Attorno a The Shrouds: alla ricerca del corpo
nella disgregazione digitale,
di Mario Vannoni
TR-131
21.06.2025
Con Crimes of the Future (2022) Cronenberg aveva riportato al centro del suo cinema la rappresentazione del corpo, secondo modalità più vicine alla prima fase della sua carriera che non a quella successiva alla svolta “psicologica” avvenuta a partire da Spider (2002). Un corpo osservato, analizzato e al fine anche vivisezionato in profondità, per scoprirvi mutazioni biologiche indotte dalla tecnologia - qui formazioni tumorali autogenerantesi, ma altrove nell’opera del regista in varie altre forme - inaspettate e sempre capaci di porre in discussione la costruzione identitaria dell’essere umano nonché la sua (fallace) dualità fondamentale: quella tra corpo e mente. The Shrouds (The Shrouds - Segreti sepolti, 2024) sembra invertire nuovamente la rotta, riportando al centro la dimensione psicologica dell’individuo, che è però a sua volta indagata, sviscerata e posta in discussione come fosse un corpo.
La canonica suddivisione dell’opera cronenberghiana in due fasi è utile solo a fini compilativi, ma del tutto fuorviante se si tratta di comprendere analiticamente il cinema del regista: i film successivi a Spider non abbandonano la trattazione sul corpo in favore di quella sulla mente, ma riarticolano il discorso rovesciandone la prospettiva, dall’esterno (il corpo) verso l’interno (la mente) e viceversa, senza soluzione di continuità. Cronenberg non è mai stato un cineasta del corporeo, semmai la sua filmografia è un continuo aggiornamento - tecnologico e finanche antropologico - di un’ontologia dell’umano data in prospettiva olistica, che vede mente e corpo come un’unità inscindibile e costitutiva.
Scorrendo velocemente la filmografia del regista ciò è evidente sin dalle prime opere - in Shivers (Il demone sotto la pelle, 1975) un parassita, una volta introdotto nell’organismo, trasforma le persone in delle specie di zombie e allo stesso tempo risveglia in esse un’improvvisa voglia di sesso; in Rabid (Rabid - Sete di sangue, 1977) una sperimentazione chirurgica restituisce la bellezza alla ragazza vittima dell’incidente a inizio film, ma la rende anche avida di sangue, che succhia agli altri come fosse un vampiro - così come in quelle più mature - in Scanners (1981) i poteri telepatici producono modificazioni somatiche, in particolare facciali; in Videodrome (1983) il segnale televisivo infetta la mente come un virus, ma successivamente il corpo subisce numerose trasformazioni; The Fly (La mosca, 1986) è forse l’esempio più lampante della compenetrazione corpo-mente nel cinema di Cronenberg, con la degradazione fisica che va di pari passo a quella mentale (ma finché sussiste un corpo sopravvive l’umanità) - che in quelle più ibride e tarde - Dead Ringers (Inseparabili, 1988) tematizza la molteplicità connaturata all’essere umano, una molteplicità esteriore e interiore a un tempo, che si fa segno di personalità borderline; in Crash (1996) l’apatia è lo specchio di un corpo insensibile; con Eastern Promises (La promessa dell’assassino, 2007) il regista scrive letteralmente sul corpo del protagonista la sua storia interiore, mentre A History of Violence (2005) mostra quanto certe attitudini costruiscano la percezione dei corpi, in maniera non dissimile, e anzi maggiormente didascalica, da A Dangerous Method (2011); infine, in Cosmopolis (2012) e Maps to the Stars (2014) è la società stessa a farsi corpo, con annesse le sue nevrosi.
Ralph Finnes, straordinario interprete in Spider (2002)
The Shrouds, in questo senso, porta avanti in maniera coerente la poetica dell'autore canadese, affondando l’uomo in un abisso tecnologico sempre più profondo e che sempre più distanzia i corpi - intesi come materiale organico - dal reale dell’esistenza terrena. Questo distanziamento avviene, propedeuticamente, per mezzo della tecnologia stessa, che nel caso di Cronenberg prende la forma del cinema e dell’immagine riproducibile e alterabile tecnicamente. Nonostante una messa in scena fredda, distante e distanziata, chirurgica al limite del sopportabile (strategia rappresentativa a dire il vero non nuova al regista), The Shrouds è, tra i suoi film, quello che cerca di più i corpi, ma lo fa attraverso una costruzione tutta mentale che trascina con sé le sovrastrutture narrative e immaginifiche tramite le quali diamo senso al mondo. Un filtro tuttalpiù tecnologico che nell’über-visione digitale, capace di osservare i corpi anche nel loro disfacimento e cioè nella negazione di essi, realizza un allontanamento irriducibile che si esplica nell’immagine: se il corpo diventa immagine smette di essere corpo.
È un film disperato The Shrouds, ma al contempo pragmatico, perché mostra non un pessimismo esistenzialista o un neo-luddismo del presente, ma analizza come gli strumenti a nostra disposizione - e inevitabilmente da noi creati - ci cambiano e cambiano il nostro rapporto con la realtà. Se dunque Karsh, il protagonista interpretato da Vincent Cassel, osserva il corpo della moglie defunta oltre i limiti dell’osservabile (ovvero: oltre la morte) grazie a quella sorta di tanatoprassi iper-tecnologica che è il sistema GraveTech e in particolare la ShroudCam, è per mezzo della stessa che sperimenta la dissoluzione di quel corpo nell’immaterialità del digitale. La sovra-rappresentazione causa il dissolvimento: lo sperimentiamo più che mai oggi, sottoposti a un incessante bombardamento mediatico che ci rende apatici anche nei confronti delle peggiori tragedie.
A un certo punto del film la ShroudCam che controlla ciò che resta del cadavere della moglie di Karsh rileva in esso delle anomale escrescenze pseudo-tumorali che paiono comparse dal nulla; scopriremo poi che sono in realtà artefatti creati attraverso una manipolazione digitale dell’immagine, post-produzioni dell’immagine di un post-corpo. Qui Cronenberg ribalta uno dei concetti che stanno alla base della riproduzione fotografica del reale. Se a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX si parlava della fotografia come di un mezzo capace di immortale - cioè rendere immortale - la realtà, e quindi di restituire la fattualità dei corpi all’eternità, nel contemporaneo la riproduzione del mondo si è dissolta nei numeri che formano il digitale, finendo con l’essere non la restituzione di una concretezza, ma la sua simulazione numerica: siamo nei territori dell’iperrealtà baudrillardiana.
The Shrouds (2024)
I corpi del digitale, secondo Cronenberg, sono corpi vuoti, privati dell’immanenza. E perciò The Shrouds è un film senza corpi, che in quest’assenza rivendica la centralità ontologica della materia nella composizione dell’essere. Nella massima distanza che separa i corpi dal digitale Cronenberg cerca il corpo, come fosse il fantasma di un cinema che si consuma nella perdita. Il fatto che siano le immagini a costruire questa distanza dissolutrice è spia di un mutato ruolo dello sguardo del cinema: non più dispositivo immortalante e perciò vivificante, ma replicante e perciò mortifero. Oltre che la morte della moglie, allora, il regista sembra piangere la crisi dello sguardo tecnologico, che scrive la materia su supporti immateriali, che ricrea l’esatta copia pur deprivandola del suo pulsare. È questo, in fondo, ciò che fa la ShroudCam: riproduce esattamente un corpo che non esiste più
La maggior parte delle inquadrature di dialogo in The Shrouds sono piani fissi in cui il personaggio parlante si trova nel lato del quadro direttamente comunicante - e quindi opposto - al relativo controcampo. Ad esempio: se il personaggio 1 si trova sul lato destro nell’inquadratura 1, il personaggio 2 si troverà sul lato sinistro nell’inquadratura 2. Questa costruzione lascia di conseguenza la cosiddetta “aria” (la porzione di inquadratura non occupata dal personaggio) non in direzione del soggetto con il quale il personaggio sta comunicando - come solitamente avviene nelle scene di dialogo - ma alle spalle di quest’ultimo. Lo spazio che si viene a creare non è riempito con elementi profilmici o impalcature scenografiche, ma resta sgombro, a segnalare la presenza della morte.
È come se l’aria a lato dei personaggi ne sottolineasse la finitezza e il vuoto interiore, una messa in scena che rivendica costantemente la natura mortuaria del film. «Karsh, rispetto ad altri grandi protagonisti cronenberghiani, non è […] un manipolatore di corpi, almeno non direttamente perché […] sui corpi ci ha comunque costruito una carriera. L'uomo è piuttosto interessato a guardarne una riproduzione digitale: la scansione fornita dalla shroud-cam permette di osservare i corpi tramite un'inquadratura grandangolare, ma anche di ruotare e zoomare, di conservare delle immagini in showreel che appaiono astratti memento mori» (G. Gangi, The Shrouds - Segreti sepolti). Non a caso il nome del protagonista rimanda a quello del fotografo armeno, Yousuf Karsh, specializzato in ritratti: il personaggio di Vincent Cassel, in un ennesimo ribaltamento della valenza dell’immagine fotografica, realizza ritratti della morte.
Gangi, nella sua recensione del film sopra citata, solleva un punto fondamentale, affermando che «Karsh non vuole vedere [il corpo della moglie], perché esso galleggia nella sua coscienza quale immagine». Mentre Crimes of the Future portava l’esplorazione cronenberghiana dei corpi al limite massimo guardando, letteralmente, dentro di essi - corpi che ormai dal punto di vista biologico superano le attuali possibilità scientifiche - The Shrouds, muovendosi nell’estremo opposto, prosegue l’esplorazione del corporeo osservandone il disfacimento, il quale non è solamente fisico, ma tecnologico, sociale, mediatico: in una parola, antropologico. Non solo il corpo cessa di essere organico, si smaterializza nel regno delle immagini digitali.
Vincent Cassel e Diane Kruger, protagonisti di The Shrouds (2024)
Una modesta proposta
Nell’ultimo decennio il cinema ha prodotto una serie di opere che trattano la questione del corporeo e del suo rapporto con il digitale. Tra le più recenti la prima che viene in mente è indubbiamente The Substance (Coralie Fargeat, 2024), che presenta vari rimandi alla filmografia cronenberghiana, in particolare nell’utilizzo del body horror come dispositivo per parlare del presente delle immagini. Come in The Shrouds, anche in The Substance il corpo è un’immagine, sia dal punto di vista della sua mercificazione mediale che risponde a precisi - ed elevatissimi - canoni estetici, scaturendo nella mostrificazione (nonché mortificazione) cui molte star (e non solo) si sono sottoposte a causa di errati ed eccessivi interventi di chirurgia (l’esempio più celebre in tal senso è quello di Mickey Rourke), sia a un livello meta-filmico, in quanto la protagonista Demi Moore ha ricorso in prima persona a ritocchi artificiali per mantenere il suo corpo adeguato agli standard hollywoodiani, che sul versante linguistico, perché per costruire il corpo ideale incarnato da Margaret Qualley si è resa necessaria sia l’applicazione di protesti al seno che vari interventi in post-produzione per gonfiare le sue forme.
In The Substance, tuttavia, agisce altresì una spinta contraria, realizzata nel ricorso ad effetti speciali artigianali e al trucco prostetico – che molto devono a un film come Society - The Horror (Brian Yuzna, 1989) -, restituendo un’idea di corpo duplice, contesa tra l’artefatto digitale e la pulsionalità della carne. Da un lato quindi un essere umano costretto al ritocco de-umanizzante e dall’altro un richiamo alla carnalità e alla materia che resta inevaso, seppur determinante per le sorti del film. Infatti, l’involucro finzionale in cui Elisabeth si rifugia dando vita a Sue alla fine non può far altro che disgregarsi, facendo emergere la singolarità della protagonista e restituendo lo spazio semantico all’autenticità. Il corpo di Sue non è altro che l’ennesimo oggetto di cui il sistema mediatico si appropria, sovraesponendolo e causando così la sua scomparsa (anche letterale: la presenza di Sue nasconde quella di Elisabeth, e la copresenza di entrambe porta alla mostrificazione). Qualcosa di simile accade anche in The Shrouds, in cui l’osservazione ossessiva del corpo morto porta alla sua sparizione, o meglio alla sua disgregazione in immagine che svanisce tra le immagini. E non è un caso allora che l’unico personaggio del film che si dimostra davvero in grado di vedere i corpi sia Soo-min, affetta da cecità: la mancanza della vista, lungi dal costituire un difetto, si dimostra al contrario una possibilità ulteriore per i sensi, tramite i quali la donna vede meglio di Karsh, nonostante - e anzi proprio perché - lui basi la sua vita sull’osservazione dei cadaveri.
È un cadavere anche il corpo putrefatto del conte Orlok in Nosferatu (Robert Eggers, 2024), che paga il trascorrere dei secoli con risultati visibili: il suo è un corpo morto che agisce come vivo, la sua carne è ferita e in decomposizione ma ciò non affievolisce la sua carnalità. L’attrazione sessuale che si instaura tra il vampiro e Ellen Hutter è un’escrescenza violenta che buca il tessuto della società - il concetto è simbolizzato nel finale del film, quando Orlok morde il petto della donna appropriandosi, letteralmente, del suo corpo mentre lei si appropria del suo raggiungendo l’orgasmo. La pulsionalità della carne è indomabile anche da una società sottomessa alle superstizioni e che costringe gli individui - in particolare le donne - a una condizione di clausura il cui rifiuto porta all’attribuzione di patologie mentali: il corpo, in questo senso, funge per Ellen da strumento di liberazione del sé.
The Substance (2024) di Coralie Fargeat
In The Shrouds ci sono alcune scene di sesso girate con la stessa freddezza riservata agli altri contesti della messa in scena, ma una in particolare - che cita direttamente una scena pressocché identica in Crash - gode di una rappresentazione particolarmente intensa e rivelatrice. Parlo ovviamente del sogno in cui Karsh ha un rapporto con la moglie nonostante il corpo di lei rischi di rompersi al minimo tocco; il che avviene, dando luogo al momento drammaticamente più riuscito dell’intero film, quasi fosse un’esplosione controllata. Anche qui la carne vuole la sua parte, ma il tutto avviene all’interno di un contesto onirico che esclude il godimento del contatto tra i corpi dal regime della rappresentazione digitale. Ancora una volta la questione fisica in The Shrouds non trova lo spazio per un’espressione libera.
La libertà dell’espressività corporea, al contrario, è uno dei temi ricorrenti nella filmografia di Leos Carax, dall’esordio con Boy Meets Girl (1984) passando per Mauvais Sang (Rosso sangue, 1986) e Les Amants du Pont-Neuf (Gli amanti del Pont-Neuf, 1991), fino a quel saggio sulla recitazione che è Holy Motors (2012). Anche il cinema del regista francese, che già si era confrontato con la morte della Settima Arte nel regime del digitale nel film appena citato, in Annette (2021) trova il suo limite, mostrando un’espressività che non è limitata in un senso strettamente fisico ma messa in scena come se i personaggi si muovessero su un eterno palcoscenico (il che avveniva, appunto, seppur con modalità diverse, anche in Holy Motors) che trasforma la loro gestualità in un sistema di esibizioni artefatte. È emblematica, in tal senso, la figura della piccola Annette, figlia-bambola che diviene di carne nel momento in cui si libera dal giogo genitoriale. In The Shrouds questa liberazione non ha mai luogo, se non, come dicevamo, in un regime onirico avulso dalla fattualità degli eventi. Il corpo, in The Shrouds, ha perso definitivamente la sua essenza organica, ha smesso di pulsare.
Il che non costituisce un limite del film. Cronenberg si è sempre dimostrato un attento analista della società e dei suoi cambiamenti, i quali passano, sempre, attraverso la tecnologia. Il digitale in questo senso è una macchina disumanizzante, non perché il regista ne voglia restituire un volto negativo, ma perché rappresenta il digitale in quanto dispositivo in funzione all’interno del sociale. La sofisticazione dell’immagine binaria è una rivoluzione tecnologica con cui i professionisti dell’audiovisivo fanno i conti ormai da almeno 30 anni; messa alla prova, essa rivela delle potenzialità mai esplorate e in un certo senso rovescia il nostro rapporto con il visivo: nella rappresentazione analogica della realtà si consolidava un rapporto 1:1 tra quest’ultima e la sua messa in forma, al punto che qualsiasi modificazione del materiale originario (il mondo) derivava da un lavoro sull’immagine capace di riscrivere i connotati del reale ma partendo da esso - da cui le analogie tra pelle e pellicola, mettere mano e manomettere -; col digitale la rappresentazione non ha più bisogno del mondo inteso come personaggio da ritrarre: il lavoro non è più sull’immagine ma dell’immagine, ciò che vediamo raffigurato non più è una messa in forma della realtà materiale ma una sua ricostruzione numerica. In The Shrouds Cronenberg, con una continua torsione teorica, porta queste premesse alle estreme conseguenze: l’immagine digitale non immortala i corpi come nell’analogico, ma li uccide, anche quando sono già morti - li mortifica.
Holy Motors (2012) di Leos Carax
L’analisi di Cronenberg è precisa e centrata anche nell’osservare le derive che questa costruzione epistemologica dell’immaginario produce nel vivere sociale. Le immagini sembrano aver perso la loro forza dirompente e il loro valore eversivo a causa di una sovraesposizione costante che ne annulla il portato semantico e simbolico. È ciò che accade quando reagiamo indifferenti all’ennesima visione delle atrocità perpetrate dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza o ai continui bombardamenti delle città ucraine. Siamo anestetizzati sia al contenuto delle immagini che alla loro funzione allegorizzante, perché se un’immagine può essere prodotta in serie senza che debba sussistere necessariamente l’esigenza di crearla, ciò significa la morte del reale.
Credo sia per questo che Yorgos Lanthimos in Poor Things (Povere creature, 2023), dentro la ricostruzione digitale di un mondo steampunk e distopico, sceglie di stare così attaccato ai corpi, visti nell’espletamento delle loro funzioni ed esplorati nella sfera sessuale e di conseguenza anatomica. Il corpo di Bella Baxter è una sintesi di digitale e analogico: creato in laboratorio, si scopre carne; condannato a essere conforme, si ribella a qualsiasi sovrastruttura. Una strada ancor più radicale è quella intrapresa in Dostoevskij (2024) dai fratelli D’Innocenzo, che scelgono il 16mm - rifiutando il digitale - per dire la crudezza del mondo e per rimarcare come il nostro rapporto con esso sia sempre mediato dal corpo di cui siamo fatti; una presa di posizione netta che tocca il suo apice quando ci viene mostrata una colonscopia: una dimostrazione del fatto che l’immagine vede i corpi.
Questa non vuole essere un’invettiva contro The Shrouds, che, lo ribadiamo, è l’unico esito possibile in un’era post-tutto come quella che stiamo vivendo; al contrario questo vuole essere un invito a tornare a pulsare, a restituire centralità alla dimensione corporea nel suo aspetto visibile. Lo abbiamo ripetuto più volte: Cronenberg, in The Shrouds, produce un canto funebre del corporeo attraverso la sua smaterializzazione nel numerico. Ma dentro questo abisso teorico sento l’esigenza di ripristinare un rapporto im-mediato con la carne, con l’organico. Gli esempi di opere che ho portato sono forme di resistenza a una disgregazione che sembra inevitabile, perciò credo che per restituire dignità alle immagini sia necessario guardare alle origini - della rappresentazione, degli istinti, rifiutando la semplicità in nome di un ritorno all’autentico - e, così facendo, rivederci in esse. Torniamo a essere carne, e a rappresentarci in quanto tali: solo i nostri corpi sono la prova che non siamo ancora morti.
The Shrouds (2024)
Attorno a The Shrouds: alla ricerca del corpo
nella disgregazione digitale,
di Mario Vannoni
TR-131
21.06.2025
Con Crimes of the Future (2022) Cronenberg aveva riportato al centro del suo cinema la rappresentazione del corpo, secondo modalità più vicine alla prima fase della sua carriera che non a quella successiva alla svolta “psicologica” avvenuta a partire da Spider (2002). Un corpo osservato, analizzato e al fine anche vivisezionato in profondità, per scoprirvi mutazioni biologiche indotte dalla tecnologia - qui formazioni tumorali autogenerantesi, ma altrove nell’opera del regista in varie altre forme - inaspettate e sempre capaci di porre in discussione la costruzione identitaria dell’essere umano nonché la sua (fallace) dualità fondamentale: quella tra corpo e mente. The Shrouds (The Shrouds - Segreti sepolti, 2024) sembra invertire nuovamente la rotta, riportando al centro la dimensione psicologica dell’individuo, che è però a sua volta indagata, sviscerata e posta in discussione come fosse un corpo.
La canonica suddivisione dell’opera cronenberghiana in due fasi è utile solo a fini compilativi, ma del tutto fuorviante se si tratta di comprendere analiticamente il cinema del regista: i film successivi a Spider non abbandonano la trattazione sul corpo in favore di quella sulla mente, ma riarticolano il discorso rovesciandone la prospettiva, dall’esterno (il corpo) verso l’interno (la mente) e viceversa, senza soluzione di continuità. Cronenberg non è mai stato un cineasta del corporeo, semmai la sua filmografia è un continuo aggiornamento - tecnologico e finanche antropologico - di un’ontologia dell’umano data in prospettiva olistica, che vede mente e corpo come un’unità inscindibile e costitutiva.
Scorrendo velocemente la filmografia del regista ciò è evidente sin dalle prime opere - in Shivers (Il demone sotto la pelle, 1975) un parassita, una volta introdotto nell’organismo, trasforma le persone in delle specie di zombie e allo stesso tempo risveglia in esse un’improvvisa voglia di sesso; in Rabid (Rabid - Sete di sangue, 1977) una sperimentazione chirurgica restituisce la bellezza alla ragazza vittima dell’incidente a inizio film, ma la rende anche avida di sangue, che succhia agli altri come fosse un vampiro - così come in quelle più mature - in Scanners (1981) i poteri telepatici producono modificazioni somatiche, in particolare facciali; in Videodrome (1983) il segnale televisivo infetta la mente come un virus, ma successivamente il corpo subisce numerose trasformazioni; The Fly (La mosca, 1986) è forse l’esempio più lampante della compenetrazione corpo-mente nel cinema di Cronenberg, con la degradazione fisica che va di pari passo a quella mentale (ma finché sussiste un corpo sopravvive l’umanità) - che in quelle più ibride e tarde - Dead Ringers (Inseparabili, 1988) tematizza la molteplicità connaturata all’essere umano, una molteplicità esteriore e interiore a un tempo, che si fa segno di personalità borderline; in Crash (1996) l’apatia è lo specchio di un corpo insensibile; con Eastern Promises (La promessa dell’assassino, 2007) il regista scrive letteralmente sul corpo del protagonista la sua storia interiore, mentre A History of Violence (2005) mostra quanto certe attitudini costruiscano la percezione dei corpi, in maniera non dissimile, e anzi maggiormente didascalica, da A Dangerous Method (2011); infine, in Cosmopolis (2012) e Maps to the Stars (2014) è la società stessa a farsi corpo, con annesse le sue nevrosi.
Ralph Finnes, straordinario interprete in Spider (2002)
The Shrouds, in questo senso, porta avanti in maniera coerente la poetica dell'autore canadese, affondando l’uomo in un abisso tecnologico sempre più profondo e che sempre più distanzia i corpi - intesi come materiale organico - dal reale dell’esistenza terrena. Questo distanziamento avviene, propedeuticamente, per mezzo della tecnologia stessa, che nel caso di Cronenberg prende la forma del cinema e dell’immagine riproducibile e alterabile tecnicamente. Nonostante una messa in scena fredda, distante e distanziata, chirurgica al limite del sopportabile (strategia rappresentativa a dire il vero non nuova al regista), The Shrouds è, tra i suoi film, quello che cerca di più i corpi, ma lo fa attraverso una costruzione tutta mentale che trascina con sé le sovrastrutture narrative e immaginifiche tramite le quali diamo senso al mondo. Un filtro tuttalpiù tecnologico che nell’über-visione digitale, capace di osservare i corpi anche nel loro disfacimento e cioè nella negazione di essi, realizza un allontanamento irriducibile che si esplica nell’immagine: se il corpo diventa immagine smette di essere corpo.
È un film disperato The Shrouds, ma al contempo pragmatico, perché mostra non un pessimismo esistenzialista o un neo-luddismo del presente, ma analizza come gli strumenti a nostra disposizione - e inevitabilmente da noi creati - ci cambiano e cambiano il nostro rapporto con la realtà. Se dunque Karsh, il protagonista interpretato da Vincent Cassel, osserva il corpo della moglie defunta oltre i limiti dell’osservabile (ovvero: oltre la morte) grazie a quella sorta di tanatoprassi iper-tecnologica che è il sistema GraveTech e in particolare la ShroudCam, è per mezzo della stessa che sperimenta la dissoluzione di quel corpo nell’immaterialità del digitale. La sovra-rappresentazione causa il dissolvimento: lo sperimentiamo più che mai oggi, sottoposti a un incessante bombardamento mediatico che ci rende apatici anche nei confronti delle peggiori tragedie.
A un certo punto del film la ShroudCam che controlla ciò che resta del cadavere della moglie di Karsh rileva in esso delle anomale escrescenze pseudo-tumorali che paiono comparse dal nulla; scopriremo poi che sono in realtà artefatti creati attraverso una manipolazione digitale dell’immagine, post-produzioni dell’immagine di un post-corpo. Qui Cronenberg ribalta uno dei concetti che stanno alla base della riproduzione fotografica del reale. Se a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX si parlava della fotografia come di un mezzo capace di immortale - cioè rendere immortale - la realtà, e quindi di restituire la fattualità dei corpi all’eternità, nel contemporaneo la riproduzione del mondo si è dissolta nei numeri che formano il digitale, finendo con l’essere non la restituzione di una concretezza, ma la sua simulazione numerica: siamo nei territori dell’iperrealtà baudrillardiana.
The Shrouds (2024)
I corpi del digitale, secondo Cronenberg, sono corpi vuoti, privati dell’immanenza. E perciò The Shrouds è un film senza corpi, che in quest’assenza rivendica la centralità ontologica della materia nella composizione dell’essere. Nella massima distanza che separa i corpi dal digitale Cronenberg cerca il corpo, come fosse il fantasma di un cinema che si consuma nella perdita. Il fatto che siano le immagini a costruire questa distanza dissolutrice è spia di un mutato ruolo dello sguardo del cinema: non più dispositivo immortalante e perciò vivificante, ma replicante e perciò mortifero. Oltre che la morte della moglie, allora, il regista sembra piangere la crisi dello sguardo tecnologico, che scrive la materia su supporti immateriali, che ricrea l’esatta copia pur deprivandola del suo pulsare. È questo, in fondo, ciò che fa la ShroudCam: riproduce esattamente un corpo che non esiste più
La maggior parte delle inquadrature di dialogo in The Shrouds sono piani fissi in cui il personaggio parlante si trova nel lato del quadro direttamente comunicante - e quindi opposto - al relativo controcampo. Ad esempio: se il personaggio 1 si trova sul lato destro nell’inquadratura 1, il personaggio 2 si troverà sul lato sinistro nell’inquadratura 2. Questa costruzione lascia di conseguenza la cosiddetta “aria” (la porzione di inquadratura non occupata dal personaggio) non in direzione del soggetto con il quale il personaggio sta comunicando - come solitamente avviene nelle scene di dialogo - ma alle spalle di quest’ultimo. Lo spazio che si viene a creare non è riempito con elementi profilmici o impalcature scenografiche, ma resta sgombro, a segnalare la presenza della morte.
È come se l’aria a lato dei personaggi ne sottolineasse la finitezza e il vuoto interiore, una messa in scena che rivendica costantemente la natura mortuaria del film. «Karsh, rispetto ad altri grandi protagonisti cronenberghiani, non è […] un manipolatore di corpi, almeno non direttamente perché […] sui corpi ci ha comunque costruito una carriera. L'uomo è piuttosto interessato a guardarne una riproduzione digitale: la scansione fornita dalla shroud-cam permette di osservare i corpi tramite un'inquadratura grandangolare, ma anche di ruotare e zoomare, di conservare delle immagini in showreel che appaiono astratti memento mori» (G. Gangi, The Shrouds - Segreti sepolti). Non a caso il nome del protagonista rimanda a quello del fotografo armeno, Yousuf Karsh, specializzato in ritratti: il personaggio di Vincent Cassel, in un ennesimo ribaltamento della valenza dell’immagine fotografica, realizza ritratti della morte.
Gangi, nella sua recensione del film sopra citata, solleva un punto fondamentale, affermando che «Karsh non vuole vedere [il corpo della moglie], perché esso galleggia nella sua coscienza quale immagine». Mentre Crimes of the Future portava l’esplorazione cronenberghiana dei corpi al limite massimo guardando, letteralmente, dentro di essi - corpi che ormai dal punto di vista biologico superano le attuali possibilità scientifiche - The Shrouds, muovendosi nell’estremo opposto, prosegue l’esplorazione del corporeo osservandone il disfacimento, il quale non è solamente fisico, ma tecnologico, sociale, mediatico: in una parola, antropologico. Non solo il corpo cessa di essere organico, si smaterializza nel regno delle immagini digitali.
Vincent Cassel e Diane Kruger, protagonisti di The Shrouds (2024)
Una modesta proposta
Nell’ultimo decennio il cinema ha prodotto una serie di opere che trattano la questione del corporeo e del suo rapporto con il digitale. Tra le più recenti la prima che viene in mente è indubbiamente The Substance (Coralie Fargeat, 2024), che presenta vari rimandi alla filmografia cronenberghiana, in particolare nell’utilizzo del body horror come dispositivo per parlare del presente delle immagini. Come in The Shrouds, anche in The Substance il corpo è un’immagine, sia dal punto di vista della sua mercificazione mediale che risponde a precisi - ed elevatissimi - canoni estetici, scaturendo nella mostrificazione (nonché mortificazione) cui molte star (e non solo) si sono sottoposte a causa di errati ed eccessivi interventi di chirurgia (l’esempio più celebre in tal senso è quello di Mickey Rourke), sia a un livello meta-filmico, in quanto la protagonista Demi Moore ha ricorso in prima persona a ritocchi artificiali per mantenere il suo corpo adeguato agli standard hollywoodiani, che sul versante linguistico, perché per costruire il corpo ideale incarnato da Margaret Qualley si è resa necessaria sia l’applicazione di protesti al seno che vari interventi in post-produzione per gonfiare le sue forme.
In The Substance, tuttavia, agisce altresì una spinta contraria, realizzata nel ricorso ad effetti speciali artigianali e al trucco prostetico – che molto devono a un film come Society - The Horror (Brian Yuzna, 1989) -, restituendo un’idea di corpo duplice, contesa tra l’artefatto digitale e la pulsionalità della carne. Da un lato quindi un essere umano costretto al ritocco de-umanizzante e dall’altro un richiamo alla carnalità e alla materia che resta inevaso, seppur determinante per le sorti del film. Infatti, l’involucro finzionale in cui Elisabeth si rifugia dando vita a Sue alla fine non può far altro che disgregarsi, facendo emergere la singolarità della protagonista e restituendo lo spazio semantico all’autenticità. Il corpo di Sue non è altro che l’ennesimo oggetto di cui il sistema mediatico si appropria, sovraesponendolo e causando così la sua scomparsa (anche letterale: la presenza di Sue nasconde quella di Elisabeth, e la copresenza di entrambe porta alla mostrificazione). Qualcosa di simile accade anche in The Shrouds, in cui l’osservazione ossessiva del corpo morto porta alla sua sparizione, o meglio alla sua disgregazione in immagine che svanisce tra le immagini. E non è un caso allora che l’unico personaggio del film che si dimostra davvero in grado di vedere i corpi sia Soo-min, affetta da cecità: la mancanza della vista, lungi dal costituire un difetto, si dimostra al contrario una possibilità ulteriore per i sensi, tramite i quali la donna vede meglio di Karsh, nonostante - e anzi proprio perché - lui basi la sua vita sull’osservazione dei cadaveri.
È un cadavere anche il corpo putrefatto del conte Orlok in Nosferatu (Robert Eggers, 2024), che paga il trascorrere dei secoli con risultati visibili: il suo è un corpo morto che agisce come vivo, la sua carne è ferita e in decomposizione ma ciò non affievolisce la sua carnalità. L’attrazione sessuale che si instaura tra il vampiro e Ellen Hutter è un’escrescenza violenta che buca il tessuto della società - il concetto è simbolizzato nel finale del film, quando Orlok morde il petto della donna appropriandosi, letteralmente, del suo corpo mentre lei si appropria del suo raggiungendo l’orgasmo. La pulsionalità della carne è indomabile anche da una società sottomessa alle superstizioni e che costringe gli individui - in particolare le donne - a una condizione di clausura il cui rifiuto porta all’attribuzione di patologie mentali: il corpo, in questo senso, funge per Ellen da strumento di liberazione del sé.
The Substance (2024) di Coralie Fargeat
In The Shrouds ci sono alcune scene di sesso girate con la stessa freddezza riservata agli altri contesti della messa in scena, ma una in particolare - che cita direttamente una scena pressocché identica in Crash - gode di una rappresentazione particolarmente intensa e rivelatrice. Parlo ovviamente del sogno in cui Karsh ha un rapporto con la moglie nonostante il corpo di lei rischi di rompersi al minimo tocco; il che avviene, dando luogo al momento drammaticamente più riuscito dell’intero film, quasi fosse un’esplosione controllata. Anche qui la carne vuole la sua parte, ma il tutto avviene all’interno di un contesto onirico che esclude il godimento del contatto tra i corpi dal regime della rappresentazione digitale. Ancora una volta la questione fisica in The Shrouds non trova lo spazio per un’espressione libera.
La libertà dell’espressività corporea, al contrario, è uno dei temi ricorrenti nella filmografia di Leos Carax, dall’esordio con Boy Meets Girl (1984) passando per Mauvais Sang (Rosso sangue, 1986) e Les Amants du Pont-Neuf (Gli amanti del Pont-Neuf, 1991), fino a quel saggio sulla recitazione che è Holy Motors (2012). Anche il cinema del regista francese, che già si era confrontato con la morte della Settima Arte nel regime del digitale nel film appena citato, in Annette (2021) trova il suo limite, mostrando un’espressività che non è limitata in un senso strettamente fisico ma messa in scena come se i personaggi si muovessero su un eterno palcoscenico (il che avveniva, appunto, seppur con modalità diverse, anche in Holy Motors) che trasforma la loro gestualità in un sistema di esibizioni artefatte. È emblematica, in tal senso, la figura della piccola Annette, figlia-bambola che diviene di carne nel momento in cui si libera dal giogo genitoriale. In The Shrouds questa liberazione non ha mai luogo, se non, come dicevamo, in un regime onirico avulso dalla fattualità degli eventi. Il corpo, in The Shrouds, ha perso definitivamente la sua essenza organica, ha smesso di pulsare.
Il che non costituisce un limite del film. Cronenberg si è sempre dimostrato un attento analista della società e dei suoi cambiamenti, i quali passano, sempre, attraverso la tecnologia. Il digitale in questo senso è una macchina disumanizzante, non perché il regista ne voglia restituire un volto negativo, ma perché rappresenta il digitale in quanto dispositivo in funzione all’interno del sociale. La sofisticazione dell’immagine binaria è una rivoluzione tecnologica con cui i professionisti dell’audiovisivo fanno i conti ormai da almeno 30 anni; messa alla prova, essa rivela delle potenzialità mai esplorate e in un certo senso rovescia il nostro rapporto con il visivo: nella rappresentazione analogica della realtà si consolidava un rapporto 1:1 tra quest’ultima e la sua messa in forma, al punto che qualsiasi modificazione del materiale originario (il mondo) derivava da un lavoro sull’immagine capace di riscrivere i connotati del reale ma partendo da esso - da cui le analogie tra pelle e pellicola, mettere mano e manomettere -; col digitale la rappresentazione non ha più bisogno del mondo inteso come personaggio da ritrarre: il lavoro non è più sull’immagine ma dell’immagine, ciò che vediamo raffigurato non più è una messa in forma della realtà materiale ma una sua ricostruzione numerica. In The Shrouds Cronenberg, con una continua torsione teorica, porta queste premesse alle estreme conseguenze: l’immagine digitale non immortala i corpi come nell’analogico, ma li uccide, anche quando sono già morti - li mortifica.
Holy Motors (2012) di Leos Carax
L’analisi di Cronenberg è precisa e centrata anche nell’osservare le derive che questa costruzione epistemologica dell’immaginario produce nel vivere sociale. Le immagini sembrano aver perso la loro forza dirompente e il loro valore eversivo a causa di una sovraesposizione costante che ne annulla il portato semantico e simbolico. È ciò che accade quando reagiamo indifferenti all’ennesima visione delle atrocità perpetrate dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza o ai continui bombardamenti delle città ucraine. Siamo anestetizzati sia al contenuto delle immagini che alla loro funzione allegorizzante, perché se un’immagine può essere prodotta in serie senza che debba sussistere necessariamente l’esigenza di crearla, ciò significa la morte del reale.
Credo sia per questo che Yorgos Lanthimos in Poor Things (Povere creature, 2023), dentro la ricostruzione digitale di un mondo steampunk e distopico, sceglie di stare così attaccato ai corpi, visti nell’espletamento delle loro funzioni ed esplorati nella sfera sessuale e di conseguenza anatomica. Il corpo di Bella Baxter è una sintesi di digitale e analogico: creato in laboratorio, si scopre carne; condannato a essere conforme, si ribella a qualsiasi sovrastruttura. Una strada ancor più radicale è quella intrapresa in Dostoevskij (2024) dai fratelli D’Innocenzo, che scelgono il 16mm - rifiutando il digitale - per dire la crudezza del mondo e per rimarcare come il nostro rapporto con esso sia sempre mediato dal corpo di cui siamo fatti; una presa di posizione netta che tocca il suo apice quando ci viene mostrata una colonscopia: una dimostrazione del fatto che l’immagine vede i corpi.
Questa non vuole essere un’invettiva contro The Shrouds, che, lo ribadiamo, è l’unico esito possibile in un’era post-tutto come quella che stiamo vivendo; al contrario questo vuole essere un invito a tornare a pulsare, a restituire centralità alla dimensione corporea nel suo aspetto visibile. Lo abbiamo ripetuto più volte: Cronenberg, in The Shrouds, produce un canto funebre del corporeo attraverso la sua smaterializzazione nel numerico. Ma dentro questo abisso teorico sento l’esigenza di ripristinare un rapporto im-mediato con la carne, con l’organico. Gli esempi di opere che ho portato sono forme di resistenza a una disgregazione che sembra inevitabile, perciò credo che per restituire dignità alle immagini sia necessario guardare alle origini - della rappresentazione, degli istinti, rifiutando la semplicità in nome di un ritorno all’autentico - e, così facendo, rivederci in esse. Torniamo a essere carne, e a rappresentarci in quanto tali: solo i nostri corpi sono la prova che non siamo ancora morti.
The Shrouds (2024)