
INT-102
22.07.2025
Tra i cineasti giapponesi più prolifici e poliedrici degli ultimi anni, Koji Fukada si è costruito una solida reputazione nel circuito dei festival internazionali, dove la sua presenza è ormai una costante. Alla scorsa edizione del Festival di Cannes, il regista è tornato con Love on Trial, un dramma che, pur presentandosi con toni più sobri rispetto a titoli come Harmonium (2016) o Love Life (2022), mantiene intatte alcuni punti cardini della sua poetica, tra cui l’indagine psicologica, l’ambiguità morale e la critica velata ma incisiva ai codici sociali che regolano il comportamento individuale.
Love on Trial racconta la storia di Mai, giovane idol appartenente al gruppo in rapida ascesa Happy Fanfare. La carriera della cantante è destinata a prendere una piega drammatica quando la sua relazione con Kei, artista di strada dallo spirito libero, viene scoperta. Un amore che, in qualsiasi altro contesto, non desterebbe scandalo; ma per un’idol giapponese, vincolata dalla clausola contrattuale “no romance”, questa semplice relazione diventa il punto di rottura. La conseguenza non è solo la fine della sua carriera, ma anche un processo legale che mette in discussione il diritto stesso di amare.
Sebbene il tono di Love on Trial sia meno teso, la sua forza risiede nell’approccio introspettivo e nella molteplicità di sguardi da cui la storia è raccontata - non solo quello di Mai, ma anche delle sue compagne, come Nanaka, giovane star emergente, emblema di una nuova generazione già intrappolata nei meccanismi della celebrità.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Koji Fukada, che ci ha raccontato del suo percorso di scoperta attorno al mondo delle idol e della cultura, spesso tossica, che circonda gli artisti del J-pop, approfondendo anche le scelte narrative che collegano Love on Trial alle tematiche già presenti nei suoi film precedenti.

Love on Trial (2025)
Qual è stato il punto di partenza del film? Ti sei ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto?
Tutto è cominciato nel 2015, quando lessi un articolo che raccontava la storia di una idol denunciata dalla sua agenzia per aver violato la “no romance rule” presente nel contratto. Conoscevo vagamente questa dinamica, pensavo fosse più una regola non scritta nella cultura idol giapponese, ma non immaginavo che potesse essere imposta formalmente in un contratto. La cosa mi colpì molto, anche perché ci fu davvero un processo. Non ho trasformato direttamente quella vicenda nel film, ma è stato un punto di partenza che ha ispirato la storia. Da lì ho iniziato a scrivere e, soprattutto, a fare ricerche: ho parlato con agenzie, manager, idol ancora attive e anche con chi ha deciso di ritirarsi.
Sei mai stato un fan della cultura idol?
No, a dire il vero. Quando andavo a scuola ricordo che c’era questo gruppo idol molto popolare tra i miei coetanei, credo sia stato l’unico momento in cui mi sono avvicinato a quel mondo. Ma non ero un fan sfegatato come altri. Proprio per questo ho dovuto fare molte ricerche sul tema, e ho iniziato anche ad andare ad ascoltare dal vivo diverse performance di gruppi idol.
Cosa hai pensato di questo mondo durante la tua fase di ricerca?
È risultato molto più strano e complesso di quanto mi aspettassi. La cosa che mi ha colpito di più è stato il livello di esposizione a cui gli idol sono costantemente sottoposti, e ai rischi che ne derivano. Poi c’è tutta la struttura gerarchica che regola questo ambiente, e il rapporto a tre tra agenzia, idol e pubblico: un meccanismo che ho trovato molto interessante.
Come persona esterna a questo mondo, secondo te qual è l’appeal della cultura idol?
Penso che dipenda molto da persona a persona. Certo, ci sono fan ossessivi, ma esistono anche persone che riescono a mantenere una certa distanza nella relazione con l’artista. Alcuni fan credono davvero di avere una sorta di legame romantico con l’idol che seguono. Ovviamente, per me non è così: non sono un fan, sono solo un osservatore esterno.
Questa fissazione è anche alimentata dalle agenzie, come se volessero creare un’attenzione morbosa verso gli artisti.
Sì, sono d’accordo. Credo che siano proprio le agenzie a spingere i fan a sviluppare questo tipo di relazione pseudo-romantica.
Il film colpisce anche per il modo in cui si trasforma in un courtroom drama nella seconda parte. Qual è il tuo rapporto con questo genere?
In realtà mi piace molto. Detto questo, Love on Trial contiene scene ambientate in tribunale, ma si tratta di una corte civile, quindi l’atmosfera è diversa rispetto a quella dei legal drama classici, con grandi colpi di scena e tensione. Non volevo approcciarmi al genere in modo tradizionale, ho cercato piuttosto di ricreare un contesto realistico, modesto, più vicino a quello che accade davvero nei tribunali giapponesi.

Com’è stato creare il gruppo idol per il film? È stato impegnativo?
Per nulla. Anzi, è stata una parte molto divertente del processo. Anche se si tratta di un gruppo idol, il mio obiettivo era quello di costruire una realtà credibile, qualcosa che potesse coinvolgere anche uno spettatore straniero, magari lontano da questo tipo di musica. Ho lavorato con una crew fantastica. Kyoko Saito, che interpreta Mai, è un’ex idol e aveva già esperienza alle spalle. La sua presenza ha dato al personaggio una profondità e autenticità che hanno fatto davvero la differenza.
Pensi che il film possa creare un dibattito all’interno dell’industria delle idol?
Non mi piace molto il fatto che questa industria costruisca delle pseudo-relazioni tra gli idol e i fan, mentre allo stesso tempo proibisce agli idol di avere relazioni sentimentali reali. Ma come regista, mi attengo all’etica del mio mestiere: voglio che sia il pubblico a trarre le proprie conclusioni, a formarsi un’opinione su questo argomento. Non ho cercato di imporre il mio punto di vista personale. Detto questo, spero davvero che il film possa generare una discussione e portare a una riflessione più profonda sulla figura dell’idol e su come viene trattata all’interno di questo sistema.
Da una prospettiva occidentale, questa relazione imposta tra fan e idol può sembrare quasi inquietante, come se si volesse sfruttare la solitudine di una parte del pubblico.
La cultura delle idol, almeno in Giappone, ha radici molto profonde, risale agli anni Sessanta, quindi non è qualcosa di nuovo per la nostra società. È interessante osservare come, nell’industria pop occidentale, ci siano dinamiche molto diverse, e credo che questo dipenda in gran parte dalle differenze culturali. Non si tratta solo della cultura idol, ma in generale, in Giappone c’è una tendenza sociale a richiedere certi standard di comportamento, soprattutto alle donne: purezza, modestia, riservatezza. Questo è un aspetto fondamentale, secondo me, per comprendere come viene costruita e gestita la figura dell’idol.
Ho notato che nella parte iniziale del film sei molto attento a mostrare che è l'inizio del percorso delle protagoniste. Anche la formazione del loro gruppo, o il look un po' trasandato… tutto è rappresentato in modo piuttosto sobrio. È chiaro, anche per chi non conosce il mondo delle idol, che siamo all'inizio della loro vita e del loro viaggio.
Sì, in effetti Happy Fanfare, il gruppo idol nel film, all’inizio non è affatto al vertice della popolarità. Si trovano un po’ nella fascia media, forse addirittura nella parte bassa di quella fascia. E naturalmente, la storia ruota attorno a un’agenzia che fa causa a un’idol. Non credo che tutte le agenzie in Giappone farebbero davvero una cosa del genere, non tutte arriverebbero a chiedere i danni in tribunale. Mi sembrava però che dovesse trattarsi di un certo tipo di agenzia, non una delle grandi e affermate, ma piuttosto una realtà più piccola, magari indipendente. Un’agenzia di media o bassa fascia avrebbe reso più credibile l’idea che potesse arrivare a fare causa a un’idol per danni.
Il titolo internazionale del film è Love on Trial, il che è un po' fuorviante. Non si ha quella classica concezione legata alla parola “amore”, come se ci fosse un lato sarcastico dietro a quel titolo, eri consapevole di questo?
Il titolo giapponese è “un processo sul romanticismo”, credo che sia letteralmente qualcosa del genere. Ed è interessante, naturalmente, perché l’amore non dovrebbe essere qualcosa da giudicare in tribunale, ma qualcosa di intimo. Potrebbe essere un segreto tra due persone. Invece, in modo molto clinico, aperto, questo amore viene discusso in aula da avvocati. E così, quel sentimento intimo e personale che è l’amore, o il sentimento amoroso, diventa qualcosa di più sistematico, o perlomeno sembra diventare qualcosa di più sistematico. Quindi sì, ero consapevole di questo.

Mai (Kioko Saito) in una scena del film
Di solito nei tuoi film, se penso a Harmonium o Love Life, ci sono questo tipo di sconvolgimenti che portano a cambiamenti drastici nel personaggio principale. Ma qui, in Love on Trial, è piuttosto diverso perché il personaggio di Mai è consapevole delle conseguenze delle sue azioni. Eri consapevole di questo cambiamento narrativo?
Si, assolutamente. Il film, di per sé, ha questa triplice visione sull’industria degli Idol. Si ha Mai, poi Risa, la ragazza che vuole diventare una cantautrice indipendente, ed infine Nanaka, la giovane del gruppo che decide di troncare la sua relazione per dedicarsi alla carriera. Mai, invece, si innamora e va a processo mentre Nanaka diventa sempre più famosa per via della propria scelta. Le loro scelte, a differenza delle mie precedenti opere, sono già stabilite, non c’è un evento catastrofico che le condiziona. Inoltre, mostrare un punto di vista maschile prevalente come quello di Kei, non avrebbe giovato all’opera, più che altro perché il film è più una sorta di storia di crescita e risveglio della protagonista.
C’è un’ironia nel film, perché nel contratto è vietata una relazione romantica con una persona del sesso opposto. Ma non viene nemmeno presa in considerazione la possibilità dell’omosessualità. Perché?
Ottima osservazione. In effetti, ho consultato alcuni contratti reali di agenzie con idol e, quando contenevano quella clausola, proprio come hai detto, specificavano il sesso opposto. Ci siamo detti come fosse incredibile quanto siamo indietro come società, al punto da non riuscire nemmeno a immaginare che una relazione tra persone dello stesso sesso possa essere una possibilità. Che si tratti dello stesso sesso o qualsiasi altro genere. È sconfortante sì, ho sentito voci secondo cui alcuni di questi contratti sono stati aggiornati. Ora includerebbero qualsiasi genere.
Cosa ci puoi dire sul casting di Keiko Saito? Prima citavi che è un’ex idol, c’erano altre opzioni oltre a lei?
Abbiamo fatto dei provini, stavamo valutando anche altre attrici, ma lei era la migliore. Curiosamente, per essere stata una idol giapponese, ha un registro vocale molto basso. Quindi è leggermente distante da quello che in Giappone consideriamo lo stereotipo della classica idol femminile. Ho trovato questo interessante e naturalmente ha anche capacità attoriali. Ma soprattutto aveva l’esperienza diretta di essere stata un’idol, in contrasto con Nanaka, la più giovane del gruppo, quella che si lascia con il fidanzato. Lei rappresenta più il tipo classico di idol che immaginiamo in Giappone, voce più acuta ed un aspetto più “carino” (cutesy, n.d.r.).
Cosa deve avere un idol per essere considerato tale?
È una domanda difficile non riesco davvero a rispondere con una sola parola. Alcuni direbbero qualcosa come “carino”, soprattutto quando si parla di idol femminili, ma non è così semplice. Ultimamente ho parlato con molte idol giovani, e quello che ho notato è che ci sono davvero tanti tipi diversi di gruppi idol. Circa 10 o 15 anni fa, c’era in realtà più varietà nel panorama idol. Ma oggi, per quanto riguarda i gruppi femminili, sembra ci sia una tendenza verso quello che in Giappone viene chiamato azatoi kawaii, cioè “carino in modo deliberato”. Non si tratta solo di essere carine in modo naturale, ma di giocare consapevolmente con questa “carineria”. Mi è stato detto che questo tipo di immagine è sempre più diffuso. Inoltre, molti giovani talenti giapponesi che vogliono davvero perfezionare le proprie abilità nel canto e nella danza scelgono di entrare nel mondo del K-pop. Quindi è difficile dire in modo assoluto cosa serva per essere un idol: dipende molto dal gruppo, dallo stile e anche dal Paese. In Giappone, rispetto alla Corea, spesso c’è meno enfasi sulle capacità tecniche. Non è sempre così, ci sono anche gruppi idol giapponesi che danno grande importanza al talento, ma in generale il K-pop punta di più su ciò che si definisce kakkoi, cioè “cool”, sofisticato, con un’immagine più raffinata. In Giappone invece, il concetto di kawaii, cioè la carineria, è ancora molto ricercato.

Kei (Yuki Kura) e Mai (Kyoko Saito) in Love on Trial (2025)
Cosa puoi dirmi del personaggio di Kei? Da cosa nasce la scelta di renderlo un mago?
In realtà lo definirei più come uno street performer. Quando stavo pensando al personaggio di Kei, ho considerato varie possibilità per la sua professione, ma volevo che rappresentasse un contrasto netto con quella dell’idol. Da un lato abbiamo l’industria dell’intrattenimento, con dinamiche ben precise tra fan e artista, sistematicamente orchestrate dalle agenzie per ottenere soprattutto un ritorno economico. Dall’altro, uno street performer che si esibisce davanti a poche persone, e che viene ricompensato in base a quanto lo spettatore ha apprezzato la sua performance. È un’interazione molto più semplice e diretta. Il mio obiettivo era proprio quello di far emergere, attraverso questo contrasto, alcune delle caratteristiche più evidenti (e più problematiche) dell’industria idol.
All’inizio del film c’è questa scena in cui l’artista di strada comincia a fluttuare nell’aria. Quali sono state le tue principali ispirazioni visive? Mi sono venuti in mente i musical anni ’50, come quelli di Stanley Donen.
È una bella lettura, e sì, quella scena potrebbe essere interpretata anche come un’illusione nata dall’amore crescente di Mai per Kei. Dal punto di vista visivo, ho voluto usare immagini classiche, come quelle dei musical di quell’epoca. Questo tipo di “magia” può esistere solo nel cinema. Era proprio questo ciò che volevo ottenere: rappresentare un amore magico, ma farlo in maniera profondamente cinematografica. Da lì è nata l’idea di quella scena.
Vorrei concludere chiedendoti delle canzoni create appositamente per il film. Cosa ne pensi? Credi che possano avere successo in Giappone?
Non posso dirlo con certezza, ma lo spero davvero! Abbiamo collaborato con Asia Springs, un gruppo che lavora spesso con artisti K-pop e J-pop, quindi conoscono bene il panorama musicale asiatico. Sono loro gli autori delle canzoni del film. L’intento era creare musica che potesse essere apprezzata non solo come parte della colonna sonora, ma anche come brani da ascoltare indipendentemente, e magari anche amare.
Una clip da Love on Trail (2025)
INT-102
22.07.2025
Tra i cineasti giapponesi più prolifici e poliedrici degli ultimi anni, Koji Fukada si è costruito una solida reputazione nel circuito dei festival internazionali, dove la sua presenza è ormai una costante. Alla scorsa edizione del Festival di Cannes, il regista è tornato con Love on Trial, un dramma che, pur presentandosi con toni più sobri rispetto a titoli come Harmonium (2016) o Love Life (2022), mantiene intatte alcuni punti cardini della sua poetica, tra cui l’indagine psicologica, l’ambiguità morale e la critica velata ma incisiva ai codici sociali che regolano il comportamento individuale.
Love on Trial racconta la storia di Mai, giovane idol appartenente al gruppo in rapida ascesa Happy Fanfare. La carriera della cantante è destinata a prendere una piega drammatica quando la sua relazione con Kei, artista di strada dallo spirito libero, viene scoperta. Un amore che, in qualsiasi altro contesto, non desterebbe scandalo; ma per un’idol giapponese, vincolata dalla clausola contrattuale “no romance”, questa semplice relazione diventa il punto di rottura. La conseguenza non è solo la fine della sua carriera, ma anche un processo legale che mette in discussione il diritto stesso di amare.
Sebbene il tono di Love on Trial sia meno teso, la sua forza risiede nell’approccio introspettivo e nella molteplicità di sguardi da cui la storia è raccontata - non solo quello di Mai, ma anche delle sue compagne, come Nanaka, giovane star emergente, emblema di una nuova generazione già intrappolata nei meccanismi della celebrità.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Koji Fukada, che ci ha raccontato del suo percorso di scoperta attorno al mondo delle idol e della cultura, spesso tossica, che circonda gli artisti del J-pop, approfondendo anche le scelte narrative che collegano Love on Trial alle tematiche già presenti nei suoi film precedenti.

Love on Trial (2025)
Qual è stato il punto di partenza del film? Ti sei ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto?
Tutto è cominciato nel 2015, quando lessi un articolo che raccontava la storia di una idol denunciata dalla sua agenzia per aver violato la “no romance rule” presente nel contratto. Conoscevo vagamente questa dinamica, pensavo fosse più una regola non scritta nella cultura idol giapponese, ma non immaginavo che potesse essere imposta formalmente in un contratto. La cosa mi colpì molto, anche perché ci fu davvero un processo. Non ho trasformato direttamente quella vicenda nel film, ma è stato un punto di partenza che ha ispirato la storia. Da lì ho iniziato a scrivere e, soprattutto, a fare ricerche: ho parlato con agenzie, manager, idol ancora attive e anche con chi ha deciso di ritirarsi.
Sei mai stato un fan della cultura idol?
No, a dire il vero. Quando andavo a scuola ricordo che c’era questo gruppo idol molto popolare tra i miei coetanei, credo sia stato l’unico momento in cui mi sono avvicinato a quel mondo. Ma non ero un fan sfegatato come altri. Proprio per questo ho dovuto fare molte ricerche sul tema, e ho iniziato anche ad andare ad ascoltare dal vivo diverse performance di gruppi idol.
Cosa hai pensato di questo mondo durante la tua fase di ricerca?
È risultato molto più strano e complesso di quanto mi aspettassi. La cosa che mi ha colpito di più è stato il livello di esposizione a cui gli idol sono costantemente sottoposti, e ai rischi che ne derivano. Poi c’è tutta la struttura gerarchica che regola questo ambiente, e il rapporto a tre tra agenzia, idol e pubblico: un meccanismo che ho trovato molto interessante.
Come persona esterna a questo mondo, secondo te qual è l’appeal della cultura idol?
Penso che dipenda molto da persona a persona. Certo, ci sono fan ossessivi, ma esistono anche persone che riescono a mantenere una certa distanza nella relazione con l’artista. Alcuni fan credono davvero di avere una sorta di legame romantico con l’idol che seguono. Ovviamente, per me non è così: non sono un fan, sono solo un osservatore esterno.
Questa fissazione è anche alimentata dalle agenzie, come se volessero creare un’attenzione morbosa verso gli artisti.
Sì, sono d’accordo. Credo che siano proprio le agenzie a spingere i fan a sviluppare questo tipo di relazione pseudo-romantica.
Il film colpisce anche per il modo in cui si trasforma in un courtroom drama nella seconda parte. Qual è il tuo rapporto con questo genere?
In realtà mi piace molto. Detto questo, Love on Trial contiene scene ambientate in tribunale, ma si tratta di una corte civile, quindi l’atmosfera è diversa rispetto a quella dei legal drama classici, con grandi colpi di scena e tensione. Non volevo approcciarmi al genere in modo tradizionale, ho cercato piuttosto di ricreare un contesto realistico, modesto, più vicino a quello che accade davvero nei tribunali giapponesi.

Com’è stato creare il gruppo idol per il film? È stato impegnativo?
Per nulla. Anzi, è stata una parte molto divertente del processo. Anche se si tratta di un gruppo idol, il mio obiettivo era quello di costruire una realtà credibile, qualcosa che potesse coinvolgere anche uno spettatore straniero, magari lontano da questo tipo di musica. Ho lavorato con una crew fantastica. Kyoko Saito, che interpreta Mai, è un’ex idol e aveva già esperienza alle spalle. La sua presenza ha dato al personaggio una profondità e autenticità che hanno fatto davvero la differenza.
Pensi che il film possa creare un dibattito all’interno dell’industria delle idol?
Non mi piace molto il fatto che questa industria costruisca delle pseudo-relazioni tra gli idol e i fan, mentre allo stesso tempo proibisce agli idol di avere relazioni sentimentali reali. Ma come regista, mi attengo all’etica del mio mestiere: voglio che sia il pubblico a trarre le proprie conclusioni, a formarsi un’opinione su questo argomento. Non ho cercato di imporre il mio punto di vista personale. Detto questo, spero davvero che il film possa generare una discussione e portare a una riflessione più profonda sulla figura dell’idol e su come viene trattata all’interno di questo sistema.
Da una prospettiva occidentale, questa relazione imposta tra fan e idol può sembrare quasi inquietante, come se si volesse sfruttare la solitudine di una parte del pubblico.
La cultura delle idol, almeno in Giappone, ha radici molto profonde, risale agli anni Sessanta, quindi non è qualcosa di nuovo per la nostra società. È interessante osservare come, nell’industria pop occidentale, ci siano dinamiche molto diverse, e credo che questo dipenda in gran parte dalle differenze culturali. Non si tratta solo della cultura idol, ma in generale, in Giappone c’è una tendenza sociale a richiedere certi standard di comportamento, soprattutto alle donne: purezza, modestia, riservatezza. Questo è un aspetto fondamentale, secondo me, per comprendere come viene costruita e gestita la figura dell’idol.
Ho notato che nella parte iniziale del film sei molto attento a mostrare che è l'inizio del percorso delle protagoniste. Anche la formazione del loro gruppo, o il look un po' trasandato… tutto è rappresentato in modo piuttosto sobrio. È chiaro, anche per chi non conosce il mondo delle idol, che siamo all'inizio della loro vita e del loro viaggio.
Sì, in effetti Happy Fanfare, il gruppo idol nel film, all’inizio non è affatto al vertice della popolarità. Si trovano un po’ nella fascia media, forse addirittura nella parte bassa di quella fascia. E naturalmente, la storia ruota attorno a un’agenzia che fa causa a un’idol. Non credo che tutte le agenzie in Giappone farebbero davvero una cosa del genere, non tutte arriverebbero a chiedere i danni in tribunale. Mi sembrava però che dovesse trattarsi di un certo tipo di agenzia, non una delle grandi e affermate, ma piuttosto una realtà più piccola, magari indipendente. Un’agenzia di media o bassa fascia avrebbe reso più credibile l’idea che potesse arrivare a fare causa a un’idol per danni.
Il titolo internazionale del film è Love on Trial, il che è un po' fuorviante. Non si ha quella classica concezione legata alla parola “amore”, come se ci fosse un lato sarcastico dietro a quel titolo, eri consapevole di questo?
Il titolo giapponese è “un processo sul romanticismo”, credo che sia letteralmente qualcosa del genere. Ed è interessante, naturalmente, perché l’amore non dovrebbe essere qualcosa da giudicare in tribunale, ma qualcosa di intimo. Potrebbe essere un segreto tra due persone. Invece, in modo molto clinico, aperto, questo amore viene discusso in aula da avvocati. E così, quel sentimento intimo e personale che è l’amore, o il sentimento amoroso, diventa qualcosa di più sistematico, o perlomeno sembra diventare qualcosa di più sistematico. Quindi sì, ero consapevole di questo.

Mai (Kioko Saito) in una scena del film
Di solito nei tuoi film, se penso a Harmonium o Love Life, ci sono questo tipo di sconvolgimenti che portano a cambiamenti drastici nel personaggio principale. Ma qui, in Love on Trial, è piuttosto diverso perché il personaggio di Mai è consapevole delle conseguenze delle sue azioni. Eri consapevole di questo cambiamento narrativo?
Si, assolutamente. Il film, di per sé, ha questa triplice visione sull’industria degli Idol. Si ha Mai, poi Risa, la ragazza che vuole diventare una cantautrice indipendente, ed infine Nanaka, la giovane del gruppo che decide di troncare la sua relazione per dedicarsi alla carriera. Mai, invece, si innamora e va a processo mentre Nanaka diventa sempre più famosa per via della propria scelta. Le loro scelte, a differenza delle mie precedenti opere, sono già stabilite, non c’è un evento catastrofico che le condiziona. Inoltre, mostrare un punto di vista maschile prevalente come quello di Kei, non avrebbe giovato all’opera, più che altro perché il film è più una sorta di storia di crescita e risveglio della protagonista.
C’è un’ironia nel film, perché nel contratto è vietata una relazione romantica con una persona del sesso opposto. Ma non viene nemmeno presa in considerazione la possibilità dell’omosessualità. Perché?
Ottima osservazione. In effetti, ho consultato alcuni contratti reali di agenzie con idol e, quando contenevano quella clausola, proprio come hai detto, specificavano il sesso opposto. Ci siamo detti come fosse incredibile quanto siamo indietro come società, al punto da non riuscire nemmeno a immaginare che una relazione tra persone dello stesso sesso possa essere una possibilità. Che si tratti dello stesso sesso o qualsiasi altro genere. È sconfortante sì, ho sentito voci secondo cui alcuni di questi contratti sono stati aggiornati. Ora includerebbero qualsiasi genere.
Cosa ci puoi dire sul casting di Keiko Saito? Prima citavi che è un’ex idol, c’erano altre opzioni oltre a lei?
Abbiamo fatto dei provini, stavamo valutando anche altre attrici, ma lei era la migliore. Curiosamente, per essere stata una idol giapponese, ha un registro vocale molto basso. Quindi è leggermente distante da quello che in Giappone consideriamo lo stereotipo della classica idol femminile. Ho trovato questo interessante e naturalmente ha anche capacità attoriali. Ma soprattutto aveva l’esperienza diretta di essere stata un’idol, in contrasto con Nanaka, la più giovane del gruppo, quella che si lascia con il fidanzato. Lei rappresenta più il tipo classico di idol che immaginiamo in Giappone, voce più acuta ed un aspetto più “carino” (cutesy, n.d.r.).
Cosa deve avere un idol per essere considerato tale?
È una domanda difficile non riesco davvero a rispondere con una sola parola. Alcuni direbbero qualcosa come “carino”, soprattutto quando si parla di idol femminili, ma non è così semplice. Ultimamente ho parlato con molte idol giovani, e quello che ho notato è che ci sono davvero tanti tipi diversi di gruppi idol. Circa 10 o 15 anni fa, c’era in realtà più varietà nel panorama idol. Ma oggi, per quanto riguarda i gruppi femminili, sembra ci sia una tendenza verso quello che in Giappone viene chiamato azatoi kawaii, cioè “carino in modo deliberato”. Non si tratta solo di essere carine in modo naturale, ma di giocare consapevolmente con questa “carineria”. Mi è stato detto che questo tipo di immagine è sempre più diffuso. Inoltre, molti giovani talenti giapponesi che vogliono davvero perfezionare le proprie abilità nel canto e nella danza scelgono di entrare nel mondo del K-pop. Quindi è difficile dire in modo assoluto cosa serva per essere un idol: dipende molto dal gruppo, dallo stile e anche dal Paese. In Giappone, rispetto alla Corea, spesso c’è meno enfasi sulle capacità tecniche. Non è sempre così, ci sono anche gruppi idol giapponesi che danno grande importanza al talento, ma in generale il K-pop punta di più su ciò che si definisce kakkoi, cioè “cool”, sofisticato, con un’immagine più raffinata. In Giappone invece, il concetto di kawaii, cioè la carineria, è ancora molto ricercato.

Kei (Yuki Kura) e Mai (Kyoko Saito) in Love on Trial (2025)
Cosa puoi dirmi del personaggio di Kei? Da cosa nasce la scelta di renderlo un mago?
In realtà lo definirei più come uno street performer. Quando stavo pensando al personaggio di Kei, ho considerato varie possibilità per la sua professione, ma volevo che rappresentasse un contrasto netto con quella dell’idol. Da un lato abbiamo l’industria dell’intrattenimento, con dinamiche ben precise tra fan e artista, sistematicamente orchestrate dalle agenzie per ottenere soprattutto un ritorno economico. Dall’altro, uno street performer che si esibisce davanti a poche persone, e che viene ricompensato in base a quanto lo spettatore ha apprezzato la sua performance. È un’interazione molto più semplice e diretta. Il mio obiettivo era proprio quello di far emergere, attraverso questo contrasto, alcune delle caratteristiche più evidenti (e più problematiche) dell’industria idol.
All’inizio del film c’è questa scena in cui l’artista di strada comincia a fluttuare nell’aria. Quali sono state le tue principali ispirazioni visive? Mi sono venuti in mente i musical anni ’50, come quelli di Stanley Donen.
È una bella lettura, e sì, quella scena potrebbe essere interpretata anche come un’illusione nata dall’amore crescente di Mai per Kei. Dal punto di vista visivo, ho voluto usare immagini classiche, come quelle dei musical di quell’epoca. Questo tipo di “magia” può esistere solo nel cinema. Era proprio questo ciò che volevo ottenere: rappresentare un amore magico, ma farlo in maniera profondamente cinematografica. Da lì è nata l’idea di quella scena.
Vorrei concludere chiedendoti delle canzoni create appositamente per il film. Cosa ne pensi? Credi che possano avere successo in Giappone?
Non posso dirlo con certezza, ma lo spero davvero! Abbiamo collaborato con Asia Springs, un gruppo che lavora spesso con artisti K-pop e J-pop, quindi conoscono bene il panorama musicale asiatico. Sono loro gli autori delle canzoni del film. L’intento era creare musica che potesse essere apprezzata non solo come parte della colonna sonora, ma anche come brani da ascoltare indipendentemente, e magari anche amare.
Una clip da Love on Trail (2025)