A cura di Paolo Rissicini
INT-97
10.06.2025
Il suo nuovo lungometraggio, Volveréis, uscirà nelle sale italiane a partire dal 12 Giugno grazie a Wnted Cinema.
Volveréis nasce intorno a un’idea, seppur irripetibile, molto semplice (una coppia decide di separarsi, e di annunciarlo con una festa di addio, ndr). Il film è però capace di arricchire questo spunto iniziale, in una ripetizione continua ma instancabile – senza linearità, né circolarità – della fine imminente della coppia, che non sembra arrivare mai. Da sceneggiatore, ancor prima che regista, come sei riuscito a dotare il film di una struttura talmente complessa, nella sua asciuttezza?
Vero, il film nasce da un’idea molto semplice. Questo perché mi piace sostenere che il cinema può essere fatto con cose semplici, con una piccola trama, attraverso un piccolo aneddoto. E mi sembra che questo possa essere un po’ provocatorio nel contesto del cinema contemporaneo, dove i film tendono sempre di più ad avere delle trame o delle idee grandiose, o sono spesso spettacolari. A me piace rivendicare i film possano essere tratti, come nel caso di Volveréis, da frasi frivole, da boutades, da stupidaggini che però, nella loro continua ripetizione, assumono una certa profondità. Avevo dunque ben chiaro che volevo costruire il film ripetendo sempre la stessa frase. Ma non sapevo esattamente come. E quando ho iniziato a lavorare con Itsaso e Vito (i due attori protagonisti, ndr), in modo molto naturale abbiamo trovato la struttura del film, la costruzione narrativa. Il punto di partenza è stato la volontà di costruire il film intorno a un’unità di tempo molto specifica. Il film inizia a fine agosto e termina il 22 settembre, che segna la fine dell’estate, ed è il giorno scelto dai due protagonisti per festeggiare la fine della loro coppia. Quindi, una volta saputo che l’intero film sarebbe stato costruito in quel periodo di tempo, abbiamo iniziato a chiederci cosa sarebbe potuto succedere durante quei giorni: e così è emerso il film.
La ripetizione, concetto che abbiamo citato entrambi, è il titolo di un saggio di Kierkegaard che viene citato nel film: un concetto che sembra intersecare sia la narrazione del film che la lenta morte della coppia. Qual era la tua intenzione autoriale dietro al rimando filosofico di Kierkegaard?
Sì, Kierkegaard in realtà non lo conoscevo bene e, come tante altre persone, ne avevo un’idea come di un pensatore pessimista. Ho però trovato un riferimento al libro di Kierkegaard in un filosofo americano, Stanley Cavell, che nel saggio Alla ricerca della felicità ha cambiato la mia percezione di Kierkegaard. Così mi sono incuriosito ed è stata una sorpresa, perché ho trovato il libro molto divertente, molto moderno, con una struttura molto libera – e me ne sono un po’ innamorato. Mi piace come Kierkegaard parli, all’inizio del suo libro, dell’amore-ripetizione, poiché sembra dirci come l’amore-ripetizione sia più vero di ogni altro: come nella ripetizione, nella ricaduta in qualcosa che già si conosce, ci sia l’amore. Quando inizi una relazione tutto è sconosciuto, è un mistero, non conosci l’altro fino in fondo; nella seconda possibilità d’amore sai già tutto, e così il gesto del ritorno è più forte, più impegnato. E l’ho trovato un concetto molto interessante.
It Happened One Night (Accadde una notte, 1934)
Stavo proprio per citarti Cavell, che in Alla ricerca della felicità (Einaudi, 1999) scrive: «Solo coloro che sono già sposati si possono autenticamente sposare. È come se sapessimo che si è sposati quando si giunge a capire che non si riesce a divorziare, cioè quando si trova che le proprie vite semplicemente non si districano», un passaggio aderente all’andamento narrativo del tuo film. Come identifichi il tuo film dentro la commedia romantica contemporanea, e quali sono i mutamenti del genere rispetto al cinema classico?
Adoro molti libri di Cavell, ma Alla ricerca della felicità è il più stimolante per me. Il frammento che hai letto spiega perfettamente quello che cercavo di dirti prima rispetto alle seconde possibilità, riguardo a quelle coppie che, quando sono vicine al divorzio e decidono di continuare, trovano il vero momento dell’impegno. Per esempio, con Itsaso e Vito ho proposto di rivedere i sette film che Cavell ha raggruppato in questo genere da lui codificato, la cosiddetta «commedia del rimatrimonio». Ho suggerito a Itsaso e Vito di guardare ciascuno di questi sette film per una settimana, prima di iniziare a scrivere la sceneggiatura. È stato molto bello, ogni sera guardavamo insieme It Happened One Night (Accadde una notte, 1934), The Awful Truth (L’orribile verità, 1937), Bringing Up Baby (Susanna!, 1938): ci hanno ispirato molto, ma ci siamo anche resi conto che non potevamo imitarli, era impossibile, perché sono film unici e irripetibili, e appartengono a un momento, a un contesto del cinema americano a noi molto lontano. Non potevamo cadere nel ridicolo per cercare di imitarli, ma semmai stabilire un dialogo con quei film partendo dal nostro contesto, dalla nostra realtà, in Spagna, a Madrid, oggi. Penso inoltre che sia un peccato che le commedie romantiche di oggi siano poco intelligenti, quando alcuni dei migliori film della storia del cinema sono commedie romantiche, girate da registi come Lubitsch, Wilder, Sturges, Capra, McCarey, Hawks. È un genere che si è degradato, mentre i buoni registi contemporanei non osano lavorarci, pensando che sia un genere obsoleto, vecchio, compiendo così un errore di valutazione. Sicuramente è anche un genere molto difficile da realizzare bene: io, a mio modo, ho cercato di farlo, con grande rispetto, cercando di girare un film che fosse divertente ma anche intelligente, ed è il mio modo particolare per provare a rivendicare la nobiltà di questo genere.
Nel film hai scritturato due attori con cui spesso collabori, Vito Sanz e Itsaso Arana (oltre al cameo di Francesco Carril, che compare sul set di Los años nuevos di Rodrigo Sorogoyen). Abbiamo già detto come Sanz e Arana, inoltre, abbiano scritto con te Volveréis: in questo mi ha ricordato le sceneggiature della Before trilogy (1995-2013) di Linklater, a cui hanno sempre partecipato anche Ethan Hawke e Julie Delpy. Qual è il tuo rapporto con degli attori che ritornano costantemente e che sono anche autori, come in quest’ultimo caso? E quanto della tua vita - e della tua vita dentro al cinema - è presente nel film?
Mi piace questa menzione a Linklater e all’intera Before trilogy, a cui sono legato – soprattutto il secondo, Before Sunset (2004). Tutta la trilogia dimostra che tra gli attori e il regista possa crearsi un legame molto forte. E per me quel film è sempre un punto di riferimento, sempre fonte di ispirazione. E con Itsaso e Vito è lo stesso, sono grandi attori che ammiro molto, ma sono anche persone molto unite e amici a cui voglio bene. Mi piace filmarli più e più volte in film diversi, e così mi sembra di vederli crescere. Mi vedo invecchiare con loro e attraverso di loro. Invecchiamo con ogni film, anche con Francesco Carril. Francesco e Vito hanno iniziato a lavorare con me nel 2011 per Los ilusos (2013): per entrambi, è stato il primo film quando erano molto giovani e non sapevano nulla di cinema. È stato molto divertente lavorare con loro e mi è piaciuto molto il modo in cui entrambi sono cresciuti e hanno trovato altri film e altre opere teatrali. Conoscendo molto bene i miei attori, baso i miei film su di loro: per prima cosa so che voglio lavorare con loro e poi penso al film che voglio fare per loro. Costruisco i film attorno a questi amici-attori. Ma non solo, anche attraverso le suggestioni di tutta la crew: in Volveréis abbiamo cercato di compiere una autoparodia delle nostre vite, mostrando quanto il nostro lavoro possa essere contemporaneamente ridicolo e insopportabile, soprattutto quando - come nel film - le vite sentimentali e professionali si incrociano.
Dopo Volveréis hai dei progetti pronti, o che stai immaginando?
Ad ora ho deciso di fermarmi un attimo. Non sto dando per scontato che io debba fare film in continuazione, come se fossi una fabbrica sistematica. Il film parla un po’ anche di questo, della crisi del cinema, che è anche la mia crisi. Sono sempre in crisi con il cinema, lo metto in discussione e metto in discussione anche me stesso. E allo stesso tempo non riesco a smettere di pensare continuamente al cinema e ai film. Scrivo e penso sempre. Sì, credo di avere alcune cose in mente, ma ho sempre cercato di non sognare i film: perché c’è questa idea, quasi un cliché, del cinema dei sogni. Eppure, il film che sogni è sempre molto difficile da realizzare. E quasi impossibile, non può materializzarsi. Forse solo pochi registi molto importanti, come Fellini, Bergman e Kubrick, sono riusciti ad avvicinarsi ai sogni. Ma per i registi più piccoli e umili, come me, il sogno è una trappola. Quindi cerco di non sognare troppo e di non pensare troppo ai film che farò, ma di trovarli osservando la realtà davanti a me: Vito, Itsaso, i miei attori, la mia strada, la mia città. Io vedo questo, lo guardo e con questo faccio il film, e lo scopro. Detto questo, c’è però un film a cui sto pensando da un po’, e non so se riuscirò a realizzarlo. Sarebbe complicato, essendo un film d’epoca che vorrei girare in Italia, Spagna, Francia, Messico, un film itinerante… e non so se ci riuscirò mai. Non ci penso troppo, però, perché potrei innervosirmi se non lo realizzassi. Ecco perché cerco quasi sempre di pensare film possibili, attuabili nella possibilità del mondo che mi circonda. Chiudere i film con argomenti che mi sono vicini, e che non mi causeranno frustrazione.
Il trailer di Volveréis (2024)
A cura di Paolo Rissicini
INT-97
10.06.2025
Il suo nuovo lungometraggio, Volveréis, uscirà nelle sale italiane a partire dal 12 Giugno grazie a Wnted Cinema.
Volveréis nasce intorno a un’idea, seppur irripetibile, molto semplice (una coppia decide di separarsi, e di annunciarlo con una festa di addio, ndr). Il film è però capace di arricchire questo spunto iniziale, in una ripetizione continua ma instancabile – senza linearità, né circolarità – della fine imminente della coppia, che non sembra arrivare mai. Da sceneggiatore, ancor prima che regista, come sei riuscito a dotare il film di una struttura talmente complessa, nella sua asciuttezza?
Vero, il film nasce da un’idea molto semplice. Questo perché mi piace sostenere che il cinema può essere fatto con cose semplici, con una piccola trama, attraverso un piccolo aneddoto. E mi sembra che questo possa essere un po’ provocatorio nel contesto del cinema contemporaneo, dove i film tendono sempre di più ad avere delle trame o delle idee grandiose, o sono spesso spettacolari. A me piace rivendicare i film possano essere tratti, come nel caso di Volveréis, da frasi frivole, da boutades, da stupidaggini che però, nella loro continua ripetizione, assumono una certa profondità. Avevo dunque ben chiaro che volevo costruire il film ripetendo sempre la stessa frase. Ma non sapevo esattamente come. E quando ho iniziato a lavorare con Itsaso e Vito (i due attori protagonisti, ndr), in modo molto naturale abbiamo trovato la struttura del film, la costruzione narrativa. Il punto di partenza è stato la volontà di costruire il film intorno a un’unità di tempo molto specifica. Il film inizia a fine agosto e termina il 22 settembre, che segna la fine dell’estate, ed è il giorno scelto dai due protagonisti per festeggiare la fine della loro coppia. Quindi, una volta saputo che l’intero film sarebbe stato costruito in quel periodo di tempo, abbiamo iniziato a chiederci cosa sarebbe potuto succedere durante quei giorni: e così è emerso il film.
La ripetizione, concetto che abbiamo citato entrambi, è il titolo di un saggio di Kierkegaard che viene citato nel film: un concetto che sembra intersecare sia la narrazione del film che la lenta morte della coppia. Qual era la tua intenzione autoriale dietro al rimando filosofico di Kierkegaard?
Sì, Kierkegaard in realtà non lo conoscevo bene e, come tante altre persone, ne avevo un’idea come di un pensatore pessimista. Ho però trovato un riferimento al libro di Kierkegaard in un filosofo americano, Stanley Cavell, che nel saggio Alla ricerca della felicità ha cambiato la mia percezione di Kierkegaard. Così mi sono incuriosito ed è stata una sorpresa, perché ho trovato il libro molto divertente, molto moderno, con una struttura molto libera – e me ne sono un po’ innamorato. Mi piace come Kierkegaard parli, all’inizio del suo libro, dell’amore-ripetizione, poiché sembra dirci come l’amore-ripetizione sia più vero di ogni altro: come nella ripetizione, nella ricaduta in qualcosa che già si conosce, ci sia l’amore. Quando inizi una relazione tutto è sconosciuto, è un mistero, non conosci l’altro fino in fondo; nella seconda possibilità d’amore sai già tutto, e così il gesto del ritorno è più forte, più impegnato. E l’ho trovato un concetto molto interessante.
It Happened One Night (Accadde una notte, 1934)
Stavo proprio per citarti Cavell, che in Alla ricerca della felicità (Einaudi, 1999) scrive: «Solo coloro che sono già sposati si possono autenticamente sposare. È come se sapessimo che si è sposati quando si giunge a capire che non si riesce a divorziare, cioè quando si trova che le proprie vite semplicemente non si districano», un passaggio aderente all’andamento narrativo del tuo film. Come identifichi il tuo film dentro la commedia romantica contemporanea, e quali sono i mutamenti del genere rispetto al cinema classico?
Adoro molti libri di Cavell, ma Alla ricerca della felicità è il più stimolante per me. Il frammento che hai letto spiega perfettamente quello che cercavo di dirti prima rispetto alle seconde possibilità, riguardo a quelle coppie che, quando sono vicine al divorzio e decidono di continuare, trovano il vero momento dell’impegno. Per esempio, con Itsaso e Vito ho proposto di rivedere i sette film che Cavell ha raggruppato in questo genere da lui codificato, la cosiddetta «commedia del rimatrimonio». Ho suggerito a Itsaso e Vito di guardare ciascuno di questi sette film per una settimana, prima di iniziare a scrivere la sceneggiatura. È stato molto bello, ogni sera guardavamo insieme It Happened One Night (Accadde una notte, 1934), The Awful Truth (L’orribile verità, 1937), Bringing Up Baby (Susanna!, 1938): ci hanno ispirato molto, ma ci siamo anche resi conto che non potevamo imitarli, era impossibile, perché sono film unici e irripetibili, e appartengono a un momento, a un contesto del cinema americano a noi molto lontano. Non potevamo cadere nel ridicolo per cercare di imitarli, ma semmai stabilire un dialogo con quei film partendo dal nostro contesto, dalla nostra realtà, in Spagna, a Madrid, oggi. Penso inoltre che sia un peccato che le commedie romantiche di oggi siano poco intelligenti, quando alcuni dei migliori film della storia del cinema sono commedie romantiche, girate da registi come Lubitsch, Wilder, Sturges, Capra, McCarey, Hawks. È un genere che si è degradato, mentre i buoni registi contemporanei non osano lavorarci, pensando che sia un genere obsoleto, vecchio, compiendo così un errore di valutazione. Sicuramente è anche un genere molto difficile da realizzare bene: io, a mio modo, ho cercato di farlo, con grande rispetto, cercando di girare un film che fosse divertente ma anche intelligente, ed è il mio modo particolare per provare a rivendicare la nobiltà di questo genere.
Nel film hai scritturato due attori con cui spesso collabori, Vito Sanz e Itsaso Arana (oltre al cameo di Francesco Carril, che compare sul set di Los años nuevos di Rodrigo Sorogoyen). Abbiamo già detto come Sanz e Arana, inoltre, abbiano scritto con te Volveréis: in questo mi ha ricordato le sceneggiature della Before trilogy (1995-2013) di Linklater, a cui hanno sempre partecipato anche Ethan Hawke e Julie Delpy. Qual è il tuo rapporto con degli attori che ritornano costantemente e che sono anche autori, come in quest’ultimo caso? E quanto della tua vita - e della tua vita dentro al cinema - è presente nel film?
Mi piace questa menzione a Linklater e all’intera Before trilogy, a cui sono legato – soprattutto il secondo, Before Sunset (2004). Tutta la trilogia dimostra che tra gli attori e il regista possa crearsi un legame molto forte. E per me quel film è sempre un punto di riferimento, sempre fonte di ispirazione. E con Itsaso e Vito è lo stesso, sono grandi attori che ammiro molto, ma sono anche persone molto unite e amici a cui voglio bene. Mi piace filmarli più e più volte in film diversi, e così mi sembra di vederli crescere. Mi vedo invecchiare con loro e attraverso di loro. Invecchiamo con ogni film, anche con Francesco Carril. Francesco e Vito hanno iniziato a lavorare con me nel 2011 per Los ilusos (2013): per entrambi, è stato il primo film quando erano molto giovani e non sapevano nulla di cinema. È stato molto divertente lavorare con loro e mi è piaciuto molto il modo in cui entrambi sono cresciuti e hanno trovato altri film e altre opere teatrali. Conoscendo molto bene i miei attori, baso i miei film su di loro: per prima cosa so che voglio lavorare con loro e poi penso al film che voglio fare per loro. Costruisco i film attorno a questi amici-attori. Ma non solo, anche attraverso le suggestioni di tutta la crew: in Volveréis abbiamo cercato di compiere una autoparodia delle nostre vite, mostrando quanto il nostro lavoro possa essere contemporaneamente ridicolo e insopportabile, soprattutto quando - come nel film - le vite sentimentali e professionali si incrociano.
Dopo Volveréis hai dei progetti pronti, o che stai immaginando?
Ad ora ho deciso di fermarmi un attimo. Non sto dando per scontato che io debba fare film in continuazione, come se fossi una fabbrica sistematica. Il film parla un po’ anche di questo, della crisi del cinema, che è anche la mia crisi. Sono sempre in crisi con il cinema, lo metto in discussione e metto in discussione anche me stesso. E allo stesso tempo non riesco a smettere di pensare continuamente al cinema e ai film. Scrivo e penso sempre. Sì, credo di avere alcune cose in mente, ma ho sempre cercato di non sognare i film: perché c’è questa idea, quasi un cliché, del cinema dei sogni. Eppure, il film che sogni è sempre molto difficile da realizzare. E quasi impossibile, non può materializzarsi. Forse solo pochi registi molto importanti, come Fellini, Bergman e Kubrick, sono riusciti ad avvicinarsi ai sogni. Ma per i registi più piccoli e umili, come me, il sogno è una trappola. Quindi cerco di non sognare troppo e di non pensare troppo ai film che farò, ma di trovarli osservando la realtà davanti a me: Vito, Itsaso, i miei attori, la mia strada, la mia città. Io vedo questo, lo guardo e con questo faccio il film, e lo scopro. Detto questo, c’è però un film a cui sto pensando da un po’, e non so se riuscirò a realizzarlo. Sarebbe complicato, essendo un film d’epoca che vorrei girare in Italia, Spagna, Francia, Messico, un film itinerante… e non so se ci riuscirò mai. Non ci penso troppo, però, perché potrei innervosirmi se non lo realizzassi. Ecco perché cerco quasi sempre di pensare film possibili, attuabili nella possibilità del mondo che mi circonda. Chiudere i film con argomenti che mi sono vicini, e che non mi causeranno frustrazione.
Il trailer di Volveréis (2024)