NC-161
22.08.2023
Nelle sue rare interviste, uno dei refrain più abituali di Stanley Kubrick era che, se si voleva cercare una determinata fase del processo creativo che fosse il vero “specifico filmico” - caratteristico solo del cinema e del linguaggio audiovisivo - andava individuata sicuramente nel montaggio. La fase di scrittura metteva insieme le esperienze della storia del romanzo, della drammaturgia e in generale della narrazione occidentale, la recitazione degli attori sul set non era poi distante dall’arte recitativa sul palco di un teatro, anche ruoli come quelli del direttore della fotografia o degli effettisti si potevano trovare nel dietro le quinte di uno spettacolo: ma non esisteva negli altri linguaggi artistici una figura equivalente a quella del montatore. E se negli ultimi anni si è decisamente accesa anche presso un pubblico non professionista l’attenzione verso gli aspetti tecnici del film-making, con un pullulare di pagine social che analizzano la color palette dei vari film, nel 1992, e quindi in tempi non sospetti, la studiosa e critica Gabriella Oldham aveva dato alle stampe First Cut, una raccolta di interviste ai più grandi montatori del cinema americano. First Cut aveva raggiunto un discreto successo negli Stati Uniti, tanto da essere seguito vent’anni dopo da un suo “sequel”; in Italia il primo volume viene adesso tradotto da minimum fax, con una nuova prefazione dell’autrice e una postfazione del pluripremiato montatore italiano Jacopo Quadri, e si annuncia la prossima uscita anche di First Cut 2: More Conversations with Film Editors.
Tra i montatori intervistati da Gabriella Oldham nel primo First Cut ci sono delle vere e proprie leggende della settima arte: nomi come Rudi Fehr, tra i più stretti collaboratori di Jack L. Warner alla Warner Bros. tanto da ritrovarsi in un certo periodo accreditato come produttore, Harold F. Kress, un altro che aveva attraversato la golden age di Hollywood, e suo figlio Carl, in un’originale intervista congiunta, Anne Coates che si è consacrata con Elephant Man di David Lynch, il co-montatore di Taxi Driver Tom Rolf, e una buona dozzina di altri. Il periodo storico abbracciato da queste interviste va dalla Hollywood della fine del muto fino agli anni ottanta inoltrati, e in modo particolare lo scambio intergenerazionale palpabile nell’intervista a due con Kress Sr. e Jr. - che condivisero una vittoria all’Oscar per il montaggio de L’inferno di cristallo - permette di toccare con mano i notevoli cambiamenti che la professione del montaggio ha avuto nel corso di questi sei decenni a Hollywood. Il libro della Oldham dà il giusto rilievo anche alla componente sindacale del lavoro delle maestranze cinematografiche, una tematica adesso tornata di attualità con lo sciopero congiunto di sceneggiatori e attori; in generale, si avverte lungo tutte queste interviste il disagio ma anche la maggiore flessibilità causata dal graduale dissolversi di uno studio system che garantiva un lavoro continuativo ma poco pagato.
Altro tema che il primo volume di First Cut sfiora, ma che dovrebbe stare al centro di First Cut 2, riguarda le mutazioni tecniche del lavoro in moviola con l’avvento prima del nastro e poi ancor di più del digitale: una vera e propria rivoluzione copernicana che ha definitivamente stravolto le modalità del fare-cinema nei primi anni duemila non solo sul set rispetto all’utilizzo delle macchine da presa, ma anche nella fase, spesso meno considerata, della post-produzione. Nella prima intervista presentata nel libro Sheldon Kahn racconta le difficoltà riscontrate montando il primo Ghostbuster, quando doveva immaginare i fantasmi e tutti gli effetti visivi calcolandone al millimetro i tempi di azione e reazione, non potendo avere alcuna previsualizzazione del risultato finale: adesso il workflow di questo tipo sarebbe completamente diverso, e probabilmente gli stessi attori già sul set sarebbero in grado di avere davanti a loro un’indicazione piuttosto chiara delle creature con cui interagiranno sul grande schermo a film finito.
“Come montatore osservi il film in maniera assolutamente oggettiva, non soggettiva, e ti sforzi al massimo di identificarti con il pubblico, in modo che se c’è qualcosa che non funziona tu sia il primo a capirlo e a tentare di porvi rimedio”: questa considerazione, formulata così da Sheldon Kahn, ritorna più volte nel corso del libro. E se è anche vero che, come si lamentava Geof Bartz, film editor specializzato in documentari, non di rado i montatori in moviola che fanno rilievi di un certo tipo al loro regista finiscono per fare la stessa fine dei messaggeri di cattive notizie presso gli antichi Greci, alcuni dei professionisti intervistati dalla Oldham hanno stretto un rapporto tanto fedele quanto dialettico con uno o due registi di riferimento: è il caso ad esempio di Bill Pankow, responsabile del montaggio di svariati film di Brian De Palma, o di Barry Malkin, frequente collaboratore di Francis Ford Coppola. Per quanto lontani dal set, spesso i montatori sono i migliori giudici anche del lavoro degli attori: “Kate Hepburn, ho usato chilometri di sue inquadrature. Era la migliore ascoltatrice che ci fosse”, dice Harold Kress in un momento della sua lunga intervista, “e anche Spencer Tracy aveva ottime reazioni espressive senza muovere la testa, solo con gli occhi. A volte queste inquadrature sono migliori di quelle in cui avviene l’azione”.
Una problematica tipicamente americana su cui il libro si dilunga riguarda il rapporto tra i montatori della costa Est e della costa Ovest degli Stati Uniti. “La differenza maggiore che ho notato a New York, a essere sincera, è il livello di serietà dell’impegno rispetto al film. Questo perché penso che a New York la competizione sia molto accanita, c’è pochissimo lavoro, e per sopravvivere devi impegnarti a fondo. A Los Angeles certi montatori sono convinti che lavorare a Hollywood sia un gran bel mestiere, però il loro impegno nel cinema non va molto al di là dell’assegno da riscuotere”, commentava Carol Littleton, la montatrice di E.T. e de Il grande freddo di Lawrence Kasdan; e per quanto lo stesso cinema americano sia molto cambiato nei tre decenni che ci separano dal momento della realizzazione di queste interviste, con il decisivo affermarsi e proliferare di realtà indipendenti e del tutto slegate dalla logica degli studios, probabilmente un margine di verità ancora resta in queste affermazioni.
Forse le due interviste più interessanti del libro della Oldham sono quelle a Paul Hirsch e a Tom Rolf. In un capitolo intitolato Il montaggio ripercussivo, Hirsch, che ha debuttato all’inizio degli anni settanta al fianco di Brian De Palma ed è stato attivo fino a pochi anni fa con titoli come World War Z o La mummia con Tom Cruise, propone un accostamento decisamente interessante tra i due titoli più celebri da lui montati, Carrie – Lo sguardo di Satana di De Palma, da Stephen King, e il primo Star Wars di George Lucas: “in Star Wars la conclusione della scena della battaglia presenta esattamente lo stesso problema di montaggio del lancio del secchio pieno di sangue in Carrie. In un certo senso è la stessa scena: la Morte Nera sta per far saltare in aria il pianeta e qualcuno sta per far cadere il secchio pieno di sangue su Carrie. La differenza tra Brian De Palma e George Lucas è che Brian fa succedere davvero ciò che tutti temono, mentre George salva la situazione!”.
Del montaggio di Taxi Driver invece Tom Rolf racconta tutte le difficoltà causate dalla tendenza a improvvisare che sul set Martin Scorsese, Robert De Niro e gli altri attori avevano assunto; il graduale stratificarsi del carattere ipnotico del film, che solo la voce fuori campo di De Niro ha chiarito al suo stesso montatore; l’uso di dissolvenze reiterate sullo stesso ambiente urbano in cui De Niro/Trevis Bickle cammina a vuoto, per suggerire un senso di alienazione, di impotenza, di stasi coatta. Andando più indietro verso gli albori della New Hollywood risuona affascinante anche il racconto di Donn Cambern sulla realizzazione sperimentale della sequenza del trip verso il termine di Easy Rider di Dennis Hopper, una sequenza a detta sua decisamente figlia dei tempi: “erano i primissimi tempi della cultura della droga, l’inizio di una trasformazione radicale del pensiero. Non è che io fossi propriamente un tipo da controcultura: ero felicemente sposato con figli, ma stavo ancora sperimentando, perciò quel tentativo mi offrì una sensazione di libertà. Se avessimo cercato di realizzare la stessa sequenza cinque anni prima sarebbe venuta fuori completamente diversa, molto più strutturata e molto più limitata”.
Non c’è solo ovviamente l’estasi della tecnica e l’aneddotica del dietro-le-quinte dei più grandi classici del cinema americano: da First Cut della Oldham emerge anche, e da parte di più voci, una certa frustrazione nei confronti della scarsa considerazione che la professione del montatore ha, a detta dei diretti interessati, non solo da parte del grande pubblico ma anche all’interno della stessa industria cinematografica. Contraddicendo in un certo senso la riflessione di Kubrick sul montaggio come il vero specifico cinematografico, nella sua intervista a due con il padre Carl Kress paragona il lavoro del montatore cinematografico a quello dell’editor di una rivista: è proprio la scorrevolezza del risultato finale ad essere al tempo stesso l’obiettivo più agognato da un montatore e il motivo per cui tra tutti i mestieri del cinema questo è il più impalpabile e silenzioso, tanto da rischiare di passare inosservato. Sarebbe interessante vedere se in First Cut 2 queste stesse rimostranze restano o cambiano accento. Quel che è certo è che il primo dei due volumi sul montaggio di Gabriella Oldham offre una prospettiva inedita e decisamente pragmatica su una porzione importante della storia del cinema americano. Dopo L’occhio del regista di Laurent Tirard, I maestri della luce di Dennis Schaefer e Larry Salvato, e il nostrano Per i soldi o per la gloria di Domenico Monetti e Luca Pallanch sulla storia dei produttori italiani fino all’avvento delle tv private, First Cut è una notevole aggiunta alla già prestigiosa collana sul cinema di minimum fax.
NC-161
22.08.2023
Nelle sue rare interviste, uno dei refrain più abituali di Stanley Kubrick era che, se si voleva cercare una determinata fase del processo creativo che fosse il vero “specifico filmico” - caratteristico solo del cinema e del linguaggio audiovisivo - andava individuata sicuramente nel montaggio. La fase di scrittura metteva insieme le esperienze della storia del romanzo, della drammaturgia e in generale della narrazione occidentale, la recitazione degli attori sul set non era poi distante dall’arte recitativa sul palco di un teatro, anche ruoli come quelli del direttore della fotografia o degli effettisti si potevano trovare nel dietro le quinte di uno spettacolo: ma non esisteva negli altri linguaggi artistici una figura equivalente a quella del montatore. E se negli ultimi anni si è decisamente accesa anche presso un pubblico non professionista l’attenzione verso gli aspetti tecnici del film-making, con un pullulare di pagine social che analizzano la color palette dei vari film, nel 1992, e quindi in tempi non sospetti, la studiosa e critica Gabriella Oldham aveva dato alle stampe First Cut, una raccolta di interviste ai più grandi montatori del cinema americano. First Cut aveva raggiunto un discreto successo negli Stati Uniti, tanto da essere seguito vent’anni dopo da un suo “sequel”; in Italia il primo volume viene adesso tradotto da minimum fax, con una nuova prefazione dell’autrice e una postfazione del pluripremiato montatore italiano Jacopo Quadri, e si annuncia la prossima uscita anche di First Cut 2: More Conversations with Film Editors.
Tra i montatori intervistati da Gabriella Oldham nel primo First Cut ci sono delle vere e proprie leggende della settima arte: nomi come Rudi Fehr, tra i più stretti collaboratori di Jack L. Warner alla Warner Bros. tanto da ritrovarsi in un certo periodo accreditato come produttore, Harold F. Kress, un altro che aveva attraversato la golden age di Hollywood, e suo figlio Carl, in un’originale intervista congiunta, Anne Coates che si è consacrata con Elephant Man di David Lynch, il co-montatore di Taxi Driver Tom Rolf, e una buona dozzina di altri. Il periodo storico abbracciato da queste interviste va dalla Hollywood della fine del muto fino agli anni ottanta inoltrati, e in modo particolare lo scambio intergenerazionale palpabile nell’intervista a due con Kress Sr. e Jr. - che condivisero una vittoria all’Oscar per il montaggio de L’inferno di cristallo - permette di toccare con mano i notevoli cambiamenti che la professione del montaggio ha avuto nel corso di questi sei decenni a Hollywood. Il libro della Oldham dà il giusto rilievo anche alla componente sindacale del lavoro delle maestranze cinematografiche, una tematica adesso tornata di attualità con lo sciopero congiunto di sceneggiatori e attori; in generale, si avverte lungo tutte queste interviste il disagio ma anche la maggiore flessibilità causata dal graduale dissolversi di uno studio system che garantiva un lavoro continuativo ma poco pagato.
Altro tema che il primo volume di First Cut sfiora, ma che dovrebbe stare al centro di First Cut 2, riguarda le mutazioni tecniche del lavoro in moviola con l’avvento prima del nastro e poi ancor di più del digitale: una vera e propria rivoluzione copernicana che ha definitivamente stravolto le modalità del fare-cinema nei primi anni duemila non solo sul set rispetto all’utilizzo delle macchine da presa, ma anche nella fase, spesso meno considerata, della post-produzione. Nella prima intervista presentata nel libro Sheldon Kahn racconta le difficoltà riscontrate montando il primo Ghostbuster, quando doveva immaginare i fantasmi e tutti gli effetti visivi calcolandone al millimetro i tempi di azione e reazione, non potendo avere alcuna previsualizzazione del risultato finale: adesso il workflow di questo tipo sarebbe completamente diverso, e probabilmente gli stessi attori già sul set sarebbero in grado di avere davanti a loro un’indicazione piuttosto chiara delle creature con cui interagiranno sul grande schermo a film finito.
“Come montatore osservi il film in maniera assolutamente oggettiva, non soggettiva, e ti sforzi al massimo di identificarti con il pubblico, in modo che se c’è qualcosa che non funziona tu sia il primo a capirlo e a tentare di porvi rimedio”: questa considerazione, formulata così da Sheldon Kahn, ritorna più volte nel corso del libro. E se è anche vero che, come si lamentava Geof Bartz, film editor specializzato in documentari, non di rado i montatori in moviola che fanno rilievi di un certo tipo al loro regista finiscono per fare la stessa fine dei messaggeri di cattive notizie presso gli antichi Greci, alcuni dei professionisti intervistati dalla Oldham hanno stretto un rapporto tanto fedele quanto dialettico con uno o due registi di riferimento: è il caso ad esempio di Bill Pankow, responsabile del montaggio di svariati film di Brian De Palma, o di Barry Malkin, frequente collaboratore di Francis Ford Coppola. Per quanto lontani dal set, spesso i montatori sono i migliori giudici anche del lavoro degli attori: “Kate Hepburn, ho usato chilometri di sue inquadrature. Era la migliore ascoltatrice che ci fosse”, dice Harold Kress in un momento della sua lunga intervista, “e anche Spencer Tracy aveva ottime reazioni espressive senza muovere la testa, solo con gli occhi. A volte queste inquadrature sono migliori di quelle in cui avviene l’azione”.
Una problematica tipicamente americana su cui il libro si dilunga riguarda il rapporto tra i montatori della costa Est e della costa Ovest degli Stati Uniti. “La differenza maggiore che ho notato a New York, a essere sincera, è il livello di serietà dell’impegno rispetto al film. Questo perché penso che a New York la competizione sia molto accanita, c’è pochissimo lavoro, e per sopravvivere devi impegnarti a fondo. A Los Angeles certi montatori sono convinti che lavorare a Hollywood sia un gran bel mestiere, però il loro impegno nel cinema non va molto al di là dell’assegno da riscuotere”, commentava Carol Littleton, la montatrice di E.T. e de Il grande freddo di Lawrence Kasdan; e per quanto lo stesso cinema americano sia molto cambiato nei tre decenni che ci separano dal momento della realizzazione di queste interviste, con il decisivo affermarsi e proliferare di realtà indipendenti e del tutto slegate dalla logica degli studios, probabilmente un margine di verità ancora resta in queste affermazioni.
Forse le due interviste più interessanti del libro della Oldham sono quelle a Paul Hirsch e a Tom Rolf. In un capitolo intitolato Il montaggio ripercussivo, Hirsch, che ha debuttato all’inizio degli anni settanta al fianco di Brian De Palma ed è stato attivo fino a pochi anni fa con titoli come World War Z o La mummia con Tom Cruise, propone un accostamento decisamente interessante tra i due titoli più celebri da lui montati, Carrie – Lo sguardo di Satana di De Palma, da Stephen King, e il primo Star Wars di George Lucas: “in Star Wars la conclusione della scena della battaglia presenta esattamente lo stesso problema di montaggio del lancio del secchio pieno di sangue in Carrie. In un certo senso è la stessa scena: la Morte Nera sta per far saltare in aria il pianeta e qualcuno sta per far cadere il secchio pieno di sangue su Carrie. La differenza tra Brian De Palma e George Lucas è che Brian fa succedere davvero ciò che tutti temono, mentre George salva la situazione!”.
Del montaggio di Taxi Driver invece Tom Rolf racconta tutte le difficoltà causate dalla tendenza a improvvisare che sul set Martin Scorsese, Robert De Niro e gli altri attori avevano assunto; il graduale stratificarsi del carattere ipnotico del film, che solo la voce fuori campo di De Niro ha chiarito al suo stesso montatore; l’uso di dissolvenze reiterate sullo stesso ambiente urbano in cui De Niro/Trevis Bickle cammina a vuoto, per suggerire un senso di alienazione, di impotenza, di stasi coatta. Andando più indietro verso gli albori della New Hollywood risuona affascinante anche il racconto di Donn Cambern sulla realizzazione sperimentale della sequenza del trip verso il termine di Easy Rider di Dennis Hopper, una sequenza a detta sua decisamente figlia dei tempi: “erano i primissimi tempi della cultura della droga, l’inizio di una trasformazione radicale del pensiero. Non è che io fossi propriamente un tipo da controcultura: ero felicemente sposato con figli, ma stavo ancora sperimentando, perciò quel tentativo mi offrì una sensazione di libertà. Se avessimo cercato di realizzare la stessa sequenza cinque anni prima sarebbe venuta fuori completamente diversa, molto più strutturata e molto più limitata”.
Non c’è solo ovviamente l’estasi della tecnica e l’aneddotica del dietro-le-quinte dei più grandi classici del cinema americano: da First Cut della Oldham emerge anche, e da parte di più voci, una certa frustrazione nei confronti della scarsa considerazione che la professione del montatore ha, a detta dei diretti interessati, non solo da parte del grande pubblico ma anche all’interno della stessa industria cinematografica. Contraddicendo in un certo senso la riflessione di Kubrick sul montaggio come il vero specifico cinematografico, nella sua intervista a due con il padre Carl Kress paragona il lavoro del montatore cinematografico a quello dell’editor di una rivista: è proprio la scorrevolezza del risultato finale ad essere al tempo stesso l’obiettivo più agognato da un montatore e il motivo per cui tra tutti i mestieri del cinema questo è il più impalpabile e silenzioso, tanto da rischiare di passare inosservato. Sarebbe interessante vedere se in First Cut 2 queste stesse rimostranze restano o cambiano accento. Quel che è certo è che il primo dei due volumi sul montaggio di Gabriella Oldham offre una prospettiva inedita e decisamente pragmatica su una porzione importante della storia del cinema americano. Dopo L’occhio del regista di Laurent Tirard, I maestri della luce di Dennis Schaefer e Larry Salvato, e il nostrano Per i soldi o per la gloria di Domenico Monetti e Luca Pallanch sulla storia dei produttori italiani fino all’avvento delle tv private, First Cut è una notevole aggiunta alla già prestigiosa collana sul cinema di minimum fax.