Scomporre la memoria,
recensione di Antonio Orrico
RV-85
15.01.2025
In sottofondo una canzone dei Phosphorescent che riporta alla mente le atmosfere nostalgiche della miglior tradizione country, da Bob Dylan a John Denver, il cui testo porta con sé una premonizione di ciò di cui lo spettatore prenderà coscienza negli attimi seguenti. Nel mentre, Malcolm MacLeod (Michael Imperioli) e la sua troupe sistemano l’attrezzatura per preparare un’intervista a Leonard Fife (Richard Gere/Jacob Elordi), documentarista (s)fuggito in Canada dalla leva militare nel corso della Guerra del Vietnam. L’incipit di Oh, Canada (2024), nuovo capitolo della filmografia del grandissimo Paul Schrader, è già di per sé una dichiarazione d’intenti, un segnale che instrada il film verso binari che il pubblico può facilmente prevedere, ma per cui non può fare a meno di emozionarsi.
Nell’affrontare l’ultima intervista della sua vita, Fife, malato terminale di cancro, si accinge a sconfessare, di fatto, il suo stesso mito. Schrader decide, con Oh, Canada, di auto-sabotarsi, di accettare le discrepanze dei suoi racconti e di materializzare, per la prima volta, tutte le sue credenze e le sue culture per dare conto dei propri errori, per mettersi in pace con il passato ricordandolo e ponendo sullo stesso piano d’importanza anche i lati maggiormente negativi, e meno limpidi, della propria esistenza. Un memento mori impresso sullo schermo attraverso scelte tecniche inusuali, fatte di allusioni nei confronti di un trascorso nebuloso che condiziona la realtà vissuta dal personaggio interpretato da Gere e, sopratutto, la sua stessa ricezione.
“Il tuo fantasma riempie la mia vista”, dirà ad un certo punto Leonard Fife in un delirio che porta con sé quel senso di colpa e di espiazione tanto caro, tematicamente, al regista americano. Un fantasma che trova la propria rivalsa sulla componente mnemonica, che porta il protagonista ad avere delle crisi d’identità all’interno di un percorso basato, soprattutto, sul recupero di una propria coscienza, in cui gli affetti rappresentano i punti fermi da cui ripartire. Un cammino che implica una sofferenza mai provata prima, che acquista, per la prima volta, significato nella vita di Leonard e che porta lo spettatore a riconsiderare l’importanza del ricordo e, soprattutto, di tutti i suoi pericoli.
Nel percorso di auto-analisi all’interno dell’intervista di Malcolm MacLeod, Schrader utilizza lo strumento del montaggio per dare corpo ad una mente imprevedibile, le cui traiettorie sono ormai confuse in modo indelebile e che, naturalmente, porta in dote il tradimento di sé stessa. Una confessione bergmaniana alterata soprattutto da continue transizioni (i giochi di cambio formato/colore sono realizzati con una finezza che solo i grandi maestri posseggono) che danno forma alle discrepanze della memoria e ne materializzano il corpo caotico, le proprietà ormai deformate e compromesse.
L’immagine, dunque, diventa in Oh, Canada terreno fertile per un dibattito tra realtà e finzione, strumento che conduce l’essere umano ad un corto circuito interiore ingabbiandolo in un passato a cui deve obbligatoriamente far fronte. La fede in essa, per la prima volta nella filmografia di Paul Schrader, non è più supportata dalla verità, ma è piuttosto alimentata da un sentimento d’illusione. Il dispositivo cinematografico è, secondo il regista, una truffa, un mezzo che inganna e che, piuttosto che risolvere, porta nuovi dubbi nell’esistenza di ciascuno di noi. Dubbi perlopiù inconciliabili, che cozzano soprattutto con lo spirito del cineasta, determinato ad andare sempre oltre lo strato primordiale di ciò che viene proiettato. Una spinta che, negli ultimi anni, ha portato Schrader a gettare il cuore oltre l’ostacolo, talmente oltre da spingere, con First Reformed (2017), l’uomo contro Dio - non per principio di pura sfida, quanto perlopiù per cercare delle risposte impossibili da trovare - e porre l’essere umano in lotta contro sé stesso, sospeso tra manie di eroismo e voglie di espiare le proprie colpe - come succede al William Tell di The Card Counter (Il collezionista di carte, 2021).
Proprio per questo motivo, nella memoria di Richard Gere/Jacob Elordi si addensano spettri, immagini create ad hoc per sembrare verosimili, ma in realtà falsificate. Quello che si crea è un monito per il protagonista e, allo stesso tempo, un avvertimento per chi gli sta intorno. Un presagio di come i sensi di colpa e le verità nascoste possano far collassare la realtà circostante fino a mettere in comunicazione tra di loro tempi e spazi diversi, apparentemente inconciliabili ma in realtà co-esistenti.
Diventa dunque difficile, anche per via del deperimento psico-fisico che colpisce Leonard Fife, stabilire anche le banalità, è così che diventa indispensabile riplasmare la propria storia per far risorgere i miti e le leggende. Il personaggio interpretato da Gere cerca così di riformulare anche la propria identità per consegnarne una diversa, lontana dall’effettivo sé e molto più incline ad un’immagine costruita, ad un’apparenza che serva soprattutto a mascherarne l’imbarazzante verità.
Paul Schrader, in Oh, Canada, assegna quindi (in un primo momento) al suo protagonista un ruolo da illusionista, creando uno spartito “magrittiano” che Richard Gere segue in modo pedissequo, in quanto fiero “traditore delle immagini”. Subito dopo, però, ne smaschera l’attitudine da impostore e lo condanna alla figura impietosa di un uomo che, oltre a temere in modo spropositato la morte, teme più di ogni cosa lo scolorirsi della propria (fasulla) identità. Un essere umano che, proprio per questo, merita amore, comprensione e il diritto di morire materializzando il suo vero desiderio: quello di essere libero.
Scomporre la memoria,
recensione di Antonio Orrico
RV-85
15.01.2025
In sottofondo una canzone dei Phosphorescent che riporta alla mente le atmosfere nostalgiche della miglior tradizione country, da Bob Dylan a John Denver, il cui testo porta con sé una premonizione di ciò di cui lo spettatore prenderà coscienza negli attimi seguenti. Nel mentre, Malcolm MacLeod (Michael Imperioli) e la sua troupe sistemano l’attrezzatura per preparare un’intervista a Leonard Fife (Richard Gere/Jacob Elordi), documentarista (s)fuggito in Canada dalla leva militare nel corso della Guerra del Vietnam. L’incipit di Oh, Canada (2024), nuovo capitolo della filmografia del grandissimo Paul Schrader, è già di per sé una dichiarazione d’intenti, un segnale che instrada il film verso binari che il pubblico può facilmente prevedere, ma per cui non può fare a meno di emozionarsi.
Nell’affrontare l’ultima intervista della sua vita, Fife, malato terminale di cancro, si accinge a sconfessare, di fatto, il suo stesso mito. Schrader decide, con Oh, Canada, di auto-sabotarsi, di accettare le discrepanze dei suoi racconti e di materializzare, per la prima volta, tutte le sue credenze e le sue culture per dare conto dei propri errori, per mettersi in pace con il passato ricordandolo e ponendo sullo stesso piano d’importanza anche i lati maggiormente negativi, e meno limpidi, della propria esistenza. Un memento mori impresso sullo schermo attraverso scelte tecniche inusuali, fatte di allusioni nei confronti di un trascorso nebuloso che condiziona la realtà vissuta dal personaggio interpretato da Gere e, sopratutto, la sua stessa ricezione.
“Il tuo fantasma riempie la mia vista”, dirà ad un certo punto Leonard Fife in un delirio che porta con sé quel senso di colpa e di espiazione tanto caro, tematicamente, al regista americano. Un fantasma che trova la propria rivalsa sulla componente mnemonica, che porta il protagonista ad avere delle crisi d’identità all’interno di un percorso basato, soprattutto, sul recupero di una propria coscienza, in cui gli affetti rappresentano i punti fermi da cui ripartire. Un cammino che implica una sofferenza mai provata prima, che acquista, per la prima volta, significato nella vita di Leonard e che porta lo spettatore a riconsiderare l’importanza del ricordo e, soprattutto, di tutti i suoi pericoli.
Nel percorso di auto-analisi all’interno dell’intervista di Malcolm MacLeod, Schrader utilizza lo strumento del montaggio per dare corpo ad una mente imprevedibile, le cui traiettorie sono ormai confuse in modo indelebile e che, naturalmente, porta in dote il tradimento di sé stessa. Una confessione bergmaniana alterata soprattutto da continue transizioni (i giochi di cambio formato/colore sono realizzati con una finezza che solo i grandi maestri posseggono) che danno forma alle discrepanze della memoria e ne materializzano il corpo caotico, le proprietà ormai deformate e compromesse.
L’immagine, dunque, diventa in Oh, Canada terreno fertile per un dibattito tra realtà e finzione, strumento che conduce l’essere umano ad un corto circuito interiore ingabbiandolo in un passato a cui deve obbligatoriamente far fronte. La fede in essa, per la prima volta nella filmografia di Paul Schrader, non è più supportata dalla verità, ma è piuttosto alimentata da un sentimento d’illusione. Il dispositivo cinematografico è, secondo il regista, una truffa, un mezzo che inganna e che, piuttosto che risolvere, porta nuovi dubbi nell’esistenza di ciascuno di noi. Dubbi perlopiù inconciliabili, che cozzano soprattutto con lo spirito del cineasta, determinato ad andare sempre oltre lo strato primordiale di ciò che viene proiettato. Una spinta che, negli ultimi anni, ha portato Schrader a gettare il cuore oltre l’ostacolo, talmente oltre da spingere, con First Reformed (2017), l’uomo contro Dio - non per principio di pura sfida, quanto perlopiù per cercare delle risposte impossibili da trovare - e porre l’essere umano in lotta contro sé stesso, sospeso tra manie di eroismo e voglie di espiare le proprie colpe - come succede al William Tell di The Card Counter (Il collezionista di carte, 2021).
Proprio per questo motivo, nella memoria di Richard Gere/Jacob Elordi si addensano spettri, immagini create ad hoc per sembrare verosimili, ma in realtà falsificate. Quello che si crea è un monito per il protagonista e, allo stesso tempo, un avvertimento per chi gli sta intorno. Un presagio di come i sensi di colpa e le verità nascoste possano far collassare la realtà circostante fino a mettere in comunicazione tra di loro tempi e spazi diversi, apparentemente inconciliabili ma in realtà co-esistenti.
Diventa dunque difficile, anche per via del deperimento psico-fisico che colpisce Leonard Fife, stabilire anche le banalità, è così che diventa indispensabile riplasmare la propria storia per far risorgere i miti e le leggende. Il personaggio interpretato da Gere cerca così di riformulare anche la propria identità per consegnarne una diversa, lontana dall’effettivo sé e molto più incline ad un’immagine costruita, ad un’apparenza che serva soprattutto a mascherarne l’imbarazzante verità.
Paul Schrader, in Oh, Canada, assegna quindi (in un primo momento) al suo protagonista un ruolo da illusionista, creando uno spartito “magrittiano” che Richard Gere segue in modo pedissequo, in quanto fiero “traditore delle immagini”. Subito dopo, però, ne smaschera l’attitudine da impostore e lo condanna alla figura impietosa di un uomo che, oltre a temere in modo spropositato la morte, teme più di ogni cosa lo scolorirsi della propria (fasulla) identità. Un essere umano che, proprio per questo, merita amore, comprensione e il diritto di morire materializzando il suo vero desiderio: quello di essere libero.