

Quis custodiet ipsos custodes?
recensione di Francesco Sellitti
RV-115
29.07.2025
Il successo di un’opera prima è sempre una grossa responsabilità: le aspettative del pubblico per i successivi progetti si alzano di pari passo con l’ammirazione rivolta al prodotto d’esordio, rendendo estremamente semplice la caduta al secondo tentativo. L’opera seconda è quella che distingue gli artisti dai fortunati e i fratelli Philippou, con il loro Bring Her Back (2025), hanno dimostrato di essere veri artisti.
Il film segue le vicende dei giovani fratellastri Andy (Billy Barratt) e Piper (Sora Wong), i quali, rimasti completamente orfani dopo la morte del padre, vengono dati in affidamento a Laura (Sally Hawkins), una psicologa che vive assieme a Oliver (Jonah Wren Phillips), un bambino affetto da mutismo selettivo. Laura assume però sin da subito atteggiamenti differenti nei confronti dei ragazzi, mostrandosi passivo-aggressiva verso Andy e parecchio accorta verso Piper, ragazzina ipovedente come la figlia che Laura ha perso precedentemente. Il rapporto tra la donna e i fratelli si farà sempre più disturbante, mentre Oliver darà segni di un’insolita aggressività.
Dopo il successo di Talk to Me (2022), i gemelli Philippou tornano a decostruire i miti della gioventù contemporanea, abbandonando la dimensione social per esplorare la perversione del supporto psicologico. In un contesto sociale in cui il tema della salute mentale è sempre più presente era inevitabile che il cinema horror ne mostrasse i possibili lati oscuri: il personaggio di Laura, proprio in virtù dei suoi studi, parrebbe infatti la tutrice perfetta per dei giovani emotivamente fragili. Tuttavia, la donna fa leva giustappunto sulla sua professione per rassicurare i ragazzi e portarli ad aprirsi, finendo però per sfruttare tale ruolo al fine di estorcere informazioni da utilizzare, in particolare contro Andy, al momento opportuno. Sembra dunque che il film ponga l'attenzione sul potere, e le responsabilità, che hanno figure come gli psicologi nei confronti dei pazienti, ricordandoci come anche loro siano esseri umani e possano "crollare" come tutti. Giovenale scriveva “Quis custodiet ipsos custodes?” (“Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?”), mentre Bring Her Back sembra chiedersi “Chi supporterà chi supporta?”.
Il film si inserisce anche all’interno di un filone horror che nell’ultima decade sta trovando particolare diffusione, ossia gli horror concernenti il tema della disabilità. Ponendosi quasi in continuità con film come Hush (2016) e Run (2020), i cui protagonisti erano rispettivamente una ragazza sorda e una ragazza paraplegica, Bring Her Back presenta una protagonista ipovedente, giocando spesso registicamente con l’effetto sfocato della fotografia per restituire al pubblico una maggiore immedesimazione. La limitazione fisica dei personaggi assume grande efficacia nel genere horror in quanto accresce la pericolosità delle situazioni in cui si trova il protagonista e ne riduce ancor di più le possibilità di sopravvivenza, aumentando la tensione narrativa. La pellicola sfrutta tale dinamica alla perfezione alternando sapientemente i punti di vista di Piper e Andy, vincolando dunque lo spettatore alle limitazioni della prima e dando corpo all’istinto di protezione verso la stessa attraverso il secondo: il pubblico arriva a empatizzare ancora di più per Andy proprio perché è l’unico che possa fare ciò che il pubblico stesso vorrebbe fare, ossia proteggere Piper.
Come nel precedente Talk to Me, il film non ha fretta di entrare nel vortice dell’azione ma si prende tutto il tempo necessario a introdurre in maniera chiara le dinamiche tra i personaggi. In puro stile Philippou (perché già dalla seconda opera possiamo iniziare a delineare alcuni tratti stilistici) a una prima parte in cui la narrazione è pervasa da una “semplice” atmosfera perturbante si contrappone invece una seconda parte in cui un turbolento vortice emotivo trova manifestazione fisica nella martoriazione del corpo. Attraverso improvvise e disturbanti esplosioni di violenza, visivamente molto più esplicite rispetto a Talk to Me, il lungometraggio tematizza la sofferenza patita e causata da una scorretta elaborazione del lutto. Il personaggio di Oliver rappresenta l’estremizzazione della perversione psicologica, l’abbandono di ogni umanità a cui è disposto a cedere chi è disperato: il vorace bambino muto diventa l’altra faccia di Laura, l’incarnazione stessa della sua follia.
Bring Her Back è un’opera sulla fragilità tutta: che sia fisica come per Piper o emotiva come per Laura, tutti i personaggi all’interno del film hanno bisogno di supporto. Ognuno chiede aiuto a suo modo, che sia per sopravvivere a un’aggressione o per porre fine ad una mancanza incolmabile. Laura, infatti, nonostante sia drammaturgicamente l’antagonista e si comporti in maniera anche spregevole, è in fin dei conti a sua volta una vittima, una persona abbandonata a gestire un dolore che non era in grado di elaborare da sola: “Quis custodiet ipsos custodes?”.

Quis custodiet ipsos custodes?
recensione di Francesco Sellitti
RV-115
29.07.2025
Il successo di un’opera prima è sempre una grossa responsabilità: le aspettative del pubblico per i successivi progetti si alzano di pari passo con l’ammirazione rivolta al prodotto d’esordio, rendendo estremamente semplice la caduta al secondo tentativo. L’opera seconda è quella che distingue gli artisti dai fortunati e i fratelli Philippou, con il loro Bring Her Back (2025), hanno dimostrato di essere veri artisti.
Il film segue le vicende dei giovani fratellastri Andy (Billy Barratt) e Piper (Sora Wong), i quali, rimasti completamente orfani dopo la morte del padre, vengono dati in affidamento a Laura (Sally Hawkins), una psicologa che vive assieme a Oliver (Jonah Wren Phillips), un bambino affetto da mutismo selettivo. Laura assume però sin da subito atteggiamenti differenti nei confronti dei ragazzi, mostrandosi passivo-aggressiva verso Andy e parecchio accorta verso Piper, ragazzina ipovedente come la figlia che Laura ha perso precedentemente. Il rapporto tra la donna e i fratelli si farà sempre più disturbante, mentre Oliver darà segni di un’insolita aggressività.
Dopo il successo di Talk to Me (2022), i gemelli Philippou tornano a decostruire i miti della gioventù contemporanea, abbandonando la dimensione social per esplorare la perversione del supporto psicologico. In un contesto sociale in cui il tema della salute mentale è sempre più presente era inevitabile che il cinema horror ne mostrasse i possibili lati oscuri: il personaggio di Laura, proprio in virtù dei suoi studi, parrebbe infatti la tutrice perfetta per dei giovani emotivamente fragili. Tuttavia, la donna fa leva giustappunto sulla sua professione per rassicurare i ragazzi e portarli ad aprirsi, finendo però per sfruttare tale ruolo al fine di estorcere informazioni da utilizzare, in particolare contro Andy, al momento opportuno. Sembra dunque che il film ponga l'attenzione sul potere, e le responsabilità, che hanno figure come gli psicologi nei confronti dei pazienti, ricordandoci come anche loro siano esseri umani e possano "crollare" come tutti. Giovenale scriveva “Quis custodiet ipsos custodes?” (“Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?”), mentre Bring Her Back sembra chiedersi “Chi supporterà chi supporta?”.
Il film si inserisce anche all’interno di un filone horror che nell’ultima decade sta trovando particolare diffusione, ossia gli horror concernenti il tema della disabilità. Ponendosi quasi in continuità con film come Hush (2016) e Run (2020), i cui protagonisti erano rispettivamente una ragazza sorda e una ragazza paraplegica, Bring Her Back presenta una protagonista ipovedente, giocando spesso registicamente con l’effetto sfocato della fotografia per restituire al pubblico una maggiore immedesimazione. La limitazione fisica dei personaggi assume grande efficacia nel genere horror in quanto accresce la pericolosità delle situazioni in cui si trova il protagonista e ne riduce ancor di più le possibilità di sopravvivenza, aumentando la tensione narrativa. La pellicola sfrutta tale dinamica alla perfezione alternando sapientemente i punti di vista di Piper e Andy, vincolando dunque lo spettatore alle limitazioni della prima e dando corpo all’istinto di protezione verso la stessa attraverso il secondo: il pubblico arriva a empatizzare ancora di più per Andy proprio perché è l’unico che possa fare ciò che il pubblico stesso vorrebbe fare, ossia proteggere Piper.
Come nel precedente Talk to Me, il film non ha fretta di entrare nel vortice dell’azione ma si prende tutto il tempo necessario a introdurre in maniera chiara le dinamiche tra i personaggi. In puro stile Philippou (perché già dalla seconda opera possiamo iniziare a delineare alcuni tratti stilistici) a una prima parte in cui la narrazione è pervasa da una “semplice” atmosfera perturbante si contrappone invece una seconda parte in cui un turbolento vortice emotivo trova manifestazione fisica nella martoriazione del corpo. Attraverso improvvise e disturbanti esplosioni di violenza, visivamente molto più esplicite rispetto a Talk to Me, il lungometraggio tematizza la sofferenza patita e causata da una scorretta elaborazione del lutto. Il personaggio di Oliver rappresenta l’estremizzazione della perversione psicologica, l’abbandono di ogni umanità a cui è disposto a cedere chi è disperato: il vorace bambino muto diventa l’altra faccia di Laura, l’incarnazione stessa della sua follia.
Bring Her Back è un’opera sulla fragilità tutta: che sia fisica come per Piper o emotiva come per Laura, tutti i personaggi all’interno del film hanno bisogno di supporto. Ognuno chiede aiuto a suo modo, che sia per sopravvivere a un’aggressione o per porre fine ad una mancanza incolmabile. Laura, infatti, nonostante sia drammaturgicamente l’antagonista e si comporti in maniera anche spregevole, è in fin dei conti a sua volta una vittima, una persona abbandonata a gestire un dolore che non era in grado di elaborare da sola: “Quis custodiet ipsos custodes?”.