La metamorfosi nell'opera
del grande regista francese,
di Antonio Orrico
TR-119
12.01.2025
Emilia Pérez (2024), ultimo prodotto sfornato dal regista francese figlio d’arte Jacques Audiard, e vincitore di prestigiosi riconoscimenti internazionali al Festival di Cannes e ai Golden Globe, racconta molto del suo autore attraverso il fulmineo incipit: vediamo infatti, Rita Moro Castro, un avvocato interpretato dall’attrice Zoe Saldana, che, attraverso un improvvisa trasformazione in ballerina principale di un numero musicale, spiega cantando al pubblico lo spinoso caso con cui è alle prese, introducendo, in spagnolo, alcuni dei temi cardine del film: violenza, amore e morte. Un inizio che enuncia e riassume, in pochi minuti, un’intera carriera registica, sia dal punto di vista stilistico (classica camera a mano nervosa, intervallata da brevi piani sequenza mobili e da primissimi piani su dettagli corporei) sia da quello poetico.
Il cinema Jacques Audiard è un cinema poliedrico, che mette in scena un’idea che abbatte, di volta in volta, confini di diverse tipologie e di diverse istanze semantiche. I personaggi dei film del regista, fin dal suo esordio con Regarde les hommes tomber (1994), sono inevitabilmente degli outsiders (messi ai margini da una società che appare stringente e fortemente esclusiva), non per scelta, quanto per incomprensione da parte di chi li circonda. Anti-eroi che non seguono forzatamente un piano specifico e che, piuttosto, si caratterizzano per le proprie fragilità, le proprie fissazioni e i propri umori dai quali è impossibile scappare e a cui bisogna costantemente fare capolino. Sono veri e propri corpi in perenne movimento, in un continuo cambiamento/trasformazione che esprime il loro malessere, la loro inquietudine sociale e appiana i contrasti di cui sono preda.
Regarde les hommes tomber (1994)
Le alterazioni repentine che subiscono i corpi dei protagonisti del cinema audardiano sono soprattutto perseguite per adattarsi, per cercare di comprendere meglio la realtà che circonda tutti e per capire come vivere in mondi che, più che terreni, assumono le fattezze di veri e propri inferni. Succede anche al Malik (Tahar Rahim) di Un prophète (Il profeta, 2009), crime carcerario in cui le barriere linguistiche, e corporee, si fanno metafora per esprimere la decadenza di una Francia contemporanea ormai cambiata irreversibilmente. Una Francia contraddittoria, le cui braccia sono quelle di immigrati magrebini e arabi, unici deputati a “sporcarsi le mani” per un Paese che, paradossalmente, prova un tale timore nei loro confronti da confinarli e imprigionarli. Prigioni vissute da outsiders che sono vittime, in prima persona, di tragedie per loro impossibili da evitare, di destini ineluttabili creati solamente in nome di una presunta diversità.
La poetica di Audiard è dunque profondamente umana, formata da elementi vivi, come carne, sangue e ossa, corporea in qualsiasi accezione si possa presentare e viscerale nel momento in cui coinvolge, in prima persona, lo spettatore portandolo ad immedersimarsi totalmente in personaggi segnati da un cammino che, pur con tutte le variazioni possibili, appare segnato in modo irreversibile. Proprio per questo il regista francese è ossessionato ed affezionato al noir, in quanto unico genere/tendenza atto a cogliere le evoluzioni della realtà e a contenere, in sé, suggestioni provenienti da tutti gli altri generi.
Un prophète (Il profeta, 2009)
La manifestazione del noir nel cinema di Jacques Audiard è correlata alle sensazioni epidermiche dei protagonisti di film come Sur Mes Levres (Sulle mie labbra, 2001) o De battre mon cœur s'est arrêté (2005). Proprio questi ultimi due sono forse l’espressione più pronunciata e compiuta di quanto l'autore identifichi il corpo come perno centrale del suo cinema. In Sur Mes Levres, Audiard riesce a farci riflettere sul rapporto tra noi stessi e l'ambiente circostante, in relazione a ciò che lasciamo filtrare all'esterno con i mezzi che abbiamo a disposizione. La sordità di cui è preda Emmanuelle Devos, dunque, si trasforma da difetto che la emargina, in un primo momento, a strumento che amplifica la sua percezione dopo l’incontro con Vincent Cassel. Un deficit che, nel corso dell'opera, riesce ad acquisire una caratterizzazione positiva e a diventare un plus in grado di ampliare la visceralità che si crea nel rapporto tra i due protagonisti e, soprattutto, a garantire un turning point (illusorio) nelle loro vite, permettendogli di sognare un lieto fine che è però puntualmente azzerato e annullato dall’incombere del genere.
De battre mon cœur s'est arrêté esprime, invece, con ulteriore forza, cosa per Jacques Audiard rappresenta il corpo umano: un oggetto infilmabile, una scheggia impazzita in continuo movimento. Questo remake di Fingers (1978), splendido noir neo-hollywoodiano di James Toback, viene interamente costruito sulle fattezze di Romain Duris. L’attore restituisce perfettamente il senso di alienazione di una fisicità “elettricamente” caricata all’interno, sincopata nei movimenti e nella struttura, destinata ad una discesa negli inferi dopo aver accarezzato, in parte, la possibilità di evadere dalla fatalità. Un corpo figlio di un ritorno improvviso alle pulsioni, pessimiste e crepuscolari, del cinema di un gigante francese quale Marcel Carné, e che si ritrova alienato ed emarginato a causa degli scarti sociali e culturali. Qui è proprio la differenza culturale tra Duris e chi lo circonda a creare una barriera invisibile impossibile da scavalcare, portando inevitabilmente il protagonista ad abbracciare il male e a non liberarsene mai più - un paradigma che Audiard sottolinea a più riprese lanciandosi in piani sequenza (lunghi, arguti e con tanto di macchina a mano) proprio per garantire un effetto “scheggia” alla materia che ha scelto, di suo pugno, di filmare.
Sur Mes Levres (Sulle mie labbra, 2001)
Entrambi i film, come anche De rouille et d'os (Un sapore di ruggine e ossa, 2012), opera per certi versi molto simile al già citato Sur Mes Levres, stabiliscono una stretta relazione tra corpo narrativo e corpo cinematografico, creando una mimesi tra le due componenti, che risultano inter-dipendenti l’una dall’altra ed entrambe in continuo mutamento. Corpo fisico e corpo-cinema sono dunque due entità a sé stanti che cooperano per far crollare, di proposito, l’equilibrio narrativo delle narrazioni del regista. In una delle sequenze più impressive di De rouille et d’os, assistiamo all'uso metonimico di un’inquadratura su un dettaglio del corpo di Stéphanie (Marion Cotillard), che diventa sia premonitore della sua narrazione e di ciò che le accadrà, sia escamotage per anticipare, tramite un flash-forward, il finale. Questo gioco di inquadrature e montaggio crea una struttura circolare, che Audiard usa per definire ancora una volta i contorni di un destino cieco e ineffabile, un rendez-vous di vite che si ritrova, con ulteriore insistenza, in Les Olympiades (Parigi, 13Arr, 2021) e Emilia Pérez.
Les Olympiades è forse il film più “rohmeriano” dell’intera carriera dell'autore, in cui, per la prima volta, il contesto in cui è ambientata la vicenda diventa protagonista a sé stante e anzi inghiotte radicalmente i personaggi, guidandoli come marionette verso il loro destino. Il groviglio delle architetture del famoso quartiere di Parigi che dona il nome al film diventa esponente dell’irrequietezza sentimentale. L’elemento scenografico è dunque custode delle anime dei quattro protagonisti e ne ricalca l’incertezza. In questo caso, la stessa città diventa un grande corpo contenitore di altri corpi. Corpi cosmopoliti, che si uniscono, facendo di amore ed amicizia due elementi liquidi che mutano forma di volta in volta e di storia in storia. Il corpo è per la prima volta strumento simbolo dell’irrequietezza giovanile, e Audiard riesce a sottolinearlo tramite espedienti di montaggio (tra cui stacchi netti e utilizzi repentini di split-screen che durano pochi secondi) che restituiscono allo spettatore il sentimento di spaesamento che i personaggi provano all’interno di quel grande corpo-città che è la capitale francese.
Les Olympiades (Parigi, 13Arr, 2021)
Un corpo-città che assomiglia ad un monolite, che si contrappone alla verve e al temperamento irrequieto dei suoi abitanti in modo radicale, attraverso le sue costruzioni, imponenti e squallide allo stesso momento. I palazzi sono la dimostrazione palese del sentimento, tutto metropolitano, dell’incomunicabilità tra i protagonisti di Les Olympiades, che secondo il regista francese è la base del malessere della società giovanile odierna, in cui anche qualcosa di così caldo come l'amore intraprende una strada fredda e insipida, meccanica a causa degli schermi e della tecnologia. Una strada che si spezza solo quando il caso (come Rohmer insegna) prende il sopravvento e decide di far incontrare tutti i personaggi della storia come fossero semplicemente parte del ciclo della vita.
Il caso risulta dunque una componente fondamentale per spezzare la monotonia e per dare un senso, e una motivazione, a queste metamorfosi e a questi cambiamenti. Metamorfosi che, nell’ultimo Emilia Pérez, compiono uno step ulteriormente radicalizzato, abbracciando, per la prima volta, il corpo più grande e importante di tutti: quello cinematografico. Qui i continui numeri da musical inaugurano il set piece come spazio mentale dove materializzare i pensieri dei protagonisti, sempre repressi all’inverosimile nei precedenti film. Il linguaggio che Audiard adopera nella pellicola manda completamente in tilt il sistema dei generi, auto-sabota la sua stessa poetica con un continuo trasformismo. L’epicentro del cinema del francese si sposta, dunque, dalla liquidità del genere alla liquidità del gender, in un percorso che risulta coerente e, per larghi tratti, inevitabile se rapportato all’oggi.
Jacques Audiard dirige Karla Sofía Gascón e Zoe Saldana sul set di Emilia Pérez (2024)
La capacità di sfuggire alla macchina da presa, di decentrarsi in cerca di possibili punti di fuga dalla diegesi, qui raggiunge la sovrastruttura, in quanto è lo stesso impianto del film a liquefarsi, rendendosi imprevedibile e completamente umorale e suscettibile alle rivoluzioni in atto nelle sue stesse protagoniste. Per la prima volta, dunque, è il racconto che si piega alla fluidità, e non il contrario. Un cambiamento che, in realtà, non fa altro che ribadire quanto il cinema di Audiard sia stato sempre tridimensionale, voglioso di cambiare e di trovare strategie d’escapismo per spingersi oltre i limiti imposti e evitare di restare intrappolato all’interno delle convenzioni, sociali o filmiche che siano.
Un cinema che ci parla di moltitudini di identità contenute all’interno di una singola identità, che si riscopre completamente addetto al trasformismo per cercare di adattarsi alle misure dell'attualità e, soprattutto, per cercare di garantire ai suoi protagonisti, marginali non per scelta, ma per appartenenza, l’unica via d’uscita garantita per riaffermarsi al centro della società: quella del meltin’ pot, della mimetizzazione attraverso una nuova identità - come accade a Karla Sofía Gascón, che da Manitas si riplasma e cerca di ritornare a vivere in serenità come Emilia Pérez, e come accade anche a Mathieu Kassovitz, impostore imbroglione di Un héros très discret (1996) - che li possa riportare definitivamente ad una vita normale.
Un cinema-corpo impossibile da immortalare, in continua mutazione, alla ricerca delle proprie generalità.
Un héros très discret (1996)
La metamorfosi nell'opera
del grande regista francese,
di Antonio Orrico
TR-119
12.01.2025
Emilia Pérez (2024), ultimo prodotto sfornato dal regista francese figlio d’arte Jacques Audiard, e vincitore di prestigiosi riconoscimenti internazionali al Festival di Cannes e ai Golden Globe, racconta molto del suo autore attraverso il fulmineo incipit: vediamo infatti, Rita Moro Castro, un avvocato interpretato dall’attrice Zoe Saldana, che, attraverso un improvvisa trasformazione in ballerina principale di un numero musicale, spiega cantando al pubblico lo spinoso caso con cui è alle prese, introducendo, in spagnolo, alcuni dei temi cardine del film: violenza, amore e morte. Un inizio che enuncia e riassume, in pochi minuti, un’intera carriera registica, sia dal punto di vista stilistico (classica camera a mano nervosa, intervallata da brevi piani sequenza mobili e da primissimi piani su dettagli corporei) sia da quello poetico.
Il cinema Jacques Audiard è un cinema poliedrico, che mette in scena un’idea che abbatte, di volta in volta, confini di diverse tipologie e di diverse istanze semantiche. I personaggi dei film del regista, fin dal suo esordio con Regarde les hommes tomber (1994), sono inevitabilmente degli outsiders (messi ai margini da una società che appare stringente e fortemente esclusiva), non per scelta, quanto per incomprensione da parte di chi li circonda. Anti-eroi che non seguono forzatamente un piano specifico e che, piuttosto, si caratterizzano per le proprie fragilità, le proprie fissazioni e i propri umori dai quali è impossibile scappare e a cui bisogna costantemente fare capolino. Sono veri e propri corpi in perenne movimento, in un continuo cambiamento/trasformazione che esprime il loro malessere, la loro inquietudine sociale e appiana i contrasti di cui sono preda.
Regarde les hommes tomber (1994)
Le alterazioni repentine che subiscono i corpi dei protagonisti del cinema audardiano sono soprattutto perseguite per adattarsi, per cercare di comprendere meglio la realtà che circonda tutti e per capire come vivere in mondi che, più che terreni, assumono le fattezze di veri e propri inferni. Succede anche al Malik (Tahar Rahim) di Un prophète (Il profeta, 2009), crime carcerario in cui le barriere linguistiche, e corporee, si fanno metafora per esprimere la decadenza di una Francia contemporanea ormai cambiata irreversibilmente. Una Francia contraddittoria, le cui braccia sono quelle di immigrati magrebini e arabi, unici deputati a “sporcarsi le mani” per un Paese che, paradossalmente, prova un tale timore nei loro confronti da confinarli e imprigionarli. Prigioni vissute da outsiders che sono vittime, in prima persona, di tragedie per loro impossibili da evitare, di destini ineluttabili creati solamente in nome di una presunta diversità.
La poetica di Audiard è dunque profondamente umana, formata da elementi vivi, come carne, sangue e ossa, corporea in qualsiasi accezione si possa presentare e viscerale nel momento in cui coinvolge, in prima persona, lo spettatore portandolo ad immedersimarsi totalmente in personaggi segnati da un cammino che, pur con tutte le variazioni possibili, appare segnato in modo irreversibile. Proprio per questo il regista francese è ossessionato ed affezionato al noir, in quanto unico genere/tendenza atto a cogliere le evoluzioni della realtà e a contenere, in sé, suggestioni provenienti da tutti gli altri generi.
Un prophète (Il profeta, 2009)
La manifestazione del noir nel cinema di Jacques Audiard è correlata alle sensazioni epidermiche dei protagonisti di film come Sur Mes Levres (Sulle mie labbra, 2001) o De battre mon cœur s'est arrêté (2005). Proprio questi ultimi due sono forse l’espressione più pronunciata e compiuta di quanto l'autore identifichi il corpo come perno centrale del suo cinema. In Sur Mes Levres, Audiard riesce a farci riflettere sul rapporto tra noi stessi e l'ambiente circostante, in relazione a ciò che lasciamo filtrare all'esterno con i mezzi che abbiamo a disposizione. La sordità di cui è preda Emmanuelle Devos, dunque, si trasforma da difetto che la emargina, in un primo momento, a strumento che amplifica la sua percezione dopo l’incontro con Vincent Cassel. Un deficit che, nel corso dell'opera, riesce ad acquisire una caratterizzazione positiva e a diventare un plus in grado di ampliare la visceralità che si crea nel rapporto tra i due protagonisti e, soprattutto, a garantire un turning point (illusorio) nelle loro vite, permettendogli di sognare un lieto fine che è però puntualmente azzerato e annullato dall’incombere del genere.
De battre mon cœur s'est arrêté esprime, invece, con ulteriore forza, cosa per Jacques Audiard rappresenta il corpo umano: un oggetto infilmabile, una scheggia impazzita in continuo movimento. Questo remake di Fingers (1978), splendido noir neo-hollywoodiano di James Toback, viene interamente costruito sulle fattezze di Romain Duris. L’attore restituisce perfettamente il senso di alienazione di una fisicità “elettricamente” caricata all’interno, sincopata nei movimenti e nella struttura, destinata ad una discesa negli inferi dopo aver accarezzato, in parte, la possibilità di evadere dalla fatalità. Un corpo figlio di un ritorno improvviso alle pulsioni, pessimiste e crepuscolari, del cinema di un gigante francese quale Marcel Carné, e che si ritrova alienato ed emarginato a causa degli scarti sociali e culturali. Qui è proprio la differenza culturale tra Duris e chi lo circonda a creare una barriera invisibile impossibile da scavalcare, portando inevitabilmente il protagonista ad abbracciare il male e a non liberarsene mai più - un paradigma che Audiard sottolinea a più riprese lanciandosi in piani sequenza (lunghi, arguti e con tanto di macchina a mano) proprio per garantire un effetto “scheggia” alla materia che ha scelto, di suo pugno, di filmare.
Sur Mes Levres (Sulle mie labbra, 2001)
Entrambi i film, come anche De rouille et d'os (Un sapore di ruggine e ossa, 2012), opera per certi versi molto simile al già citato Sur Mes Levres, stabiliscono una stretta relazione tra corpo narrativo e corpo cinematografico, creando una mimesi tra le due componenti, che risultano inter-dipendenti l’una dall’altra ed entrambe in continuo mutamento. Corpo fisico e corpo-cinema sono dunque due entità a sé stanti che cooperano per far crollare, di proposito, l’equilibrio narrativo delle narrazioni del regista. In una delle sequenze più impressive di De rouille et d’os, assistiamo all'uso metonimico di un’inquadratura su un dettaglio del corpo di Stéphanie (Marion Cotillard), che diventa sia premonitore della sua narrazione e di ciò che le accadrà, sia escamotage per anticipare, tramite un flash-forward, il finale. Questo gioco di inquadrature e montaggio crea una struttura circolare, che Audiard usa per definire ancora una volta i contorni di un destino cieco e ineffabile, un rendez-vous di vite che si ritrova, con ulteriore insistenza, in Les Olympiades (Parigi, 13Arr, 2021) e Emilia Pérez.
Les Olympiades è forse il film più “rohmeriano” dell’intera carriera dell'autore, in cui, per la prima volta, il contesto in cui è ambientata la vicenda diventa protagonista a sé stante e anzi inghiotte radicalmente i personaggi, guidandoli come marionette verso il loro destino. Il groviglio delle architetture del famoso quartiere di Parigi che dona il nome al film diventa esponente dell’irrequietezza sentimentale. L’elemento scenografico è dunque custode delle anime dei quattro protagonisti e ne ricalca l’incertezza. In questo caso, la stessa città diventa un grande corpo contenitore di altri corpi. Corpi cosmopoliti, che si uniscono, facendo di amore ed amicizia due elementi liquidi che mutano forma di volta in volta e di storia in storia. Il corpo è per la prima volta strumento simbolo dell’irrequietezza giovanile, e Audiard riesce a sottolinearlo tramite espedienti di montaggio (tra cui stacchi netti e utilizzi repentini di split-screen che durano pochi secondi) che restituiscono allo spettatore il sentimento di spaesamento che i personaggi provano all’interno di quel grande corpo-città che è la capitale francese.
Les Olympiades (Parigi, 13Arr, 2021)
Un corpo-città che assomiglia ad un monolite, che si contrappone alla verve e al temperamento irrequieto dei suoi abitanti in modo radicale, attraverso le sue costruzioni, imponenti e squallide allo stesso momento. I palazzi sono la dimostrazione palese del sentimento, tutto metropolitano, dell’incomunicabilità tra i protagonisti di Les Olympiades, che secondo il regista francese è la base del malessere della società giovanile odierna, in cui anche qualcosa di così caldo come l'amore intraprende una strada fredda e insipida, meccanica a causa degli schermi e della tecnologia. Una strada che si spezza solo quando il caso (come Rohmer insegna) prende il sopravvento e decide di far incontrare tutti i personaggi della storia come fossero semplicemente parte del ciclo della vita.
Il caso risulta dunque una componente fondamentale per spezzare la monotonia e per dare un senso, e una motivazione, a queste metamorfosi e a questi cambiamenti. Metamorfosi che, nell’ultimo Emilia Pérez, compiono uno step ulteriormente radicalizzato, abbracciando, per la prima volta, il corpo più grande e importante di tutti: quello cinematografico. Qui i continui numeri da musical inaugurano il set piece come spazio mentale dove materializzare i pensieri dei protagonisti, sempre repressi all’inverosimile nei precedenti film. Il linguaggio che Audiard adopera nella pellicola manda completamente in tilt il sistema dei generi, auto-sabota la sua stessa poetica con un continuo trasformismo. L’epicentro del cinema del francese si sposta, dunque, dalla liquidità del genere alla liquidità del gender, in un percorso che risulta coerente e, per larghi tratti, inevitabile se rapportato all’oggi.
Jacques Audiard dirige Karla Sofía Gascón e Zoe Saldana sul set di Emilia Pérez (2024)
La capacità di sfuggire alla macchina da presa, di decentrarsi in cerca di possibili punti di fuga dalla diegesi, qui raggiunge la sovrastruttura, in quanto è lo stesso impianto del film a liquefarsi, rendendosi imprevedibile e completamente umorale e suscettibile alle rivoluzioni in atto nelle sue stesse protagoniste. Per la prima volta, dunque, è il racconto che si piega alla fluidità, e non il contrario. Un cambiamento che, in realtà, non fa altro che ribadire quanto il cinema di Audiard sia stato sempre tridimensionale, voglioso di cambiare e di trovare strategie d’escapismo per spingersi oltre i limiti imposti e evitare di restare intrappolato all’interno delle convenzioni, sociali o filmiche che siano.
Un cinema che ci parla di moltitudini di identità contenute all’interno di una singola identità, che si riscopre completamente addetto al trasformismo per cercare di adattarsi alle misure dell'attualità e, soprattutto, per cercare di garantire ai suoi protagonisti, marginali non per scelta, ma per appartenenza, l’unica via d’uscita garantita per riaffermarsi al centro della società: quella del meltin’ pot, della mimetizzazione attraverso una nuova identità - come accade a Karla Sofía Gascón, che da Manitas si riplasma e cerca di ritornare a vivere in serenità come Emilia Pérez, e come accade anche a Mathieu Kassovitz, impostore imbroglione di Un héros très discret (1996) - che li possa riportare definitivamente ad una vita normale.
Un cinema-corpo impossibile da immortalare, in continua mutazione, alla ricerca delle proprie generalità.
Un héros très discret (1996)