
INT-101
19.07.2025
A Cannes, lo scorso maggio, è tornata una delle voci più originali e intriganti del cinema portoghese contemporaneo. Dopo l’ottimo riscontro ottenuto con A Fábrica de Nada (2017), presentato alla Quinzaine des cinéastes e premiato con il FIPRESCI, Pedro Pinho ha portato sulla Croisette O Riso e a Faca, un film che, tra gli echi del reportage, tensioni postcoloniali e aperture intimiste, conferma l’urgenza politica e la ricerca formale del suo autore.
Il lungometraggio segue il personaggio di Sérgio (Sérgio Coragem), ingegnere ambientale incaricato di sovrintendere la costruzione di una strada in una remota area della Guinea-Bissau. Il compito, apparentemente tecnico, si rivela un viaggio destabilizzante tra resistenze locali, fratture culturali e disorientamenti personali. A fare da contrappunto alla sua solitudine ci sono Diára (una magnetica Cleo Diára, premiata come Miglior Attrice nella sezione Un Certain Regard) e Gui (un altrettanto sensazionale Jonathan Guilherme), due presenze che provocano delle aperture nell’isolamento emotivo del protagonista e lo aiutano a decifrare quel senso di sradicamento che lo accompagna.
Nonostante la durata di tre ore e mezza, O Riso e a Faca, è stata una delle visioni più sorprendenti del Festival, una di quelle che non si lascia afferrare facilmente, attraversata da un’ambizione estetica dichiarata, ma sempre al servizio di un discorso che interroga il passato coloniale, i suoi fantasmi e le sue rimozioni.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Pedro Pinho, che ci ha raccontato delle complessità della produzione del film, della costruzione del personaggio di Sérgio come figura simbolica, e dell’urgenza di un cinema che non smetta di porsi delle domande.

Jonathan Guilherme e Sérgio Coragem in una scena di O Riso e a Faca (2025)
Vorrei iniziare questa conversazione parlando del personaggio di Sérgio. Come mai hai scelto come protagonista un uomo dalla carnagione bianca?
In realtà, anche se ho una carnagione olivastra, vengo spesso percepito come “bianco”. Quindi, già in fase di scrittura, ho sentito la necessità di un personaggio che potesse avere accesso a una certa soggettività. Era anche un modo per proteggermi da possibili discussioni sulla legittimità dello sguardo, visto che sapevo di voler affrontare questioni legate all’eredità coloniale. Mi interessava esplorare questa idea per cui, in certi luoghi, la presenza europea, intesa più come cultura che come istituzione politica, continua a essere dominante. In questo senso, scegliere un protagonista dalla pelle chiara è stato quasi naturale, perché mi permetteva di osservare come una soggettività “europea” agisce, si confronta, o talvolta evita i conflitti che ha intorno.
Il titolo del film richiama esplicitamente la canzone “O Riso e a Faca” di Tom Zé, che compare anche in una scena memorabile. Avevi già in mente di usare quel brano fin dall’inizio o è stata una scelta successiva?
La canzone era presente già nella fase di scrittura. Ricordo che stavo cercando un titolo per il film, e quando ho riascoltato quel brano ho pensato subito: “Ecco, è questo.” Non tanto perché descrive esattamente la storia, ma perché ne suggerisce lo stato emotivo, le tensioni interiori dei personaggi. Mi sembrava un punto di partenza perfetto, non solo per Sérgio, ma anche per Diára e Gui. L’idea di trovare quiete solo nella tempesta, come se si potesse riposare solo nel centro di un uragano, rappresenta bene quella condizione di vivere immersi nel caos. Nel film ho cercato proprio questo: un tumulto che non è geografico, ma emotivo e simbolico, radicato in quei territori che rappresentano ancora oggi il confine mai risolto del neocolonialismo.
Quanto è stata importante la scelta di fare di Sérgio un ingegnere? Trovo che dia al personaggio una dimensione etica particolare, una moralità tecnica superiore a quella, ad esempio, di un architetto.
In un certo senso hai già colto il punto. L’idea che un ingegnere abbia un compito “morale” rispetto a un progetto è qualcosa di paradossale, ma molto interessante. Forse perché c’è una certa confusione intorno alle professioni: spesso si pensa che siano gli architetti a costruire, mentre in realtà sono gli ingegneri a progettare infrastrutture, strade, ponti… e, in un certo senso, a farsi portavoce della cosiddetta “civilizzazione”. Questa figura dell’ingegnere come agente del progresso, soprattutto nel contesto di un’eredità coloniale, mi sembrava particolarmente potente. Rappresenta bene l’idea di un’Europa che si sente ancora “in dovere” verso certe aree del mondo.
Un altro aspetto che ho trovato molto interessante di Sérgio è che non si limita a voler aiutare, sembra quasi disperato di far parte della vita degli altri, di integrarsi completamente.
Sì, penso che questa sia una dinamica molto umana. Sérgio si muove tra solitudine, desiderio e una profonda curiosità. È in quella tensione, in quel bisogno di appartenere, che ho trovato il cuore del suo personaggio. Nella mia esperienza ho incontrato molte persone simili a lui: sentono che, per poter creare connessioni autentiche, devono prima percepirsi parte di qualcosa. Vogliono condividere, interagire, non restare ai margini. Ma proprio questo slancio lo porta a confrontarsi con dilemmi profondi, a volte dolorosi, dove si ritrova più ad ascoltare che a parlare, più ad osservare che a partecipare. Ed è lì che nasce il suo conflitto interiore.

Credo che uno di questi dilemmi emerga chiaramente nella scena del rapporto bisessuale a tre. Sérgio aveva ricevuto l’indicazione di restare in disparte, di osservare, ma non riesce a trattenersi e partecipa. È una scena chiave per capire la sua persona.
È vero. Non avevo mai riflettuto su quella scena in questi termini, ma hai ragione. Quello è un momento cruciale che dice molto del suo rapporto con gli altri e con il luogo in cui si trova. C’è tutta la sua tensione lì dentro: la voglia di essere incluso, la difficoltà a restare spettatore, il desiderio di far parte di un’esperienza che sente viva. È un gesto che esprime la sua urgenza di appartenenza, ma anche la sua incapacità di accettare i propri limiti.
Cosa ti ha spinto a raccontare questa storia in Guinea Bissau, e non in Mozambico o Angola? Che rapporto hai con questi luoghi?
Ho iniziato a esplorare quest’area nel 2008, mentre stavo lavorando a un documentario sull’esperienza degli immigrati che cercavano di arrivare in Europa. Avevo girato con gruppi di persone in attesa dei documenti per il trasferimento, e in quel contesto ho iniziato a creare relazioni, a capire meglio la situazione. Sono nate amicizie, connessioni vere. In seguito ho viaggiato spesso in Africa e, a un certo punto, sono arrivato a Bissau, che conoscevo poco. È una città incredibile, piena di energia. Me ne sono innamorato subito. E poi la sua storia è affascinante, diversa da quella del Mozambico o dell’Angola. La lotta per l’indipendenza in Guinea Bissau è stata determinante anche per la rivoluzione portoghese; il PAIGC (Partido Africano para a Independência da Guiné e Cabo Verde, n.d.r.) ha vinto la guerra, e questo ha avuto un impatto diretto sul Portogallo. In un certo senso, dobbiamo la nostra democrazia anche a quei combattenti. Era giusto, per me, riconoscere questa realtà.
Nel film questo tema emerge chiaramente, soprattutto nei dialoghi tra Sérgio e alcune ragazze. A un certo punto, una di loro dice: “Non voglio la tua pietà. Noi siamo più che uguali.” Ed è lì che si apre un'altra prospettiva, completamente diversa, sulla relazione che lui può avere con le persone intorno a sé. Ma è una prospettiva che non parte da lui, parte da loro. Sono loro a spingerlo in un’altra direzione, a costringerlo a rivedere il suo sguardo, il modo in cui osserva la realtà che lo circonda.
C’è poi un’idea che mi ha molto colpito, espressa da Frantz Fanon: non è la stessa cosa ottenere l’indipendenza vincendo una guerra o attraverso la via diplomatica. E in Guinea-Bissau questa consapevolezza è molto presente. Le persone ti guardano come per dire: “Noi abbiamo vinto. Voi avete perso. Punto.” È una relazione diversa rispetto ad altri contesti. C’è una dignità profonda in quella lotta, e anche una coscienza politica molto forte. Una coscienza che non è solo retorica, ma viva, presente. E poi ho scoperto che questa storia di resistenza non si limita al ventesimo secolo. In Guinea-Bissau la resistenza è qualcosa che dura da secoli. È un territorio molto piccolo, e come sai, i confini africani sono stati in gran parte tracciati dalle potenze europee, ma lì esistono cinquantaquattro lingue diverse, quindi 54 culture. Culture completamente differenti tra loro, che hanno resistito all’unificazione forzata, all’omologazione. Queste culture sono ancora vive oggi, nella quotidianità. La gente parla la propria lingua a casa. E se vai nei territori di certi gruppi culturali, si parla solo quella lingua. Non puoi usare il creolo, né il portoghese, né il francese, né nessun’altra lingua europea. La maggior parte delle persone parla esclusivamente la propria lingua madre. Poi ho letto molto su questo aspetto. Un mio amico ha scritto una tesi di dottorato proprio su questo: su quelle società che sono riuscite a resistere all’imposizione dello Stato. E questo è un elemento centrale in Guinea-Bissau. La storia della resistenza continua a definire la società anche oggi. È qualcosa che mi ha colpito profondamente, e a cui sono ancora molto legato.
C’è un dialogo in particolare che mi ha colpito molto. A un certo punto qualcuno dice a Sérgio: “Io ti vedo”, quasi a smascherarlo, a far emergere la figura del white saviour, il salvatore bianco che si impegna solo per redimersi dai propri sensi di colpa. Come sei arrivato a scrivere quella scena? È frutto di conversazioni reali avute con persone del posto?
Sì, assolutamente. Il processo di creazione è stato molto partecipativo. Quasi tutti i dialoghi sono nati da una collaborazione collettiva. C’era una sceneggiatura, certo, ma non la consegnavo agli attori come un testo da imparare. Piuttosto, leggevamo insieme alcune scene, due o tre volte al massimo, poi sul set lasciavo spazio all’improvvisazione, cercando di costruire delle situazioni più che delle battute. Era importante che tutto sembrasse il più vicino possibile alla realtà, al ritmo imprevedibile della vita. Come quando entri in un bar e ordini una birra: magari te la portano calda, magari fredda, e tu devi reagire di conseguenza. Questo livello di spontaneità ha aiutato molto gli interpreti a calarsi nei personaggi, fino a viverli davvero.

O Riso e a Faca (2025)
La fluidità narrativa è uno degli elementi che rende O Riso e a Faca così potente, nonostante la complessità dei temi. È stato facile per gli attori entrare in sintonia con la visione politica e drammatica del film?
Non sempre. In realtà, con alcuni attori ho dovuto negoziare più volte, perché avevamo visioni politiche anche molto diverse. Ma una cosa è certa, hanno capito fin da subito che dovevano cogliere dei passaggi narrativi essenziali. Ho usato spesso una metafora per spiegarmi; recitare in questo film era un po’ come fare slalom sugli sci. Gli attori dovevano toccare certe “bandierine” narrative, punti precisi della storia. Ma il modo in cui le raggiungevano, il passo, la traiettoria, la velocità… spettava completamente a loro. E a volte, semplicemente, alcune bandierine erano irraggiungibili e si è deciso di lasciarle andare. In fondo, i veri scrittori del film sono loro. E siamo stati fortunatissimi ad avere nel cast Jonathan Guilherme, che nella vita è un poeta, letteralmente.
Com’è nata la collaborazione con lui?
È successo un po’ per caso, come spesso accade nelle cose belle. Stavo cercando attori da tempo - più di due anni fa - e non riuscivo a trovare qualcuno con le caratteristiche giuste. Un giorno, la mia co-produttrice brasiliana ha iniziato a mandarmi diversi profili… e, guardando una di queste foto, non ero rimasto colpito dall’attore, ma dall’amico accanto a lui. L’ho cercato su Instagram e ne sono rimasto ancora più affascinato. Dovresti seguirlo anche tu, è davvero un’opera d’arte vivente. Appena l’ho visto, ho pensato: “È lui”.
Immagino che nel film abbiate lavorato anche con attori non professionisti, soprattutto nelle scene girate nei villaggi.
Sì, esattamente. Le persone dei villaggi sono tutte non professioniste, mentre il resto del cast è composto in buona parte da attori locali, tutti della Guinea-Bissau. L’attore che interpreta Buja, l’assistente di Sérgio, è bravissimo, così come la madre di Cleo Diára, che nella vita è una ballerina. Per quanto riguarda invece i lavoratori portoghesi che si vedono nel film, sono gli stessi che avevano già partecipato a A Fábrica de Nada (2017). Avevano un po’ di esperienza sul set, ed è stato naturale coinvolgerli di nuovo. Anzi, a un certo punto mi hanno persino chiesto di andare in Mauritania per costruire un’altra fabbrica… e io ho pensato: “Perché no?” (il regista ride, n.d.r.).
Hai qualche aneddoto curioso o divertente da raccontarci sul periodo delle riprese?
Ne avrei davvero tanti, potremmo stare qui ore… Ma proprio adesso me ne è venuto in mente uno che, in un certo senso, ha ispirato anche una scena del film. È il dialogo in cui Diára dice: “Non puoi mandarmi via, è stata mia nonna a piantare questo albero di mango”. Quella frase nasce da un episodio realmente accaduto in Mauritania, a casa di un amico. Ero lì per girare delle scene, e questo amico, João, doveva tornare a Lisbona per un weekend. Prima di partire mi aveva detto: “Tieni d’occhio la casa. Va bene se qualcuno viene a farsi una doccia, succede spesso, ma per favore non lasciare che si sistemino dentro, altrimenti poi non riesco più a farli andare via”. Gli ho detto di stare tranquillo. Un giorno torno dalla spiaggia, dove avevo girato per tutto il pomeriggio, e trovo nel giardino della casa il proprietario del negozietto all’angolo... con tutta la famiglia: moglie, figli, mobili, letto… Aveva letteralmente traslocato. Io ero sotto shock, pensavo: “Avevo solo una missione, e l’ho fallita” (il regista ride, n.d.r.). Lui, però, molto tranquillo mi dice: “No, no, ho parlato con João, è tutto a posto”. Ma ovviamente chiamo João subito, e lui mi risponde: “Ma quale a posto?! Non puoi lasciarlo lì, sennò poi non lo tolgo più!” Cominciamo una discussione con il tipo, e a un certo punto lui se ne esce con una frase surreale: “Questo non è il giardino di João. Questa è la mia ombra. Se guardi bene, l’unico punto dove arriva l’ombra del mio negozio è questo spazio qui. Quindi ho messo la mia famiglia nell’ombra del mio negozio, non nel giardino di João”. E lì ho pensato: ha ragione. In Mauritania, l’ombra ha un valore profondissimo. È come un’estensione della propria casa, è quasi sacra. Mi ha fatto riflettere su quanto spesso diamo per scontati i confini, su cosa significhi davvero “appartenere a un luogo”. È solo un piccolo aneddoto, tra i tanti. Abbiamo girato per sei mesi e di storie così ce ne sarebbero moltissime.
Sei mesi di riprese?
Sì, esatto. Perché, proprio come accade ai personaggi nel film, anche noi abbiamo vissuto quel viaggio in tempo reale. Siamo partiti dal deserto della Mauritania per poi arrivare in Guinea-Bissau, seguendo fisicamente lo stesso percorso della storia.

Cleo Diára e Sérgio Coragem in una scena del lungometraggio
Quali sono state le principali difficoltà durante le riprese?
Le sfide sono state tante, soprattutto a livello logistico. Gli spostamenti erano complicati, spesso lunghi e imprevedibili, e come dicevo prima, sei mesi di riprese sono un impegno enorme. Uno dei momenti più difficili è stato proprio il secondo giorno di lavorazione, mentre giravamo la scena d’apertura, quella in cui l’auto si ferma nel mezzo della tempesta di sabbia. C’è stato un problema tecnico con la macchina da presa: dovevamo cambiare una lente, ma non ce ne siamo accorti in tempo e abbiamo perso parte del materiale girato. In più, dovevamo mandare il girato in Romania, ma i confini erano chiusi… è stato davvero un incubo. E, come se non bastasse, proprio quel giorno Sérgio ha avuto un’insolazione molto seria. È rimasto a letto per una settimana… a un certo punto ho davvero temuto che non ce l’avrebbe fatta. Per fortuna poi si è ripreso e siamo riusciti ad andare avanti.
Avendo esplorato l’esperienza in prima persona, o almeno come osservatore esterno, quale pensi che sia la differenza tra l’approccio neocoloniale dell’Europa e quello, per esempio, cinese rispetto a queste zone?
Beh, la differenza sostanziale è che l’approccio europeo, per quanto discutibile, mantiene ancora una parvenza di etica. Puoi non condividerla, puoi trovarla ipocrita, ma in qualche modo esiste. L’approccio cinese invece è completamente diverso: non si pongono nemmeno il problema dell’etica. Detto questo, non credo che le persone della Guinea-Bissau condividano necessariamente lo stesso punto di vista che abbiamo noi europei. Non posso parlare a nome loro, ovviamente, ma ho affrontato questo argomento più volte con molte persone del posto. Tutti riconoscevano il problema, ma lo guardavano da una prospettiva molto diversa. Noi arriviamo con il peso storico del colonialismo sulle spalle. Loro no. Per loro, la Cina rappresenta una storia di cooperazione bilaterale, non di oppressione. È una differenza enorme. Durante le riprese, in una zona a nord della Guinea-Bissau, c’era in corso una negoziazione con una delegazione cinese per l’estrazione delle sabbie rare. Due settimane dopo, le donne dei villaggi si sono unite per incendiare i macchinari. Un gesto di resistenza fortissimo. Sedici di loro sono state arrestate e ancora oggi sono sotto processo. È un fatto di cui si parla pochissimo, ma che dovremmo affrontare apertamente. Anche perché, in fondo, ne siamo parte, i nostri telefoni contengono quei minerali. Eppure non sappiamo nemmeno come si chiamano. Intanto, le comunità locali ne subiscono le conseguenze: l’acqua viene inquinata, i pozzi distrutti, i terreni sconvolti. In alcuni casi, interi villaggi sono costretti a trasferirsi. E la logica è questa: “Non potete più stare qui. Andatevene” - “Dove?” - “Non importa”. È una violenza silenziosa, ma profondissima.
Quindi lo spirito di Cabral (Amílcar Cabral, politico guineense, n.d.r.), quello di “No domination, no exploitation”, è ancora molto vivo, sia che si tratti di persone di colore che bianche.
In realtà, credo che questo spirito venga da molto prima di Cabral, altrimenti non si spiegherebbe come mai in un territorio così piccolo si parlino ancora cinquantaquattro lingue e si mantengano culture così diverse e radicate.
E qual è la posizione del governo su tutto questo? Firmerebbero contratti con queste compagnie?
È una situazione davvero complessa e delicata.
Si tratta di corruzione, allora?
Non definirei il problema “corruzione” in senso stretto, soprattutto perché questo termine ha significati diversi e spesso viene usato in modo superficiale per giudicare realtà che non conosciamo davvero. La corruzione, se vogliamo, è più diffusa negli Stati Uniti o in Europa. Qui, invece, si sta creando una sorta di meccanismo repressivo da parte dello Stato. La cosa interessante della Guinea-Bissau è che il governo non è mai stato veramente presente in tutto il territorio: nella capitale sì, ma nei piccoli villaggi lontani, no. Lì non ci sono ospedali, scuole o infrastrutture pubbliche. Ad esempio, il villaggio che vediamo nelle ultime scene è completamente autonomo e si autogestisce. Hanno costruito le scuole, organizzato la propria economia per poter “importare” gli insegnanti, e persino creato un piccolo hotel comunitario per ospitare chi passa di lì. Si tratta di un sistema molto semplice, fatto di poche case, e tutti i ricavi vengono distribuiti equamente tra gli abitanti.
Si può definire un’utopia?
Non esattamente. Vivono in una zona molto isolata e lì le tradizioni si sono mantenute vive per secoli. Certo, hanno i loro problemi come ovunque, ma in pratica lo Stato per loro non esiste. La gente del posto usa una frase bellissima: “Questa è la Terra dei Flupes, la Terra dello Stato è Bissau, ma questa è la landa dei Flupes”, cioè il territorio del loro gruppo etnico. In altre parole, se vuoi far parte dello Stato, devi andare nella capitale. Trovo affascinante questo modo di pensare, così chiaro e radicato.
Una clip da O Riso e a Faca (2025)
INT-101
19.07.2025
A Cannes, lo scorso maggio, è tornata una delle voci più originali e intriganti del cinema portoghese contemporaneo. Dopo l’ottimo riscontro ottenuto con A Fábrica de Nada (2017), presentato alla Quinzaine des cinéastes e premiato con il FIPRESCI, Pedro Pinho ha portato sulla Croisette O Riso e a Faca, un film che, tra gli echi del reportage, tensioni postcoloniali e aperture intimiste, conferma l’urgenza politica e la ricerca formale del suo autore.
Il lungometraggio segue il personaggio di Sérgio (Sérgio Coragem), ingegnere ambientale incaricato di sovrintendere la costruzione di una strada in una remota area della Guinea-Bissau. Il compito, apparentemente tecnico, si rivela un viaggio destabilizzante tra resistenze locali, fratture culturali e disorientamenti personali. A fare da contrappunto alla sua solitudine ci sono Diára (una magnetica Cleo Diára, premiata come Miglior Attrice nella sezione Un Certain Regard) e Gui (un altrettanto sensazionale Jonathan Guilherme), due presenze che provocano delle aperture nell’isolamento emotivo del protagonista e lo aiutano a decifrare quel senso di sradicamento che lo accompagna.
Nonostante la durata di tre ore e mezza, O Riso e a Faca, è stata una delle visioni più sorprendenti del Festival, una di quelle che non si lascia afferrare facilmente, attraversata da un’ambizione estetica dichiarata, ma sempre al servizio di un discorso che interroga il passato coloniale, i suoi fantasmi e le sue rimozioni.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Pedro Pinho, che ci ha raccontato delle complessità della produzione del film, della costruzione del personaggio di Sérgio come figura simbolica, e dell’urgenza di un cinema che non smetta di porsi delle domande.

Jonathan Guilherme e Sérgio Coragem in una scena di O Riso e a Faca (2025)
Vorrei iniziare questa conversazione parlando del personaggio di Sérgio. Come mai hai scelto come protagonista un uomo dalla carnagione bianca?
In realtà, anche se ho una carnagione olivastra, vengo spesso percepito come “bianco”. Quindi, già in fase di scrittura, ho sentito la necessità di un personaggio che potesse avere accesso a una certa soggettività. Era anche un modo per proteggermi da possibili discussioni sulla legittimità dello sguardo, visto che sapevo di voler affrontare questioni legate all’eredità coloniale. Mi interessava esplorare questa idea per cui, in certi luoghi, la presenza europea, intesa più come cultura che come istituzione politica, continua a essere dominante. In questo senso, scegliere un protagonista dalla pelle chiara è stato quasi naturale, perché mi permetteva di osservare come una soggettività “europea” agisce, si confronta, o talvolta evita i conflitti che ha intorno.
Il titolo del film richiama esplicitamente la canzone “O Riso e a Faca” di Tom Zé, che compare anche in una scena memorabile. Avevi già in mente di usare quel brano fin dall’inizio o è stata una scelta successiva?
La canzone era presente già nella fase di scrittura. Ricordo che stavo cercando un titolo per il film, e quando ho riascoltato quel brano ho pensato subito: “Ecco, è questo.” Non tanto perché descrive esattamente la storia, ma perché ne suggerisce lo stato emotivo, le tensioni interiori dei personaggi. Mi sembrava un punto di partenza perfetto, non solo per Sérgio, ma anche per Diára e Gui. L’idea di trovare quiete solo nella tempesta, come se si potesse riposare solo nel centro di un uragano, rappresenta bene quella condizione di vivere immersi nel caos. Nel film ho cercato proprio questo: un tumulto che non è geografico, ma emotivo e simbolico, radicato in quei territori che rappresentano ancora oggi il confine mai risolto del neocolonialismo.
Quanto è stata importante la scelta di fare di Sérgio un ingegnere? Trovo che dia al personaggio una dimensione etica particolare, una moralità tecnica superiore a quella, ad esempio, di un architetto.
In un certo senso hai già colto il punto. L’idea che un ingegnere abbia un compito “morale” rispetto a un progetto è qualcosa di paradossale, ma molto interessante. Forse perché c’è una certa confusione intorno alle professioni: spesso si pensa che siano gli architetti a costruire, mentre in realtà sono gli ingegneri a progettare infrastrutture, strade, ponti… e, in un certo senso, a farsi portavoce della cosiddetta “civilizzazione”. Questa figura dell’ingegnere come agente del progresso, soprattutto nel contesto di un’eredità coloniale, mi sembrava particolarmente potente. Rappresenta bene l’idea di un’Europa che si sente ancora “in dovere” verso certe aree del mondo.
Un altro aspetto che ho trovato molto interessante di Sérgio è che non si limita a voler aiutare, sembra quasi disperato di far parte della vita degli altri, di integrarsi completamente.
Sì, penso che questa sia una dinamica molto umana. Sérgio si muove tra solitudine, desiderio e una profonda curiosità. È in quella tensione, in quel bisogno di appartenere, che ho trovato il cuore del suo personaggio. Nella mia esperienza ho incontrato molte persone simili a lui: sentono che, per poter creare connessioni autentiche, devono prima percepirsi parte di qualcosa. Vogliono condividere, interagire, non restare ai margini. Ma proprio questo slancio lo porta a confrontarsi con dilemmi profondi, a volte dolorosi, dove si ritrova più ad ascoltare che a parlare, più ad osservare che a partecipare. Ed è lì che nasce il suo conflitto interiore.

Credo che uno di questi dilemmi emerga chiaramente nella scena del rapporto bisessuale a tre. Sérgio aveva ricevuto l’indicazione di restare in disparte, di osservare, ma non riesce a trattenersi e partecipa. È una scena chiave per capire la sua persona.
È vero. Non avevo mai riflettuto su quella scena in questi termini, ma hai ragione. Quello è un momento cruciale che dice molto del suo rapporto con gli altri e con il luogo in cui si trova. C’è tutta la sua tensione lì dentro: la voglia di essere incluso, la difficoltà a restare spettatore, il desiderio di far parte di un’esperienza che sente viva. È un gesto che esprime la sua urgenza di appartenenza, ma anche la sua incapacità di accettare i propri limiti.
Cosa ti ha spinto a raccontare questa storia in Guinea Bissau, e non in Mozambico o Angola? Che rapporto hai con questi luoghi?
Ho iniziato a esplorare quest’area nel 2008, mentre stavo lavorando a un documentario sull’esperienza degli immigrati che cercavano di arrivare in Europa. Avevo girato con gruppi di persone in attesa dei documenti per il trasferimento, e in quel contesto ho iniziato a creare relazioni, a capire meglio la situazione. Sono nate amicizie, connessioni vere. In seguito ho viaggiato spesso in Africa e, a un certo punto, sono arrivato a Bissau, che conoscevo poco. È una città incredibile, piena di energia. Me ne sono innamorato subito. E poi la sua storia è affascinante, diversa da quella del Mozambico o dell’Angola. La lotta per l’indipendenza in Guinea Bissau è stata determinante anche per la rivoluzione portoghese; il PAIGC (Partido Africano para a Independência da Guiné e Cabo Verde, n.d.r.) ha vinto la guerra, e questo ha avuto un impatto diretto sul Portogallo. In un certo senso, dobbiamo la nostra democrazia anche a quei combattenti. Era giusto, per me, riconoscere questa realtà.
Nel film questo tema emerge chiaramente, soprattutto nei dialoghi tra Sérgio e alcune ragazze. A un certo punto, una di loro dice: “Non voglio la tua pietà. Noi siamo più che uguali.” Ed è lì che si apre un'altra prospettiva, completamente diversa, sulla relazione che lui può avere con le persone intorno a sé. Ma è una prospettiva che non parte da lui, parte da loro. Sono loro a spingerlo in un’altra direzione, a costringerlo a rivedere il suo sguardo, il modo in cui osserva la realtà che lo circonda.
C’è poi un’idea che mi ha molto colpito, espressa da Frantz Fanon: non è la stessa cosa ottenere l’indipendenza vincendo una guerra o attraverso la via diplomatica. E in Guinea-Bissau questa consapevolezza è molto presente. Le persone ti guardano come per dire: “Noi abbiamo vinto. Voi avete perso. Punto.” È una relazione diversa rispetto ad altri contesti. C’è una dignità profonda in quella lotta, e anche una coscienza politica molto forte. Una coscienza che non è solo retorica, ma viva, presente. E poi ho scoperto che questa storia di resistenza non si limita al ventesimo secolo. In Guinea-Bissau la resistenza è qualcosa che dura da secoli. È un territorio molto piccolo, e come sai, i confini africani sono stati in gran parte tracciati dalle potenze europee, ma lì esistono cinquantaquattro lingue diverse, quindi 54 culture. Culture completamente differenti tra loro, che hanno resistito all’unificazione forzata, all’omologazione. Queste culture sono ancora vive oggi, nella quotidianità. La gente parla la propria lingua a casa. E se vai nei territori di certi gruppi culturali, si parla solo quella lingua. Non puoi usare il creolo, né il portoghese, né il francese, né nessun’altra lingua europea. La maggior parte delle persone parla esclusivamente la propria lingua madre. Poi ho letto molto su questo aspetto. Un mio amico ha scritto una tesi di dottorato proprio su questo: su quelle società che sono riuscite a resistere all’imposizione dello Stato. E questo è un elemento centrale in Guinea-Bissau. La storia della resistenza continua a definire la società anche oggi. È qualcosa che mi ha colpito profondamente, e a cui sono ancora molto legato.
C’è un dialogo in particolare che mi ha colpito molto. A un certo punto qualcuno dice a Sérgio: “Io ti vedo”, quasi a smascherarlo, a far emergere la figura del white saviour, il salvatore bianco che si impegna solo per redimersi dai propri sensi di colpa. Come sei arrivato a scrivere quella scena? È frutto di conversazioni reali avute con persone del posto?
Sì, assolutamente. Il processo di creazione è stato molto partecipativo. Quasi tutti i dialoghi sono nati da una collaborazione collettiva. C’era una sceneggiatura, certo, ma non la consegnavo agli attori come un testo da imparare. Piuttosto, leggevamo insieme alcune scene, due o tre volte al massimo, poi sul set lasciavo spazio all’improvvisazione, cercando di costruire delle situazioni più che delle battute. Era importante che tutto sembrasse il più vicino possibile alla realtà, al ritmo imprevedibile della vita. Come quando entri in un bar e ordini una birra: magari te la portano calda, magari fredda, e tu devi reagire di conseguenza. Questo livello di spontaneità ha aiutato molto gli interpreti a calarsi nei personaggi, fino a viverli davvero.

O Riso e a Faca (2025)
La fluidità narrativa è uno degli elementi che rende O Riso e a Faca così potente, nonostante la complessità dei temi. È stato facile per gli attori entrare in sintonia con la visione politica e drammatica del film?
Non sempre. In realtà, con alcuni attori ho dovuto negoziare più volte, perché avevamo visioni politiche anche molto diverse. Ma una cosa è certa, hanno capito fin da subito che dovevano cogliere dei passaggi narrativi essenziali. Ho usato spesso una metafora per spiegarmi; recitare in questo film era un po’ come fare slalom sugli sci. Gli attori dovevano toccare certe “bandierine” narrative, punti precisi della storia. Ma il modo in cui le raggiungevano, il passo, la traiettoria, la velocità… spettava completamente a loro. E a volte, semplicemente, alcune bandierine erano irraggiungibili e si è deciso di lasciarle andare. In fondo, i veri scrittori del film sono loro. E siamo stati fortunatissimi ad avere nel cast Jonathan Guilherme, che nella vita è un poeta, letteralmente.
Com’è nata la collaborazione con lui?
È successo un po’ per caso, come spesso accade nelle cose belle. Stavo cercando attori da tempo - più di due anni fa - e non riuscivo a trovare qualcuno con le caratteristiche giuste. Un giorno, la mia co-produttrice brasiliana ha iniziato a mandarmi diversi profili… e, guardando una di queste foto, non ero rimasto colpito dall’attore, ma dall’amico accanto a lui. L’ho cercato su Instagram e ne sono rimasto ancora più affascinato. Dovresti seguirlo anche tu, è davvero un’opera d’arte vivente. Appena l’ho visto, ho pensato: “È lui”.
Immagino che nel film abbiate lavorato anche con attori non professionisti, soprattutto nelle scene girate nei villaggi.
Sì, esattamente. Le persone dei villaggi sono tutte non professioniste, mentre il resto del cast è composto in buona parte da attori locali, tutti della Guinea-Bissau. L’attore che interpreta Buja, l’assistente di Sérgio, è bravissimo, così come la madre di Cleo Diára, che nella vita è una ballerina. Per quanto riguarda invece i lavoratori portoghesi che si vedono nel film, sono gli stessi che avevano già partecipato a A Fábrica de Nada (2017). Avevano un po’ di esperienza sul set, ed è stato naturale coinvolgerli di nuovo. Anzi, a un certo punto mi hanno persino chiesto di andare in Mauritania per costruire un’altra fabbrica… e io ho pensato: “Perché no?” (il regista ride, n.d.r.).
Hai qualche aneddoto curioso o divertente da raccontarci sul periodo delle riprese?
Ne avrei davvero tanti, potremmo stare qui ore… Ma proprio adesso me ne è venuto in mente uno che, in un certo senso, ha ispirato anche una scena del film. È il dialogo in cui Diára dice: “Non puoi mandarmi via, è stata mia nonna a piantare questo albero di mango”. Quella frase nasce da un episodio realmente accaduto in Mauritania, a casa di un amico. Ero lì per girare delle scene, e questo amico, João, doveva tornare a Lisbona per un weekend. Prima di partire mi aveva detto: “Tieni d’occhio la casa. Va bene se qualcuno viene a farsi una doccia, succede spesso, ma per favore non lasciare che si sistemino dentro, altrimenti poi non riesco più a farli andare via”. Gli ho detto di stare tranquillo. Un giorno torno dalla spiaggia, dove avevo girato per tutto il pomeriggio, e trovo nel giardino della casa il proprietario del negozietto all’angolo... con tutta la famiglia: moglie, figli, mobili, letto… Aveva letteralmente traslocato. Io ero sotto shock, pensavo: “Avevo solo una missione, e l’ho fallita” (il regista ride, n.d.r.). Lui, però, molto tranquillo mi dice: “No, no, ho parlato con João, è tutto a posto”. Ma ovviamente chiamo João subito, e lui mi risponde: “Ma quale a posto?! Non puoi lasciarlo lì, sennò poi non lo tolgo più!” Cominciamo una discussione con il tipo, e a un certo punto lui se ne esce con una frase surreale: “Questo non è il giardino di João. Questa è la mia ombra. Se guardi bene, l’unico punto dove arriva l’ombra del mio negozio è questo spazio qui. Quindi ho messo la mia famiglia nell’ombra del mio negozio, non nel giardino di João”. E lì ho pensato: ha ragione. In Mauritania, l’ombra ha un valore profondissimo. È come un’estensione della propria casa, è quasi sacra. Mi ha fatto riflettere su quanto spesso diamo per scontati i confini, su cosa significhi davvero “appartenere a un luogo”. È solo un piccolo aneddoto, tra i tanti. Abbiamo girato per sei mesi e di storie così ce ne sarebbero moltissime.
Sei mesi di riprese?
Sì, esatto. Perché, proprio come accade ai personaggi nel film, anche noi abbiamo vissuto quel viaggio in tempo reale. Siamo partiti dal deserto della Mauritania per poi arrivare in Guinea-Bissau, seguendo fisicamente lo stesso percorso della storia.

Cleo Diára e Sérgio Coragem in una scena del lungometraggio
Quali sono state le principali difficoltà durante le riprese?
Le sfide sono state tante, soprattutto a livello logistico. Gli spostamenti erano complicati, spesso lunghi e imprevedibili, e come dicevo prima, sei mesi di riprese sono un impegno enorme. Uno dei momenti più difficili è stato proprio il secondo giorno di lavorazione, mentre giravamo la scena d’apertura, quella in cui l’auto si ferma nel mezzo della tempesta di sabbia. C’è stato un problema tecnico con la macchina da presa: dovevamo cambiare una lente, ma non ce ne siamo accorti in tempo e abbiamo perso parte del materiale girato. In più, dovevamo mandare il girato in Romania, ma i confini erano chiusi… è stato davvero un incubo. E, come se non bastasse, proprio quel giorno Sérgio ha avuto un’insolazione molto seria. È rimasto a letto per una settimana… a un certo punto ho davvero temuto che non ce l’avrebbe fatta. Per fortuna poi si è ripreso e siamo riusciti ad andare avanti.
Avendo esplorato l’esperienza in prima persona, o almeno come osservatore esterno, quale pensi che sia la differenza tra l’approccio neocoloniale dell’Europa e quello, per esempio, cinese rispetto a queste zone?
Beh, la differenza sostanziale è che l’approccio europeo, per quanto discutibile, mantiene ancora una parvenza di etica. Puoi non condividerla, puoi trovarla ipocrita, ma in qualche modo esiste. L’approccio cinese invece è completamente diverso: non si pongono nemmeno il problema dell’etica. Detto questo, non credo che le persone della Guinea-Bissau condividano necessariamente lo stesso punto di vista che abbiamo noi europei. Non posso parlare a nome loro, ovviamente, ma ho affrontato questo argomento più volte con molte persone del posto. Tutti riconoscevano il problema, ma lo guardavano da una prospettiva molto diversa. Noi arriviamo con il peso storico del colonialismo sulle spalle. Loro no. Per loro, la Cina rappresenta una storia di cooperazione bilaterale, non di oppressione. È una differenza enorme. Durante le riprese, in una zona a nord della Guinea-Bissau, c’era in corso una negoziazione con una delegazione cinese per l’estrazione delle sabbie rare. Due settimane dopo, le donne dei villaggi si sono unite per incendiare i macchinari. Un gesto di resistenza fortissimo. Sedici di loro sono state arrestate e ancora oggi sono sotto processo. È un fatto di cui si parla pochissimo, ma che dovremmo affrontare apertamente. Anche perché, in fondo, ne siamo parte, i nostri telefoni contengono quei minerali. Eppure non sappiamo nemmeno come si chiamano. Intanto, le comunità locali ne subiscono le conseguenze: l’acqua viene inquinata, i pozzi distrutti, i terreni sconvolti. In alcuni casi, interi villaggi sono costretti a trasferirsi. E la logica è questa: “Non potete più stare qui. Andatevene” - “Dove?” - “Non importa”. È una violenza silenziosa, ma profondissima.
Quindi lo spirito di Cabral (Amílcar Cabral, politico guineense, n.d.r.), quello di “No domination, no exploitation”, è ancora molto vivo, sia che si tratti di persone di colore che bianche.
In realtà, credo che questo spirito venga da molto prima di Cabral, altrimenti non si spiegherebbe come mai in un territorio così piccolo si parlino ancora cinquantaquattro lingue e si mantengano culture così diverse e radicate.
E qual è la posizione del governo su tutto questo? Firmerebbero contratti con queste compagnie?
È una situazione davvero complessa e delicata.
Si tratta di corruzione, allora?
Non definirei il problema “corruzione” in senso stretto, soprattutto perché questo termine ha significati diversi e spesso viene usato in modo superficiale per giudicare realtà che non conosciamo davvero. La corruzione, se vogliamo, è più diffusa negli Stati Uniti o in Europa. Qui, invece, si sta creando una sorta di meccanismo repressivo da parte dello Stato. La cosa interessante della Guinea-Bissau è che il governo non è mai stato veramente presente in tutto il territorio: nella capitale sì, ma nei piccoli villaggi lontani, no. Lì non ci sono ospedali, scuole o infrastrutture pubbliche. Ad esempio, il villaggio che vediamo nelle ultime scene è completamente autonomo e si autogestisce. Hanno costruito le scuole, organizzato la propria economia per poter “importare” gli insegnanti, e persino creato un piccolo hotel comunitario per ospitare chi passa di lì. Si tratta di un sistema molto semplice, fatto di poche case, e tutti i ricavi vengono distribuiti equamente tra gli abitanti.
Si può definire un’utopia?
Non esattamente. Vivono in una zona molto isolata e lì le tradizioni si sono mantenute vive per secoli. Certo, hanno i loro problemi come ovunque, ma in pratica lo Stato per loro non esiste. La gente del posto usa una frase bellissima: “Questa è la Terra dei Flupes, la Terra dello Stato è Bissau, ma questa è la landa dei Flupes”, cioè il territorio del loro gruppo etnico. In altre parole, se vuoi far parte dello Stato, devi andare nella capitale. Trovo affascinante questo modo di pensare, così chiaro e radicato.
Una clip da O Riso e a Faca (2025)