di Maurizio Encari
NC-310
09.06.2025
Essere o non essere, una domanda a cui è facile rispondere se di cognome fai Sono. E non è un caso che il cinema del regista giapponese sia pienamente consapevole di quel che è, ovvero un mix esplosivo e tumultuoso di generi e umori, che fin dagli inizi della sua carriera ci ha accompagnato a vivere e affrontare personaggi spesso scomodi, disadattati o disillusi, alle prese con avventure problematiche, a volte sospese tra sogno e follia e altrove ancorate in una ben più amara e tragica realtà.
Uno stile, quello del regista giapponese, caratterizzato da un'energia primigenia e cinetica ed è quasi paradossale che il suo primo approccio al cinema d'Oltreoceano, arrivato nel 2021, lo abbia visto sprecare un maestro dell'over-acting quale Nicolas Cage. L'accoppiata tra due personalità così fuori dagli schemi sulla carta era infatti incandescente, ma Prisoners of the Ghostland - pur ingiustamente massacrato anche ben oltre i suoi demeriti - ha il sapore di un'occasione perduta. Al contempo rimane anche l'ultima prova di Sono dietro la macchina da presa, in quanto ad oggi il limbo nel quale è caduto in seguito alle accuse di molestie sessuali sembra protrarsi per un tempo ancora indefinito, senza condanne effettive di sorta che ne sanciscano l'effettiva consapevolezza. Se non si può guardare avanti, almeno per adesso, è allora il momento di svolgere uno sguardo indietro, per analizzare i lavori di un cineasta fortemente ancorato alla sua terra natia.
E forse proprio nella sua essenza prettamente nipponica è da rintracciare il parziale fallimento del succitato debutto hollywoodiano, per quanto anche lì non mancassero marcate influenze orientali e autoctone. E se non manca l'eccezione che conferma la regola, ovvero il tormentato Hazard (2005) ambientato a New York, è perché Sion Sono è un tutt'uno con il Sol Levante, con quelle atmosfere e quei giovani problematici spesso raccontati, ma non solo: basti pensare a due opere molto diverse come Himizu (2011) e Land of Hope (2012), girati a stretto giro di distanza l'uno dall'altro e sua personale catarsi sulla recente tragedia vissuta dal Giappone, con lo tsunami che morte e distruzione provocò in maniera inimmaginabile.
Sion Sono
Hazard (2005)
Viene perciò difficile estraniare l'autore dal suo palcoscenico d'appartenenza, dove è libero di dare il meglio di sé anche a dispetto di un successo di pubblico, almeno in patria, non sempre lusinghiero. Accomunabile, pur con le dovute difformità, ad altri suoi due connazionali del calibro di Takashi Miike e Shin'ya Tsukamoto, Sono non ha mai optato per soluzioni facili e acchiappa pubblico e anche alcuni dei suoi lavori più famosi cercano spesso l'effetto shock per accattivare un certo target e respingerne un altro, potenzialmente più numeroso.
Basti pensare alla scena cult di uno dei suoi film più famosi, ovvero quel Suicide Club (2001) dove nei primissimi minuti decine di studentesse, tenendosi per mano, si gettano sotto un treno: musichetta allegra a precedere e sangue (fitto) a fiotti con effetti speciali volutamente caricaturali, mettono in mostra un'anima irriverente - a riformulare i topoi del j-horror, allora tanto di moda non solo su quei lidi - pronta a riflettere sul disagio adolescenziale che, ora come allora, è purtroppo assai diffuso nella società giapponese. Un elemento che emerge maggiormente se accostato alla pellicola "gemella", quel Noriko's Dinner Table (2005) forse meno chiaccherato ma che va a ricollegarsi direttamente al titolo precedente, offrendo uno sguardo più malinconico e struggente, osservando l'argomento da due punti di vista amaramente complementari.
Una violenza fisica e psicologica che si accompagna ad un'anima pulp, giocosa quando non esistenziale come in quello che è probabilmente il suo capolavoro per eccellenza, ovvero il mai troppo citato Love Exposure (2008). Opera fiume della durata di quattro ore (237 minuti per la precisione), con tanto di extended cut per il mercato televisivo ad aggiungere tre quarti d'ora extra, che rivisita tutto l'immaginario del suo cinema nel raccontare lo schizofrenico coming-of-age di Yu Honda, un giovane cresciuto in una famiglia profondamente cattolica in cerca della sua Maria. Si gioca, e non poteva essere altrimenti, tra sacro e profano in un'epopea caleidoscopica e ricca di continue sorprese, una vera e propria esperienza nella quale ritrovare ad ogni nuova visione spunti inediti, con la forza dell'amore prossima a prendere il sopravvento anche nella lenta discesa nella follia del protagonista e dei suoi compagni di viaggio. Epica ed emozioni si mescolano in un meltin'pot prettamente cinefilo ed esuberante, tra feeling d'autore e cinema di genere.
Love Exposure (2008)
Sangue chiama sangue dicevamo, e anche Strange Circus (2005) è opera da riscoprire, con quel color rosso dominante che caratterizza la discesa negli abissi della psiche della malcapitata protagonista, con un erotismo di sottofondo a far fremere di sadico piacere l'occhio dello spettatore. D'altronde Sion Sono ha sempre esposto il corpo femminile, senza nascondere il suo sguardo voyeuristico ma sfruttandolo per cogliere pienamente il fascino disinibito delle sue attrici. Emblematico in tal caso un film che, già dal titolo, mette in tavola le carte, ovvero Antiporno (2016): rivisitazione del genere indigeno dei Roman Porno, gioca con il sesso e le sue derivazioni più estreme e sadomaso attraverso un gioco di sottomissione tra bugie e verità.
Ma dove lo stile di Sion Sono si fa realmente (pre)potente è nella sua commistione di toni e umori, nella sua verve malinconica e nel suo amore per la Settima Arte, senza se e senza ma. Su questa particolare inflessione del suo cinema due film sono fondamentali per capire appieno il suo approccio. Why Don't You Play In Hell? (2013) vede un aspirante regista e la sua troupe girare un film riprendendo una vera e propria guerra, senza esclusione di colpi, tra due clan yakuza: l'emoglobina scorrerà a fiumi, sempre accompagnata da un'ironia catartica e liberatoria. Ma soprattutto in uno dei suoi lavori meno conosciuti, anche tra gli stessi fan del regista: stiamo parlando di Red Post on Escher Street (2020), ad oggi la sua penultima regia. Due ore e mezza che ci accompagnano nelle fasi realizzative di un film, sino a cominciare dai lunghi ed estenuanti provini, con il gran numero di eterogenei candidati che ambiscono a un ruolo più o meno importante. Una dichiarazione d'amore per le comparse, per le maestranze e per chi non visto lavora in quella grande macchina produttiva, con un piano sequenza finale che racchiude tutte le difficoltà di chi vive realmente il set. Con romanticismo e amarezza di sottofondo, il cult è servito.
La durata limitata del media cinematografico, tranne fortunatamente alcune rare eccezioni già citate nell'articolo, ha costretto il cineasta ad affidarsi anche alla forma seriale. Se nel caso di The Forest of Love (2019) - è su Netflix, recuperatelo - sia la versione pensata per il grande schermo che quella per il piccolo sono entrambe godibili a se stanti, con la seconda che espande ulteriormente il già comunque coeso corpo narrativo della più corta, lo stesso non si può dire per il suo omaggio al filone vampiresco.
Red Post on Escher Street (2020)
Tokyo Vampyre Hotel (2017) infatti ha una propria coerenza esclusivamente se visto nella sua durata complessiva in episodi, mentre il "riassunto" realizzato per la presentazione ai vari festival è un ammasso confuso che, dopo la prima ora, soffre di evidentissimi tagli, soprattutto nella rocambolesca parte finale. Ad ogni modo, nella sua totalità, un frullato citazionistico degno di nota, grandguignolesco quanto basta per regalare (in)sane soddisfazioni agli appassionati del filone. E dove ha luogo una contrapposizione netta tra due o più schieramenti come nel ritmico Tokyo Tribe (2014), adattamento dell'omonimo manga che appare come una sorta di trasfigurato aggiornamento delle dinamiche alla base di un grande classico quale The Warriors (I guerrieri della notte, 1979).
E come dimenticare ancora il teen horror esistenziale filosofico splatter e chi più ne ha più ne metta di Tag (2015), altro titolo da riscoprire? O ancora i deliri e gli appetiti sessuali dei giovanissimi protagonisti di The Virgin Psychics (2015)? E che dire della fantascienza intimista e in bianco e nero di The Whispering Star (2015), tra le creazioni più raffinate di Sono?
La speranza che culliamo è che il genio e l’estro di un regista così significativo e peculiare, capace di dare una chiara linea distintiva anche quando alle prese con un filone o un altro che sia, di sfumare il dramma nella tragicommedia e la crudezza nella dolcezza, di dar vita a personaggi umanissimi nelle loro idiosincrasie e nelle loro fasi di rottura, abbia presto la possibilità di tornare a sedersi dietro la macchina da presa per entusiasmarci ancora come allora, senza limiti e senza paura in un contemporaneo dove le maglie del politicamente corretto stanno rischiando di soffocare sempre più la creatività.
di Maurizio Encari
NC-310
09.06.2025
Sion Sono
Essere o non essere, una domanda a cui è facile rispondere se di cognome fai Sono. E non è un caso che il cinema del regista giapponese sia pienamente consapevole di quel che è, ovvero un mix esplosivo e tumultuoso di generi e umori, che fin dagli inizi della sua carriera ci ha accompagnato a vivere e affrontare personaggi spesso scomodi, disadattati o disillusi, alle prese con avventure problematiche, a volte sospese tra sogno e follia e altrove ancorate in una ben più amara e tragica realtà.
Uno stile, quello del regista giapponese, caratterizzato da un'energia primigenia e cinetica ed è quasi paradossale che il suo primo approccio al cinema d'Oltreoceano, arrivato nel 2021, lo abbia visto sprecare un maestro dell'over-acting quale Nicolas Cage. L'accoppiata tra due personalità così fuori dagli schemi sulla carta era infatti incandescente, ma Prisoners of the Ghostland - pur ingiustamente massacrato anche ben oltre i suoi demeriti - ha il sapore di un'occasione perduta. Al contempo rimane anche l'ultima prova di Sono dietro la macchina da presa, in quanto ad oggi il limbo nel quale è caduto in seguito alle accuse di molestie sessuali sembra protrarsi per un tempo ancora indefinito, senza condanne effettive di sorta che ne sanciscano l'effettiva consapevolezza. Se non si può guardare avanti, almeno per adesso, è allora il momento di svolgere uno sguardo indietro, per analizzare i lavori di un cineasta fortemente ancorato alla sua terra natia.
E forse proprio nella sua essenza prettamente nipponica è da rintracciare il parziale fallimento del succitato debutto hollywoodiano, per quanto anche lì non mancassero marcate influenze orientali e autoctone. E se non manca l'eccezione che conferma la regola, ovvero il tormentato Hazard (2005) ambientato a New York, è perché Sion Sono è un tutt'uno con il Sol Levante, con quelle atmosfere e quei giovani problematici spesso raccontati, ma non solo: basti pensare a due opere molto diverse come Himizu (2011) e Land of Hope (2012), girati a stretto giro di distanza l'uno dall'altro e sua personale catarsi sulla recente tragedia vissuta dal Giappone, con lo tsunami che morte e distruzione provocò in maniera inimmaginabile.
Hazard (2005)
Viene perciò difficile estraniare l'autore dal suo palcoscenico d'appartenenza, dove è libero di dare il meglio di sé anche a dispetto di un successo di pubblico, almeno in patria, non sempre lusinghiero. Accomunabile, pur con le dovute difformità, ad altri suoi due connazionali del calibro di Takashi Miike e Shin'ya Tsukamoto, Sono non ha mai optato per soluzioni facili e acchiappa pubblico e anche alcuni dei suoi lavori più famosi cercano spesso l'effetto shock per accattivare un certo target e respingerne un altro, potenzialmente più numeroso.
Basti pensare alla scena cult di uno dei suoi film più famosi, ovvero quel Suicide Club (2001) dove nei primissimi minuti decine di studentesse, tenendosi per mano, si gettano sotto un treno: musichetta allegra a precedere e sangue (fitto) a fiotti con effetti speciali volutamente caricaturali, mettono in mostra un'anima irriverente - a riformulare i topoi del j-horror, allora tanto di moda non solo su quei lidi - pronta a riflettere sul disagio adolescenziale che, ora come allora, è purtroppo assai diffuso nella società giapponese. Un elemento che emerge maggiormente se accostato alla pellicola "gemella", quel Noriko's Dinner Table (2005) forse meno chiaccherato ma che va a ricollegarsi direttamente al titolo precedente, offrendo uno sguardo più malinconico e struggente, osservando l'argomento da due punti di vista amaramente complementari.
Una violenza fisica e psicologica che si accompagna ad un'anima pulp, giocosa quando non esistenziale come in quello che è probabilmente il suo capolavoro per eccellenza, ovvero il mai troppo citato Love Exposure (2008). Opera fiume della durata di quattro ore (237 minuti per la precisione), con tanto di extended cut per il mercato televisivo ad aggiungere tre quarti d'ora extra, che rivisita tutto l'immaginario del suo cinema nel raccontare lo schizofrenico coming-of-age di Yu Honda, un giovane cresciuto in una famiglia profondamente cattolica in cerca della sua Maria. Si gioca, e non poteva essere altrimenti, tra sacro e profano in un'epopea caleidoscopica e ricca di continue sorprese, una vera e propria esperienza nella quale ritrovare ad ogni nuova visione spunti inediti, con la forza dell'amore prossima a prendere il sopravvento anche nella lenta discesa nella follia del protagonista e dei suoi compagni di viaggio. Epica ed emozioni si mescolano in un meltin'pot prettamente cinefilo ed esuberante, tra feeling d'autore e cinema di genere.
Love Exposure (2008)
Sangue chiama sangue dicevamo, e anche Strange Circus (2005) è opera da riscoprire, con quel color rosso dominante che caratterizza la discesa negli abissi della psiche della malcapitata protagonista, con un erotismo di sottofondo a far fremere di sadico piacere l'occhio dello spettatore. D'altronde Sion Sono ha sempre esposto il corpo femminile, senza nascondere il suo sguardo voyeuristico ma sfruttandolo per cogliere pienamente il fascino disinibito delle sue attrici. Emblematico in tal caso un film che, già dal titolo, mette in tavola le carte, ovvero Antiporno (2016): rivisitazione del genere indigeno dei Roman Porno, gioca con il sesso e le sue derivazioni più estreme e sadomaso attraverso un gioco di sottomissione tra bugie e verità.
Ma dove lo stile di Sion Sono si fa realmente (pre)potente è nella sua commistione di toni e umori, nella sua verve malinconica e nel suo amore per la Settima Arte, senza se e senza ma. Su questa particolare inflessione del suo cinema due film sono fondamentali per capire appieno il suo approccio. Why Don't You Play In Hell? (2013) vede un aspirante regista e la sua troupe girare un film riprendendo una vera e propria guerra, senza esclusione di colpi, tra due clan yakuza: l'emoglobina scorrerà a fiumi, sempre accompagnata da un'ironia catartica e liberatoria. Ma soprattutto in uno dei suoi lavori meno conosciuti, anche tra gli stessi fan del regista: stiamo parlando di Red Post on Escher Street (2020), ad oggi la sua penultima regia. Due ore e mezza che ci accompagnano nelle fasi realizzative di un film, sino a cominciare dai lunghi ed estenuanti provini, con il gran numero di eterogenei candidati che ambiscono a un ruolo più o meno importante. Una dichiarazione d'amore per le comparse, per le maestranze e per chi non visto lavora in quella grande macchina produttiva, con un piano sequenza finale che racchiude tutte le difficoltà di chi vive realmente il set. Con romanticismo e amarezza di sottofondo, il cult è servito.
La durata limitata del media cinematografico, tranne fortunatamente alcune rare eccezioni già citate nell'articolo, ha costretto il cineasta ad affidarsi anche alla forma seriale. Se nel caso di The Forest of Love (2019) - è su Netflix, recuperatelo - sia la versione pensata per il grande schermo che quella per il piccolo sono entrambe godibili a se stanti, con la seconda che espande ulteriormente il già comunque coeso corpo narrativo della più corta, lo stesso non si può dire per il suo omaggio al filone vampiresco.
Red Post on Escher Street (2020)
Tokyo Vampyre Hotel (2017) infatti ha una propria coerenza esclusivamente se visto nella sua durata complessiva in episodi, mentre il "riassunto" realizzato per la presentazione ai vari festival è un ammasso confuso che, dopo la prima ora, soffre di evidentissimi tagli, soprattutto nella rocambolesca parte finale. Ad ogni modo, nella sua totalità, un frullato citazionistico degno di nota, grandguignolesco quanto basta per regalare (in)sane soddisfazioni agli appassionati del filone. E dove ha luogo una contrapposizione netta tra due o più schieramenti come nel ritmico Tokyo Tribe (2014), adattamento dell'omonimo manga che appare come una sorta di trasfigurato aggiornamento delle dinamiche alla base di un grande classico quale The Warriors (I guerrieri della notte, 1979).
E come dimenticare ancora il teen horror esistenziale filosofico splatter e chi più ne ha più ne metta di Tag (2015), altro titolo da riscoprire? O ancora i deliri e gli appetiti sessuali dei giovanissimi protagonisti di The Virgin Psychics (2015)? E che dire della fantascienza intimista e in bianco e nero di The Whispering Star (2015), tra le creazioni più raffinate di Sono?
La speranza che culliamo è che il genio e l’estro di un regista così significativo e peculiare, capace di dare una chiara linea distintiva anche quando alle prese con un filone o un altro che sia, di sfumare il dramma nella tragicommedia e la crudezza nella dolcezza, di dar vita a personaggi umanissimi nelle loro idiosincrasie e nelle loro fasi di rottura, abbia presto la possibilità di tornare a sedersi dietro la macchina da presa per entusiasmarci ancora come allora, senza limiti e senza paura in un contemporaneo dove le maglie del politicamente corretto stanno rischiando di soffocare sempre più la creatività.