

L'amore oltre la violenza
recensione di Maurizio Encari
RV-112
11.07.2025
La nazionalità della regista e, di rimando, della protagonista potrebbero far pensare al lungometraggio di Nora Niasari come ad una scelta di campo, quanto mai dovuta in un Paese come l'Iran dove le donne sono sottoposte ogni giorno a vessazioni e pregiudizi. Ma allo stesso tempo Shayda è un'opera che assume una connotazione universale, in quanto la violenza di genere non ha etnia o cultura d'appartenenza, come dimostrano ogni giorno gli stessi telegiornali.
La vicenda di Shayda è ambientata in Australia, tanto che la pellicola, oltre a vantare il nome di Cate Blanchett come produttrice, è stata selezionata dalla "terra dei canguri" per concorrere all'edizione 2024 degli Oscar, senza però arrivare nella shortlist dei 15 migliori film stranieri. Un peccato, giacché pur con qualche parziale cedimento, ci troviamo davanti ad un racconto intenso e potente, purtroppo assai verosimile nel raccontare l'inferno vissuto da una madre in fuga da un compagno violento. Una verosimiglianza facilmente spiegabile, giacché alla base vi è la personale esperienza vissuta dalla stessa regista Noora Niasari, che in questo suo esordio nel lungometraggio ha riversato la sé stessa bambina nel personaggio di Mona, il cui sguardo innocente è testimone delle minacce di un padre-padrone.
Ma andiamo con ordine, e scopriamo il background e i passaggi chiave di una sceneggiatura che si rifà, per l'appunto, al vissuto intimo della cineasta e della di lei madre. Conosciamo Shayda e sua figlia Mona mentre si trasferiscono in un rifugio per donne. Lei sta divorziando dal marito e tramite i racconti alla direttrice del centro Joyce veniamo a conoscenza delle violenze fisiche e pisicologiche subite da parte di Hossein. La famiglia ormai spezzata vive in Australia da tempo, in una comunità di loro connazionali, e ora l'uomo ha ottenuto dal giudice la possibilità di rivedere la piccola una volta a settimana.
Nel frattempo Shayda, oltre ai malumori e alla voci malevole messe in giro sul suo conto, non soltanto nella loro patria lontana ma anche dalle frange più tradizionaliste di chi vive lì, deve affrontare il riavvicinamento di Hossein che si fa sempre più invadente e pericoloso. La nascente e tenera amicizia con il cugino di una sua amica rischia di complicare ulteriormente le cose.
Ricordiamo Zar Amir Ebrahimi nel folgorante Holy Spider (2022), per il quale vinse il premio per la Miglior attrice durante la 75ª edizione del Festival di Cannes, che qui dimostra di essere una vera e propria forza della natura: madre stoica e forte per Mona, colma di rabbia e di speranza, timorosa di un mondo che ancora nasconde per lei troppe insidie. Ma non è da meno la giovanissima Selina Zahednia, attrice bambina che riempe Mona di umanità e tenerezza, con quegli occhi ludici che celano gioia e tristezza in egual misura. Il rapporto tra le due caratterizza un impatto emozionale spesso prorompente, capace di sorreggere anche i potenziali tempi morti in una narrazione che non corre, ma carbura con le giuste misure nelle sue due ore, scarse, di visione.
Questo anche per via di un equilibrio ponderato, tra momenti segnati da una profonda dolcezza e altri ad alta dose di tensione. Un bilanciamento che riesce ad avvolgere lo spettatore in un limbo imprevedibile ma quieto al contempo, tra balli scatenati in discoteca e discorsi intimi in libreria, fino agli istanti più brutali che, ad ogni modo, non scadono mai in soluzioni gratuite o scioccanti, giacché la stessa premessa è già scioccante di suo senza bisogno di ulteriori sottolineature.
Come detto qualche taglio qua e là avrebbe forse giovato a una sceneggiatura sicuramente densa e ricolma, ma che a tratti, forse, si perde parzialmente insistendo su certi concetti già ben compresi. Allo stesso modo la gestione delle figure secondarie, con le altre donne che convivono e condividono simili situazioni in quel rifugio (che rappresenta una sorta di prigione sicura), poteva forse essere curata in maniera più organica e incisiva.
Chi conosce e apprezza il cinema iraniano - al di fuori della pluripremiata filmografia di Jafar Panahi - ritroverà nell'opera interessanti influenze e tradizioni, come quella festa per il Nowruz - ricorrenza per celebrare il nuovo anno che si festeggia durante l'equinozio di primavera - che diventa palcoscenico di una (forse definitiva) resa dei conti, prima di quell'epilogo amaro ma al contempo carico di nuove aspettative per un domani finalmente libero.
È proprio negli istanti di maggior delicatezza che Shayda trova una forza primigenia intensa, tra piccoli cenni, sorrisi sinceri e sguardi rubati, il film racconta sì di solidarietà femminile e di violenza patriarcale, ma prima ancora di quell'amore profondo e senza confini che lega una madre e una figlia, straniere in terra straniera in fuga da un orco fin troppo ben conosciuto.

L'amore oltre la violenza
recensione di Maurizio Encari
RV-112
11.07.2025
La nazionalità della regista e, di rimando, della protagonista potrebbero far pensare al lungometraggio di Nora Niasari come ad una scelta di campo, quanto mai dovuta in un Paese come l'Iran dove le donne sono sottoposte ogni giorno a vessazioni e pregiudizi. Ma allo stesso tempo Shayda è un'opera che assume una connotazione universale, in quanto la violenza di genere non ha etnia o cultura d'appartenenza, come dimostrano ogni giorno gli stessi telegiornali.
La vicenda di Shayda è ambientata in Australia, tanto che la pellicola, oltre a vantare il nome di Cate Blanchett come produttrice, è stata selezionata dalla "terra dei canguri" per concorrere all'edizione 2024 degli Oscar, senza però arrivare nella shortlist dei 15 migliori film stranieri. Un peccato, giacché pur con qualche parziale cedimento, ci troviamo davanti ad un racconto intenso e potente, purtroppo assai verosimile nel raccontare l'inferno vissuto da una madre in fuga da un compagno violento. Una verosimiglianza facilmente spiegabile, giacché alla base vi è la personale esperienza vissuta dalla stessa regista Noora Niasari, che in questo suo esordio nel lungometraggio ha riversato la sé stessa bambina nel personaggio di Mona, il cui sguardo innocente è testimone delle minacce di un padre-padrone.
Ma andiamo con ordine, e scopriamo il background e i passaggi chiave di una sceneggiatura che si rifà, per l'appunto, al vissuto intimo della cineasta e della di lei madre. Conosciamo Shayda e sua figlia Mona mentre si trasferiscono in un rifugio per donne. Lei sta divorziando dal marito e tramite i racconti alla direttrice del centro Joyce veniamo a conoscenza delle violenze fisiche e pisicologiche subite da parte di Hossein. La famiglia ormai spezzata vive in Australia da tempo, in una comunità di loro connazionali, e ora l'uomo ha ottenuto dal giudice la possibilità di rivedere la piccola una volta a settimana.
Nel frattempo Shayda, oltre ai malumori e alla voci malevole messe in giro sul suo conto, non soltanto nella loro patria lontana ma anche dalle frange più tradizionaliste di chi vive lì, deve affrontare il riavvicinamento di Hossein che si fa sempre più invadente e pericoloso. La nascente e tenera amicizia con il cugino di una sua amica rischia di complicare ulteriormente le cose.
Ricordiamo Zar Amir Ebrahimi nel folgorante Holy Spider (2022), per il quale vinse il premio per la Miglior attrice durante la 75ª edizione del Festival di Cannes, che qui dimostra di essere una vera e propria forza della natura: madre stoica e forte per Mona, colma di rabbia e di speranza, timorosa di un mondo che ancora nasconde per lei troppe insidie. Ma non è da meno la giovanissima Selina Zahednia, attrice bambina che riempe Mona di umanità e tenerezza, con quegli occhi ludici che celano gioia e tristezza in egual misura. Il rapporto tra le due caratterizza un impatto emozionale spesso prorompente, capace di sorreggere anche i potenziali tempi morti in una narrazione che non corre, ma carbura con le giuste misure nelle sue due ore, scarse, di visione.
Questo anche per via di un equilibrio ponderato, tra momenti segnati da una profonda dolcezza e altri ad alta dose di tensione. Un bilanciamento che riesce ad avvolgere lo spettatore in un limbo imprevedibile ma quieto al contempo, tra balli scatenati in discoteca e discorsi intimi in libreria, fino agli istanti più brutali che, ad ogni modo, non scadono mai in soluzioni gratuite o scioccanti, giacché la stessa premessa è già scioccante di suo senza bisogno di ulteriori sottolineature.
Come detto qualche taglio qua e là avrebbe forse giovato a una sceneggiatura sicuramente densa e ricolma, ma che a tratti, forse, si perde parzialmente insistendo su certi concetti già ben compresi. Allo stesso modo la gestione delle figure secondarie, con le altre donne che convivono e condividono simili situazioni in quel rifugio (che rappresenta una sorta di prigione sicura), poteva forse essere curata in maniera più organica e incisiva.
Chi conosce e apprezza il cinema iraniano - al di fuori della pluripremiata filmografia di Jafar Panahi - ritroverà nell'opera interessanti influenze e tradizioni, come quella festa per il Nowruz - ricorrenza per celebrare il nuovo anno che si festeggia durante l'equinozio di primavera - che diventa palcoscenico di una (forse definitiva) resa dei conti, prima di quell'epilogo amaro ma al contempo carico di nuove aspettative per un domani finalmente libero.
È proprio negli istanti di maggior delicatezza che Shayda trova una forza primigenia intensa, tra piccoli cenni, sorrisi sinceri e sguardi rubati, il film racconta sì di solidarietà femminile e di violenza patriarcale, ma prima ancora di quell'amore profondo e senza confini che lega una madre e una figlia, straniere in terra straniera in fuga da un orco fin troppo ben conosciuto.