Spiagge e primavere maledette,
recensione di Andrea Tiradritti
RV-49
17.01.2024
Se vi cadesse un albero nel soggiorno rimpiangereste il tetto sventrato o ringraziereste il cielo per essere sopravvissuti? Enea, secondo lungometraggio scritto e diretto da Pietro Castellitto, è sia lo scampato in salotto che la casa distrutta. Un’opera disperata che della sua disperazione prova a ridere fino a strozzarsi. L’opposto di un manifesto generazionale, di cui non ha affatto il respiro o lo spessore simbolico. Una confessione allucinata piuttosto, il cinico tentativo di trovare un senso al vuoto, decifrare l’intimo lessico famigliare che origina il suo autore, scaldando le stanze ormai scoperte ed esposte alla bufera.
Il padre di Enea è uno psichiatra che prenota lussuose camere d’albergo solo per devastarle e urlare così la sua infelicità. La madre presenta una trasmissione televisiva dove consiglia libri che detesta. Il fratello adolescente, Brenno, ha problemi relazionali con i suoi compagni di classe e parla solo il linguaggio dell’aggressività. Enea trascorre le sue giornate tra circoli esclusivi, locali di grido e gli occhi di Eva, dolci e crudeli come Roma. Spaccia cocaina insieme all’amico Valentino, un ragazzo bruciato che ha imparato a volare per fuggire dalla madre malata e dalle responsabilità della vita adulta. I due finiranno in una pericolosa resa di conti tra clan, arrivando addirittura a progettare l’omicidio di un celebre giornalista per salvarsi la pelle.
Nonostante a ogni inquadratura si percepiscano l’elevato budget, per gli standard italiani, col quale è stato realizzato, e il costante desiderio di stupire, a volte suggestivo a volte forzato, il corpo nudo di Enea, spogliato delle sue esplosioni, delle sue feste sfarzose e dei suoi colpi di scena, assomiglia da vicino a quello dell’esordio di Castellitto, I predatori. A legare i due film è un sentimento, la nostalgia, e la critica della famiglia borghese come luogo di rancori e ipocrisie, nucleo egoista di una società rotta come piatti di coccio. Se nell’opera precedente la nostalgia era rappresentata dalla tomba di Nietzsche e dai fan del duce, qui è celebrata attraverso le canzoni di Renato Zero e Loretta Goggi, spiagge e maledette primavere, tirate di coca e sesso coi salmoni. A essere rimpianto non è più il passato ma il futuro. I giovani in Enea sono già stanchi, morti dentro, e la sfrenata vitalità del film non è che una posa, un falò delle vanità che si finge incendio e finisce cenere.
Quel che si conferma singolarmente interessante del fenomeno Castellitto, oltre a un talento istintivo, adrenalinico, per la scrittura di immagini spiazzanti e personaggi grotteschi, è soprattutto il modo con cui fa del cinema un mezzo di autoanalisi, uno specchio dell’odio e dell’amore per il privilegio di appartenere a una famiglia agiata e ben inserita nell’industria in cui lavora, simbolo di tutto ciò che sembra contestare. Scegliere il padre Sergio come suo genitore nel film, nonché il suo vero fratello per il personaggio di Brenno, o la compagna Benedetta Porcaroli come sposa, sono tentativi chissà quanto sinceri di unire il cinema alla vita, attraverso la libertà del primo esprimere le crisi della seconda, i conflitti che separano il figlio dal regista, esorcizzando la consapevolezza di essere proprio quel che più si sta criticando.
Ciò che si perde, in questo ripiegamento malinconico e autoreferenziale così in linea coi tempi, è l’aspetto etico e politico che ne I predatori rimaneva centrale nel distinguere gli sconfitti dai vincitori, i ricchi dai morti di fame. Enea tuttavia dice due o tre cose importanti nel rumore di fondo della sua estetica rimbombante. Le dice sottovoce, attraverso i dialoghi, il suo aspetto migliore, tramite la scelta di attori sorprendenti e un romanticismo sbruffone che ancora una volta guarda al passato, alla tradizione della commedia italiana, alle sue maschere e ai suoi vizi. Queste due o tre cose importanti riguardano tutte la sola immagine che il bulimico sguardo di Castellitto ha il pudore di oscurare fino all’ultima scena; un bacio che dia senso all’esistenza, che faccia invecchiare sani, che eviti alle persone di buttarsi dalla finestra perché sopraffatte dal nulla. Lo stesso nulla a cui questo film in parte si ribella e di cui in parte non può che essere vittima.
Spiagge e primavere maledette,
recensione di Andrea Tiradritti
RV-49
17.01.2024
Se vi cadesse un albero nel soggiorno rimpiangereste il tetto sventrato o ringraziereste il cielo per essere sopravvissuti? Enea, secondo lungometraggio scritto e diretto da Pietro Castellitto, è sia lo scampato in salotto che la casa distrutta. Un’opera disperata che della sua disperazione prova a ridere fino a strozzarsi. L’opposto di un manifesto generazionale, di cui non ha affatto il respiro o lo spessore simbolico. Una confessione allucinata piuttosto, il cinico tentativo di trovare un senso al vuoto, decifrare l’intimo lessico famigliare che origina il suo autore, scaldando le stanze ormai scoperte ed esposte alla bufera.
Il padre di Enea è uno psichiatra che prenota lussuose camere d’albergo solo per devastarle e urlare così la sua infelicità. La madre presenta una trasmissione televisiva dove consiglia libri che detesta. Il fratello adolescente, Brenno, ha problemi relazionali con i suoi compagni di classe e parla solo il linguaggio dell’aggressività. Enea trascorre le sue giornate tra circoli esclusivi, locali di grido e gli occhi di Eva, dolci e crudeli come Roma. Spaccia cocaina insieme all’amico Valentino, un ragazzo bruciato che ha imparato a volare per fuggire dalla madre malata e dalle responsabilità della vita adulta. I due finiranno in una pericolosa resa di conti tra clan, arrivando addirittura a progettare l’omicidio di un celebre giornalista per salvarsi la pelle.
Nonostante a ogni inquadratura si percepiscano l’elevato budget, per gli standard italiani, col quale è stato realizzato, e il costante desiderio di stupire, a volte suggestivo a volte forzato, il corpo nudo di Enea, spogliato delle sue esplosioni, delle sue feste sfarzose e dei suoi colpi di scena, assomiglia da vicino a quello dell’esordio di Castellitto, I predatori. A legare i due film è un sentimento, la nostalgia, e la critica della famiglia borghese come luogo di rancori e ipocrisie, nucleo egoista di una società rotta come piatti di coccio. Se nell’opera precedente la nostalgia era rappresentata dalla tomba di Nietzsche e dai fan del duce, qui è celebrata attraverso le canzoni di Renato Zero e Loretta Goggi, spiagge e maledette primavere, tirate di coca e sesso coi salmoni. A essere rimpianto non è più il passato ma il futuro. I giovani in Enea sono già stanchi, morti dentro, e la sfrenata vitalità del film non è che una posa, un falò delle vanità che si finge incendio e finisce cenere.
Quel che si conferma singolarmente interessante del fenomeno Castellitto, oltre a un talento istintivo, adrenalinico, per la scrittura di immagini spiazzanti e personaggi grotteschi, è soprattutto il modo con cui fa del cinema un mezzo di autoanalisi, uno specchio dell’odio e dell’amore per il privilegio di appartenere a una famiglia agiata e ben inserita nell’industria in cui lavora, simbolo di tutto ciò che sembra contestare. Scegliere il padre Sergio come suo genitore nel film, nonché il suo vero fratello per il personaggio di Brenno, o la compagna Benedetta Porcaroli come sposa, sono tentativi chissà quanto sinceri di unire il cinema alla vita, attraverso la libertà del primo esprimere le crisi della seconda, i conflitti che separano il figlio dal regista, esorcizzando la consapevolezza di essere proprio quel che più si sta criticando.
Ciò che si perde, in questo ripiegamento malinconico e autoreferenziale così in linea coi tempi, è l’aspetto etico e politico che ne I predatori rimaneva centrale nel distinguere gli sconfitti dai vincitori, i ricchi dai morti di fame. Enea tuttavia dice due o tre cose importanti nel rumore di fondo della sua estetica rimbombante. Le dice sottovoce, attraverso i dialoghi, il suo aspetto migliore, tramite la scelta di attori sorprendenti e un romanticismo sbruffone che ancora una volta guarda al passato, alla tradizione della commedia italiana, alle sue maschere e ai suoi vizi. Queste due o tre cose importanti riguardano tutte la sola immagine che il bulimico sguardo di Castellitto ha il pudore di oscurare fino all’ultima scena; un bacio che dia senso all’esistenza, che faccia invecchiare sani, che eviti alle persone di buttarsi dalla finestra perché sopraffatte dal nulla. Lo stesso nulla a cui questo film in parte si ribella e di cui in parte non può che essere vittima.