrado, il disagio sociale e la vita nelle periferie metropolitane. Il tutto è inoltre rafforzato e reso simile al vero con l’adozione di un gergo popolare, frutto di un lavoro scrupolosissimo sui codici di linguaggio.
Tacciati spesso per essere arrivati tardi sul terreno ardente della periferia romana, adoratori onnivori di Pasolini e del Neorealismo; i fratelli dark, così li definiscono nell’ambiente, Fabio e Damiano D’Innocenzo, gemelli classe 1988, esordiscono nel 2018 con La terra dell’abbastanza.
Tra i palazzi dai colori pastello della Roma di Ponte di Nona, Mirko (Matteo Olivetti) e Manolo (Andrea Carpenzano) sono due adolescenti e amici d’infanzia. Frequentano l’alberghiero e sperano un giorno, finita la scuola, di farsi strada come barman, sognando una vita che per loro possa essere “abbastanza”. Il legame fraterno dei due giovani protagonisti, accomunati da una stringente voglia di riscatto, si unisce al loro fortissimo senso di colpa, a una profonda sofferenza da cui faticano a uscire. La conseguente iniziazione alla malavita diviene l’unico spiraglio per non confrontarsi con quel dolore. Un vortice spaventoso trascina l’uno nell’assuefazione e l’altro nel tormento. Non a caso Mirko e Manolo incarnano due schegge incredule di un sistema in cui basta un attimo, un secondo senza ritorno, per un passaggio diretto da zero a mille. Sono figli di genitori che hanno rinunciato al loro ruolo, il cui mondo fluttua tra tenerezza e violenza, tra disperazione e morte.
Alla fotografia, Paolo Carnera, con inquadrature a distanza ravvicinata volte a mettere in risalto le espressioni e i sentimenti dei due giovani protagonisti. Sulla scelta delle location a Ponte di Nona, lo stesso regista Fabio D’Innocenzo ha dichiarato: «Abbiamo fatto il giro del raccordo anulare. Cercavamo una periferia che restituisse in chiave architettonica una condizione, quella dell’adolescenza, che è molto sfaccettata, fiabesca e lontana dagli agglomerati spersonalizzati di Tor Bella Monaca che è dove siamo nati. Noi volevamo un posto che ci riconsegnasse anche sentimenti romantici. Quando l’abbiamo vista è stato un po’ un colpo di fulmine».
La periferia da marginale diviene luogo – non solo architettonico – che accompagna e assorbe vicende e circostanze dei personaggi protagonisti, contribuendo alla loro definizione. Con quel «I giovini devono poté sognà», Mirko e Manolo tentano la fuga dalla loro condizione di periferizzazione stagnante muovendosi verso il dinamismo del centro urbano. Ma il loro tentativo si rivelerà fallace.
Fabio e Damiano D’Innocenzo, come già Caligari e ancor prima Pasolini, rientrano tra i registi che hanno messo il corpo al centro della scena, concentrandosi sui rapporti sociali e non e soprattutto su alcuni meccanismi che caratterizzano l’esistenza umana. Il duo di registi gemelli ha sceneggiato abilmente la gioventù pasoliniana divorata nella descrizione carnale e psicologica della perdita dell’innocenza, catapultando i due protagonisti in un mondo corrotto dove la morte non segue dinamiche fisse, colpisce e basta. Loro, che hanno vissuto la periferia sin dalla nascita, per poi spostarsi sul litorale romano (Lavinio, Anzio e Nettuno), conservano dei retaggi di quell’ambiente sviluppati nel modo di parlare, ascoltare e porsi con la gente, fino a decidere di trasferirli nel loro film d’esordio.
In questa chiave autentica, gran parte della vicenda narrata si svolge a Ponte di Nona, ma nel film colpisce anche un'incursione cittadina a via Giolitti in zona Termini, che ritrae la scena di un omicidio all’interno di un esercizio commerciale. È così dunque che dalla marginalità geografica della periferia i due protagonisti diventano adulti all’interno di un mondo urbano.
C’è una matrice di fondo, un filo conduttore che lega inevitabilmente questi tre lungometraggi. La parabola degli ultimi, l’amicizia fraterna, il non voler rendere edulcorata una realtà. Caligari e i D’Innocenzo, come Pasolini, senza complicità ma neppure atteggiamenti consolatori, danno voce e corpo a coloro che vivono nell’emarginazione, raccontando una città vista dalle sue periferie in cui si intrecciano inestricabilmente architettura e vicende umane. Come Accattone, impegnato in un viaggio esistenziale, progressivo e fatale di avvicinamento alla morte, anche Cesare in Non essere cattivo e Mirko e Manolo ne La terra dell’abbastanza delineano lo stesso percorso. Con una visione lucida e spietata questi cineasti nostrani hanno messo al centro della scena il malessere giovanile. La cinepresa inquadra la borgata come un campo di sterminio, un tempo immobile ed eterno della sofferenza umana, restituendo allo spettatore la sensazione di trovarsi dinanzi a modi di interpretare la realtà quotidiana vissuta al limite della degradazione umana.
La città diviene un personaggio alla pari di quelli interpretati dagli attori. Nel mettere in scena e riscoprire l’Urbe che si espande e cambia costantemente di pari passo con le sue contraddizioni, queste opere analizzano la complessità del tessuto cittadino contemporaneo e la possibilità di quest’ultimo di alimentare, rigenerare o quantomeno arricchire l’immaginario del cinema italiano. La cinepresa inquadra la borgata come un lager esistenziale, un tempo immobile ed eterno della sofferenza umana, restituendo allo spettatore la sensazione di trovarsi dinanzi a modi di interpretare la realtà quotidiana vissuta al limite della degradazione umana.
Simili lungometraggi contribuiscono a delineare un percorso che tende a smuovere le coscienze, incentivando una maggiore considerazione della marginalità morale e spaziale, inducendoci a ripensare le periferie non solo come luoghi dominati dalla negatività e criminalità, ma come terreni in cui abitano sentimenti di rivalsa nei confronti della vita.