TR-96
23.03.2024
Nel corso di A Traveler’s Needs, nuovo capitolo della filmografia di Hong Sang-soo appena approdato alla Berlinale 2024, le protagoniste Isabelle Huppert e Lee Hye-young - che interpretano rispettivamente il ruolo di un’insegnante madrelingua e di una ragazza intenta ad imparare la lingua francofona - ripetono le medesime battute imprigionando il racconto in un loop temporale. Una sorta di “cerchio narrativo” che si esplicita attraverso quella meta-narrazione sulla cui base poggia tutto il lavoro di Hong nei confronti della sua musa “estera” preferita. Isabelle Huppert diventa quindi la chiave per accedere a tutte quelle tipologie di racconto con cui il cineasta coreano si confronta continuamente.
Il regista, soprattutto nel corso dell’ultimo decennio e durante il suo penultimo film - ovvero In Our Day (2023), storia parallela di un’attrice, interpretata dalla sempreverde Kim Min-hee, e di un poeta coltissimo, cui Ki-joo Bong presta il volto - ha progressivamente terremotato il suo stesso cinema sconvolgendolo. Dopo il flusso di coscienza e di auto-analisi di In Water (2023), In Our Day riporta in auge un Hong più terreno, nuovamente attaccato alle piccole cose e concentrato, perlopiù, sul riassaporare la semplicità.
Un excursus apparentemente slegato dalle tre sortite con Isabelle Huppert, ma che in realtà si presenta come un utilissimo mezzo per comprendere la trasformazione del ruolo dell’attrice nel corso della collaborazione con Hong . Infatti, tutti e tre i lavori dove la Huppert appare si caratterizzano per essere dei veri e propri turning point nella carriera del regista, che matura convinzioni diverse e cambia approccio utilizzando proprio l’interprete francese come una “cartina tornasole” per i suoi esperimenti.
Un approccio che ha stupito anche la stessa Isabelle, il cui metodo è cambiato radicalmente proprio in concomitanza alla collaborazione con Hong Sang-soo. La Huppert è sempre stata un’attrice estremamente metodica, conosciuta soprattutto per la sua disinvoltura nel calarsi in ruoli particolarmente difficili da interpretare. L’attrice francese ha sempre regalato delle interpretazioni iconiche sopratutto all’interno di contesti che favoriscono il palesamento delle sue capacità attoriali in sottrazione. I ruoli che tornano subito in mente, proprio all’interno di quest’ambito, sono quelli relativi al binomio composto da Claude Chabrol e Michael Haneke.
Sotto la direzione di questi due grandi maestri, Isabelle Huppert è riuscita a dare corpo ad un mood perturbante che si sprigiona, sopratutto, tramite lo sguardo. Sia nell’interpretazione di Violette Nozière (1978), in cui riesce ad infondere al suo personaggio una certa ambiguità di base solamente grazie al potere dei suoi occhi, contemporaneamente assenti e penetranti e, in questo modo, ambivalenti, che in quella legata al più famigerato La Pianiste (2001), dove, nell’interpretare la repressione sessuale di un’insegnante di pianoforte, si impone sullo schermo grazie al suo viso pulito - che manovra tramite espressioni davvero particolari e glaciali - e ai modi eleganti e posati della sua recitazione, la Huppert riesce a creare sfaccettature impossibili da replicare.
Non è difficile comprendere come la fama dell’attrice sia legata perlopiù al carattere eversivo dei suoi personaggi, una caratteristica che emerge in qualsiasi momento. Inevitabilmente, quest’attitudine lega la sua presenza sullo schermo ad atteggiamenti decisamente estremi, che si palesano nel corso delle sue varie apparizioni cinematografiche. Proprio per questo motivo la Huppert si è fatta più volte carico della voce di un’interiorità femminile dalle molteplici sfaccettature, che grazie al suo talento occupano uno spettro vastissimo. Una “scala emozionale”, che va dall’umorismo caustico e beffardo all’alienazione/sfiducia nei confronti del genere umano, che si può apprezzare pienamente nel crudele La cérémonie (1995) di Chabrol, in cui l’attrice duetta in modo inquietante con la mitica Sandrine Bonnaire, un ruolo che le sarà d’ispirazione anche per la psicopatia “verhoeveniana” di Elle (2016).
L’aspetto che rende questa riflessione ulteriormente interessante è proprio come quest’iconicità che, sotto un certo punto di vista, ha “formato” e plasmato la Huppert attrice all’interno dell’immaginario cinematografico, nei film di Hong Sang-soo sia repressa o, addirittura in un paio di casi, sovvertita radicalmente. L’opera di Hong si caratterizza proprio per essere qualcosa di nuovo da affrontare, una sfida dalla quale la Huppert esce vincitrice dopo aver operato una notevole trasformazione nel modo di agire nella dimensione diegetica. Il rapporto tra Hong e Huppert su schermo è davvero molto particolare, e si differenzia radicalmente da ogni tipologia di lavoro che il regista ha realizzato nel corso del tempo con le sue muse ispiratrici coreane, dalla sempreverde Lee Hye-young alla famigerata Kim Min-hee.
Hong trasforma e piega le esigenze dei suoi drammi e delle sue commedie allo stato d’animo della Huppert e viceversa. Il lavoro dell’attrice è ambivalente. Da un certo punto di vista, è come se la Huppert portasse sullo schermo una maschera comica - come nel caso di In Another Country (2012) - degna delle slapstick d’altri tempi, in cui l’effetto delle sue “espressioni gelide” si inverte radicalmente prestandosi a quella buona dose di straniamento e comicità leggera che richiama, non a caso, proprio le commedie morali del compianto Eric Rohmer, regista cardine della Nouvelle Vague e da sempre grande fonte d’ispirazione per il cinema di Hong Sang-soo. Anche la scelta dell’attrice è più di una semplice coincidenza, data la sua propensione a lavorare fin da giovanissima con maestri come Jean-Luc Godard e Claude Sautet. Il cineasta agisce così per meronimia, utilizzando il profilo della Huppert per identificare, su schermo, il grande amore che nutre per la Francia.
D’altro canto, invece, proprio con il suo lavoro di mimica, l’apparente coltre di glacialità dell’attrice francese agevola il rapporto uomo-donna che è alla base del cinema di Hong. Il maschio honghiano, come da tradizione, ne resta soggiogato e la rende oggetto del proprio desiderio, affascinato dalla sua fisicità e dallo charme che la sua “attitudine esterofila” sprigiona. Isabelle Huppert si fa dunque diva corrispettiva di un’altra grande attrice-feticcio del regista, ovvero Kim Min-hee, interprete a cui Hong Sang-soo è legato e proprio per questo suo perfetto contraltare.
Il dualismo si ripercuote in scena proprio nell’unico film in cui collaborano insieme, Claire’s Camera (2017), dove il substrato si fa decisamente più teorico e realista. La coppia, infatti, diventa un corrispettivo, scanzonato e leggero, delle protagoniste di un capolavoro della storia del cinema: Persona (1966) di Ingmar Bergman. La bravura di Hong Sang-soo sta infatti proprio nel riproporre il binomio tra arte e vita e tra finzione e realtà in modo giocoso, scardinando l’immagine afflitta e drammatica di Isabelle Huppert per condurla su un territorio ben più ironico, in cui il meta-cinema rappresenta un’opportunità d’incontro tra culture e retaggi completamente differenti.
Il lavoro della Huppert, in tutto ciò, si ramifica, e l’approccio diventa anti-tetico nel corso dei film. Se in In Another Country, l’attrice francese appare divertita e cavalca l’ironia e la spensieratezza “letteraria” del cinema del regista coreano, donando freschezza al suo modo di stare davanti alla macchina da presa e creando un alter ego effettivo dei personaggi maschili di Hong, in Claire’s Camera i connotati della sua recitazione cambiano radicalmente. La coppia formata da lei e Kim Min-hee si trasforma in un modello che ripercorre la psicologia delle eroine bergmaniane, riposizionando in maniera più spensierata e beffarda quel dualismo che il maestro svedese creò, a suo tempo, tra le attrici Bibi Andersson e Liv Ullmann.
Lo scontro tra le due, contrariamente al capolavoro del 1966, non si basa però su un amore omosessuale e nemmeno sulla funzione principale della maschera all’interno del pamphlet teatrale. Hong Sang-soo agisce su un registro molto meno gravoso rispetto a Bergman, ma non ne tralascia le riflessioni più recondite legate al cinema. Infatti, è solo tramite lo scontro/incontro tra Huppert e Kim, simboleggiante anche un confronto tra modi d’intendere la vita decisamente differenti, che il binomio tra arte ed esistenza prende forma all’interno del racconto, trasformando così l’immagine dolente dell’attrice francese in un oggetto maggiormente auto-ironico e, proprio per questo, più digeribile dallo spettatore stesso.
Hong, di fatto, disinnesca in modo netto ogni tentativo di drammatizzazione della recitazione attraverso l’utilizzo del dispositivo meta-cinematografico, che di fatto “libera” Isabelle Huppert dal processo d’immedesimazione forzata nelle sue protagoniste, permettendole di agire in maggiore libertà . Ed è per questo motivo che in In Another Country, l’attrice dà vita al suo personaggio strampalato e stralunato, il quale diventa maschera precisa dell’intento del regista: manovrare la capacità della sua attrice “estera” in funzione della distanza linguistica e culturale. Lo sfasamento, in questo senso, è garantito anche dalla ripetizione ossessiva e totalmente buffa di alcuni atteggiamenti della stessa Huppert.
L’attrice dunque si astrae volontariamente dal contesto narrativo, diventa un corpo estraneo, soggetto di un’impossibilità d’immedesimazione nello spazio scenico, che si ripercuote anche nella narrativa del film. Per sottolineare questo senso di straniamento, Hong utilizza uno stratagemma molto intelligente, una scelta semplice, ma a dir poco efficace: la mancanza di sottotitoli nei dialoghi in coreano, un trucco che permette allo spettatore di immedesimarsi ulteriormente nelle situazioni vissute dalla Huppert e di sperimentarle a sua volta sulla propria pelle, permettendogli di comprendere lo smarrimento della protagonista, la quale si caratterizza come una vera e propria “stranger in a strange land”.
Nel nuovo film del maestro coreano, A Traveler’s Needs, questa propensione all’astrazione dalla situazione si nota ulteriormente. Cambia, però, il metodo che Hong utilizza con la Huppert per permettere allo spettatore di superare questa “barriera” e semplificarla. Infatti, vi sono veri e propri pezzi di dialogo in inglese che risultano ripetuti a più intervalli nel corso dell’opera, portando il pubblico a vivere un nuovo stallo, dopo quello già affrontato nel corso del precedente In Our Day.
Qui il ruolo della Huppert cambia radicalmente. Rispetto alle precedenti collaborazioni - dove la vediamo vittima di un ambiente in cui ha difficoltà ad inserirsi - nel film approdato alla Berlinale 2024 la sua funzione all’interno del racconto si fa decisamente più psicologica e teoricamente pregnante. Attraverso il personaggio di Iris, infatti, Hong porta avanti un’indagine sul suo stesso cinema. Isabelle Huppert si trasforma, nella pratica, in colei che interroga il regista sulla propria forma cinematografica, uno studio che porta a risultati molto interessanti e davvero singolari.
Nel corso di A Traveler’s Needs, infatti, in più e più occasioni sia l’attrice francese che Lee Hye-young, la quale presta il volto ad una delle due allieve della maestra di francese interpretata dalla Huppert, rivolgono e ripassano le stesse battute, come una sorta di copione/lezione (nella fattispecie, si tratta di un botta e risposta: “Do you feel proud of it?” “I felt happy inside.”) mediante il quale Hong realizza un controcampo ideale di In Another Country e trasforma Isabelle Huppert in uno strumento per evidenziare, in modo giocoso, la ripetizione quasi ossessiva del suo cinema.
La Huppert, dunque, permette all’autore coreano di materializzare sé stesso su schermo, di ironizzare sulla propria poetica e sul proprio modo di utilizzare la macchina da presa, sulla propria attitudine da seguace di un certo cinema letterario che, ad occhi indiscreti e poco allenati, apparrebbe fuori tempo massimo, ma che in realtà con pochissimi elementi riesce ancora a restituire allo spettatore la capacità di fare cinema sfruttando la letteratura e giocando con la narrativa stessa.
TR-96
23.03.2024
Nel corso di A Traveler’s Needs, nuovo capitolo della filmografia di Hong Sang-soo appena approdato alla Berlinale 2024, le protagoniste Isabelle Huppert e Lee Hye-young - che interpretano rispettivamente il ruolo di un’insegnante madrelingua e di una ragazza intenta ad imparare la lingua francofona - ripetono le medesime battute imprigionando il racconto in un loop temporale. Una sorta di “cerchio narrativo” che si esplicita attraverso quella meta-narrazione sulla cui base poggia tutto il lavoro di Hong nei confronti della sua musa “estera” preferita. Isabelle Huppert diventa quindi la chiave per accedere a tutte quelle tipologie di racconto con cui il cineasta coreano si confronta continuamente.
Il regista, soprattutto nel corso dell’ultimo decennio e durante il suo penultimo film - ovvero In Our Day (2023), storia parallela di un’attrice, interpretata dalla sempreverde Kim Min-hee, e di un poeta coltissimo, cui Ki-joo Bong presta il volto - ha progressivamente terremotato il suo stesso cinema sconvolgendolo. Dopo il flusso di coscienza e di auto-analisi di In Water (2023), In Our Day riporta in auge un Hong più terreno, nuovamente attaccato alle piccole cose e concentrato, perlopiù, sul riassaporare la semplicità.
Un excursus apparentemente slegato dalle tre sortite con Isabelle Huppert, ma che in realtà si presenta come un utilissimo mezzo per comprendere la trasformazione del ruolo dell’attrice nel corso della collaborazione con Hong . Infatti, tutti e tre i lavori dove la Huppert appare si caratterizzano per essere dei veri e propri turning point nella carriera del regista, che matura convinzioni diverse e cambia approccio utilizzando proprio l’interprete francese come una “cartina tornasole” per i suoi esperimenti.
Un approccio che ha stupito anche la stessa Isabelle, il cui metodo è cambiato radicalmente proprio in concomitanza alla collaborazione con Hong Sang-soo. La Huppert è sempre stata un’attrice estremamente metodica, conosciuta soprattutto per la sua disinvoltura nel calarsi in ruoli particolarmente difficili da interpretare. L’attrice francese ha sempre regalato delle interpretazioni iconiche sopratutto all’interno di contesti che favoriscono il palesamento delle sue capacità attoriali in sottrazione. I ruoli che tornano subito in mente, proprio all’interno di quest’ambito, sono quelli relativi al binomio composto da Claude Chabrol e Michael Haneke.
Sotto la direzione di questi due grandi maestri, Isabelle Huppert è riuscita a dare corpo ad un mood perturbante che si sprigiona, sopratutto, tramite lo sguardo. Sia nell’interpretazione di Violette Nozière (1978), in cui riesce ad infondere al suo personaggio una certa ambiguità di base solamente grazie al potere dei suoi occhi, contemporaneamente assenti e penetranti e, in questo modo, ambivalenti, che in quella legata al più famigerato La Pianiste (2001), dove, nell’interpretare la repressione sessuale di un’insegnante di pianoforte, si impone sullo schermo grazie al suo viso pulito - che manovra tramite espressioni davvero particolari e glaciali - e ai modi eleganti e posati della sua recitazione, la Huppert riesce a creare sfaccettature impossibili da replicare.
Non è difficile comprendere come la fama dell’attrice sia legata perlopiù al carattere eversivo dei suoi personaggi, una caratteristica che emerge in qualsiasi momento. Inevitabilmente, quest’attitudine lega la sua presenza sullo schermo ad atteggiamenti decisamente estremi, che si palesano nel corso delle sue varie apparizioni cinematografiche. Proprio per questo motivo la Huppert si è fatta più volte carico della voce di un’interiorità femminile dalle molteplici sfaccettature, che grazie al suo talento occupano uno spettro vastissimo. Una “scala emozionale”, che va dall’umorismo caustico e beffardo all’alienazione/sfiducia nei confronti del genere umano, che si può apprezzare pienamente nel crudele La cérémonie (1995) di Chabrol, in cui l’attrice duetta in modo inquietante con la mitica Sandrine Bonnaire, un ruolo che le sarà d’ispirazione anche per la psicopatia “verhoeveniana” di Elle (2016).
L’aspetto che rende questa riflessione ulteriormente interessante è proprio come quest’iconicità che, sotto un certo punto di vista, ha “formato” e plasmato la Huppert attrice all’interno dell’immaginario cinematografico, nei film di Hong Sang-soo sia repressa o, addirittura in un paio di casi, sovvertita radicalmente. L’opera di Hong si caratterizza proprio per essere qualcosa di nuovo da affrontare, una sfida dalla quale la Huppert esce vincitrice dopo aver operato una notevole trasformazione nel modo di agire nella dimensione diegetica. Il rapporto tra Hong e Huppert su schermo è davvero molto particolare, e si differenzia radicalmente da ogni tipologia di lavoro che il regista ha realizzato nel corso del tempo con le sue muse ispiratrici coreane, dalla sempreverde Lee Hye-young alla famigerata Kim Min-hee.
Hong trasforma e piega le esigenze dei suoi drammi e delle sue commedie allo stato d’animo della Huppert e viceversa. Il lavoro dell’attrice è ambivalente. Da un certo punto di vista, è come se la Huppert portasse sullo schermo una maschera comica - come nel caso di In Another Country (2012) - degna delle slapstick d’altri tempi, in cui l’effetto delle sue “espressioni gelide” si inverte radicalmente prestandosi a quella buona dose di straniamento e comicità leggera che richiama, non a caso, proprio le commedie morali del compianto Eric Rohmer, regista cardine della Nouvelle Vague e da sempre grande fonte d’ispirazione per il cinema di Hong Sang-soo. Anche la scelta dell’attrice è più di una semplice coincidenza, data la sua propensione a lavorare fin da giovanissima con maestri come Jean-Luc Godard e Claude Sautet. Il cineasta agisce così per meronimia, utilizzando il profilo della Huppert per identificare, su schermo, il grande amore che nutre per la Francia.
D’altro canto, invece, proprio con il suo lavoro di mimica, l’apparente coltre di glacialità dell’attrice francese agevola il rapporto uomo-donna che è alla base del cinema di Hong. Il maschio honghiano, come da tradizione, ne resta soggiogato e la rende oggetto del proprio desiderio, affascinato dalla sua fisicità e dallo charme che la sua “attitudine esterofila” sprigiona. Isabelle Huppert si fa dunque diva corrispettiva di un’altra grande attrice-feticcio del regista, ovvero Kim Min-hee, interprete a cui Hong Sang-soo è legato e proprio per questo suo perfetto contraltare.
Il dualismo si ripercuote in scena proprio nell’unico film in cui collaborano insieme, Claire’s Camera (2017), dove il substrato si fa decisamente più teorico e realista. La coppia, infatti, diventa un corrispettivo, scanzonato e leggero, delle protagoniste di un capolavoro della storia del cinema: Persona (1966) di Ingmar Bergman. La bravura di Hong Sang-soo sta infatti proprio nel riproporre il binomio tra arte e vita e tra finzione e realtà in modo giocoso, scardinando l’immagine afflitta e drammatica di Isabelle Huppert per condurla su un territorio ben più ironico, in cui il meta-cinema rappresenta un’opportunità d’incontro tra culture e retaggi completamente differenti.
Il lavoro della Huppert, in tutto ciò, si ramifica, e l’approccio diventa anti-tetico nel corso dei film. Se in In Another Country, l’attrice francese appare divertita e cavalca l’ironia e la spensieratezza “letteraria” del cinema del regista coreano, donando freschezza al suo modo di stare davanti alla macchina da presa e creando un alter ego effettivo dei personaggi maschili di Hong, in Claire’s Camera i connotati della sua recitazione cambiano radicalmente. La coppia formata da lei e Kim Min-hee si trasforma in un modello che ripercorre la psicologia delle eroine bergmaniane, riposizionando in maniera più spensierata e beffarda quel dualismo che il maestro svedese creò, a suo tempo, tra le attrici Bibi Andersson e Liv Ullmann.
Lo scontro tra le due, contrariamente al capolavoro del 1966, non si basa però su un amore omosessuale e nemmeno sulla funzione principale della maschera all’interno del pamphlet teatrale. Hong Sang-soo agisce su un registro molto meno gravoso rispetto a Bergman, ma non ne tralascia le riflessioni più recondite legate al cinema. Infatti, è solo tramite lo scontro/incontro tra Huppert e Kim, simboleggiante anche un confronto tra modi d’intendere la vita decisamente differenti, che il binomio tra arte ed esistenza prende forma all’interno del racconto, trasformando così l’immagine dolente dell’attrice francese in un oggetto maggiormente auto-ironico e, proprio per questo, più digeribile dallo spettatore stesso.
Hong, di fatto, disinnesca in modo netto ogni tentativo di drammatizzazione della recitazione attraverso l’utilizzo del dispositivo meta-cinematografico, che di fatto “libera” Isabelle Huppert dal processo d’immedesimazione forzata nelle sue protagoniste, permettendole di agire in maggiore libertà . Ed è per questo motivo che in In Another Country, l’attrice dà vita al suo personaggio strampalato e stralunato, il quale diventa maschera precisa dell’intento del regista: manovrare la capacità della sua attrice “estera” in funzione della distanza linguistica e culturale. Lo sfasamento, in questo senso, è garantito anche dalla ripetizione ossessiva e totalmente buffa di alcuni atteggiamenti della stessa Huppert.
L’attrice dunque si astrae volontariamente dal contesto narrativo, diventa un corpo estraneo, soggetto di un’impossibilità d’immedesimazione nello spazio scenico, che si ripercuote anche nella narrativa del film. Per sottolineare questo senso di straniamento, Hong utilizza uno stratagemma molto intelligente, una scelta semplice, ma a dir poco efficace: la mancanza di sottotitoli nei dialoghi in coreano, un trucco che permette allo spettatore di immedesimarsi ulteriormente nelle situazioni vissute dalla Huppert e di sperimentarle a sua volta sulla propria pelle, permettendogli di comprendere lo smarrimento della protagonista, la quale si caratterizza come una vera e propria “stranger in a strange land”.
Nel nuovo film del maestro coreano, A Traveler’s Needs, questa propensione all’astrazione dalla situazione si nota ulteriormente. Cambia, però, il metodo che Hong utilizza con la Huppert per permettere allo spettatore di superare questa “barriera” e semplificarla. Infatti, vi sono veri e propri pezzi di dialogo in inglese che risultano ripetuti a più intervalli nel corso dell’opera, portando il pubblico a vivere un nuovo stallo, dopo quello già affrontato nel corso del precedente In Our Day.
Qui il ruolo della Huppert cambia radicalmente. Rispetto alle precedenti collaborazioni - dove la vediamo vittima di un ambiente in cui ha difficoltà ad inserirsi - nel film approdato alla Berlinale 2024 la sua funzione all’interno del racconto si fa decisamente più psicologica e teoricamente pregnante. Attraverso il personaggio di Iris, infatti, Hong porta avanti un’indagine sul suo stesso cinema. Isabelle Huppert si trasforma, nella pratica, in colei che interroga il regista sulla propria forma cinematografica, uno studio che porta a risultati molto interessanti e davvero singolari.
Nel corso di A Traveler’s Needs, infatti, in più e più occasioni sia l’attrice francese che Lee Hye-young, la quale presta il volto ad una delle due allieve della maestra di francese interpretata dalla Huppert, rivolgono e ripassano le stesse battute, come una sorta di copione/lezione (nella fattispecie, si tratta di un botta e risposta: “Do you feel proud of it?” “I felt happy inside.”) mediante il quale Hong realizza un controcampo ideale di In Another Country e trasforma Isabelle Huppert in uno strumento per evidenziare, in modo giocoso, la ripetizione quasi ossessiva del suo cinema.
La Huppert, dunque, permette all’autore coreano di materializzare sé stesso su schermo, di ironizzare sulla propria poetica e sul proprio modo di utilizzare la macchina da presa, sulla propria attitudine da seguace di un certo cinema letterario che, ad occhi indiscreti e poco allenati, apparrebbe fuori tempo massimo, ma che in realtà con pochissimi elementi riesce ancora a restituire allo spettatore la capacità di fare cinema sfruttando la letteratura e giocando con la narrativa stessa.