Una monumentale anti-odissea
recensione di Davide Spinelli
RV-89
06.02.2025
All’inizio di The Brutalist è quasi impossibile non pensare all’epilogo de Il pianista (2002). Adrien Brody, infatti, è esattamente dove l’abbiamo lasciato nel film di Roman Polánski, nel long shot tra la folla, mentre scappa dalla crudeltà nazista. Nel prologo della pellicola di Brady Corbet (gran favorito per gli Oscar 2025), dalla banchina di una stazione passiamo alla pancia di una nave, per poi uscire sul ponte e godere di un contro-plongée che ribalta la Statua della Libertà e in un colpo solo spezza l’incantesimo lanciato da Paul Thomas Anderson in The Master (2012), dichiarando una netta dichiarazione programmatica e stilistica: la storia dell’architetto ebreo ungherese László Tóth è un “mise en abyme”, una matriosca narrativa dalla bellezza visiva magmatica, sovversiva, brutale.
Corbet costruisce un’architettura formale epica, maestosa, dai wide shot alle panoramiche, dalle dissolvenze incrociate a una gestione della luce corpuscolare a bassa saturazione - l'ingrediente forse decisivo dell’irresistibile eleganza visiva del suo film (nell’immortale formato VistaVision). A ciò, si aggiunge una mise en page assonometrica: i personaggi sono spesso ripresi dal basso, tanto da determinare una costante spinta ascensionale, che contrasta con la pesantezza architettonica degli edifici di Tóth. Il risultato è un cinema ambiziosissimo, omerico, che risuona tramite la bellissima colonna sonora firmata da Daniel Blumberg, a metà tra la ricercatezza di Debussy, l’avanguardia di Ravel e l’originalità di John Cage.
Con The Brutalist, il regista statunitense esaspera (a tutta velocità) la sofisticatezza che l’ha sempre contraddistinto, dal suo esordio nel lungometraggio, con L'infanzia di un capo (2015), fino al suo ultimo lavoro, Vox Lux (2018). Non sono poche, d’altronde, le soggettive automobilistiche che allegorizzano il percorso dell’architetto ungherese, dal campo di concentramento di Buchenwald fino agli USA, dalla miseria all’incontro con il mecenate Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), dalla solitudine alla possibilità di riabbracciare la moglie Erzsébet (Felicity Jones). In questo lungo viaggio, che per certi versi resta un romanzo di formazione - tema presentissimo nella filmografia di Corbet -, il cineasta sintetizza un elastico narrativo che sincopa la narrazione come nei grandi poemi classici, tra quei rallenty e quei timelapse che sembrano figli delle allucinazioni da abuso di oppio di Tóth.
Nella seconda parte, The Brutalist più che perdere d’intensità, ricalibra l’oggetto della diegesi. Se all’inizio il film forza il tema del rapporto tra uomo e spazio, definendo una sua prossemica strutturale, nella seconda parte, quest’ultima è declinata a livello umano, relazionale. Da questo punto di vista, la scena iniziatica è senza dubbio quella in cui Erzsébet e László dormono per la prima volta di nuovo insieme, e la moglie, mentre lo masturba, afferma che “lei era ovunque con lui”, anche nell’orrore.
Si tratta dell’innesco di un’epopea non più geografica, spaziale, bensì interiore, sia personale sia politica. Il personaggio di Van Buren, infatti, rappresenta la figura ambivalente del carnefice e del benefattore; il violento e controverso rapporto tra i due sembra riprendere il famoso discorso dostoevskijano del superuomo, al quale il libero arbitrio concede persino il “delitto”, la violenza, fisica e psicologica, come accade proprio in The Brutalist. A questo Corbet lega il tema della fine del sogno americano, ovvero il rovesciamento dell'America da madre a matrigna, che nasconde in fondo il paradosso atavico del capitalismo: la creazione di rapporti di forza brutali, abusanti, in cui le possibilità rizomatiche della libera competizione si rivelano in realtà chimeriche, oppressive.
The Brutalist, dunque, inscena una perturbazione dello spazio-tempo, identificando l’architettura come il locus del rapporto duplice della cosa con il mondo e con l’essere umano in senso logico e crono-logico. Questa ricerca dal tono monumentale è forse raggiunta nella sequenza in cui vediamo László e Van Buren in una cava di marmo in Italia, che evidentemente ricorda il celebre mito platonico della caverna, metafora di un’archeologia epistemologica che Corbet imposta addirittura nel layout insolito dei titoli di coda e di testa.
Insomma, in uno struggente gioco analitico tra educazione politica e sentimentale, The Brutalist racconta un anti-odissea, perché “non conta il viaggio ma la meta” si dice nell’epilogo, cioè l’ennesima capovolta teoretica di un film che nonostante qualche imperfezione conserva già il respiro di un classico.
Una monumentale anti-odissea
recensione di Davide Spinelli
RV-89
06.02.2025
All’inizio di The Brutalist è quasi impossibile non pensare all’epilogo de Il pianista (2002). Adrien Brody, infatti, è esattamente dove l’abbiamo lasciato nel film di Roman Polánski, nel long shot tra la folla, mentre scappa dalla crudeltà nazista. Nel prologo della pellicola di Brady Corbet (gran favorito per gli Oscar 2025), dalla banchina di una stazione passiamo alla pancia di una nave, per poi uscire sul ponte e godere di un contro-plongée che ribalta la Statua della Libertà e in un colpo solo spezza l’incantesimo lanciato da Paul Thomas Anderson in The Master (2012), dichiarando una netta dichiarazione programmatica e stilistica: la storia dell’architetto ebreo ungherese László Tóth è un “mise en abyme”, una matriosca narrativa dalla bellezza visiva magmatica, sovversiva, brutale.
Corbet costruisce un’architettura formale epica, maestosa, dai wide shot alle panoramiche, dalle dissolvenze incrociate a una gestione della luce corpuscolare a bassa saturazione - l'ingrediente forse decisivo dell’irresistibile eleganza visiva del suo film (nell’immortale formato VistaVision). A ciò, si aggiunge una mise en page assonometrica: i personaggi sono spesso ripresi dal basso, tanto da determinare una costante spinta ascensionale, che contrasta con la pesantezza architettonica degli edifici di Tóth. Il risultato è un cinema ambiziosissimo, omerico, che risuona tramite la bellissima colonna sonora firmata da Daniel Blumberg, a metà tra la ricercatezza di Debussy, l’avanguardia di Ravel e l’originalità di John Cage.
Con The Brutalist, il regista statunitense esaspera (a tutta velocità) la sofisticatezza che l’ha sempre contraddistinto, dal suo esordio nel lungometraggio, con L'infanzia di un capo (2015), fino al suo ultimo lavoro, Vox Lux (2018). Non sono poche, d’altronde, le soggettive automobilistiche che allegorizzano il percorso dell’architetto ungherese, dal campo di concentramento di Buchenwald fino agli USA, dalla miseria all’incontro con il mecenate Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), dalla solitudine alla possibilità di riabbracciare la moglie Erzsébet (Felicity Jones). In questo lungo viaggio, che per certi versi resta un romanzo di formazione - tema presentissimo nella filmografia di Corbet -, il cineasta sintetizza un elastico narrativo che sincopa la narrazione come nei grandi poemi classici, tra quei rallenty e quei timelapse che sembrano figli delle allucinazioni da abuso di oppio di Tóth.
Nella seconda parte, The Brutalist più che perdere d’intensità, ricalibra l’oggetto della diegesi. Se all’inizio il film forza il tema del rapporto tra uomo e spazio, definendo una sua prossemica strutturale, nella seconda parte, quest’ultima è declinata a livello umano, relazionale. Da questo punto di vista, la scena iniziatica è senza dubbio quella in cui Erzsébet e László dormono per la prima volta di nuovo insieme, e la moglie, mentre lo masturba, afferma che “lei era ovunque con lui”, anche nell’orrore.
Si tratta dell’innesco di un’epopea non più geografica, spaziale, bensì interiore, sia personale sia politica. Il personaggio di Van Buren, infatti, rappresenta la figura ambivalente del carnefice e del benefattore; il violento e controverso rapporto tra i due sembra riprendere il famoso discorso dostoevskijano del superuomo, al quale il libero arbitrio concede persino il “delitto”, la violenza, fisica e psicologica, come accade proprio in The Brutalist. A questo Corbet lega il tema della fine del sogno americano, ovvero il rovesciamento dell'America da madre a matrigna, che nasconde in fondo il paradosso atavico del capitalismo: la creazione di rapporti di forza brutali, abusanti, in cui le possibilità rizomatiche della libera competizione si rivelano in realtà chimeriche, oppressive.
The Brutalist, dunque, inscena una perturbazione dello spazio-tempo, identificando l’architettura come il locus del rapporto duplice della cosa con il mondo e con l’essere umano in senso logico e crono-logico. Questa ricerca dal tono monumentale è forse raggiunta nella sequenza in cui vediamo László e Van Buren in una cava di marmo in Italia, che evidentemente ricorda il celebre mito platonico della caverna, metafora di un’archeologia epistemologica che Corbet imposta addirittura nel layout insolito dei titoli di coda e di testa.
Insomma, in uno struggente gioco analitico tra educazione politica e sentimentale, The Brutalist racconta un anti-odissea, perché “non conta il viaggio ma la meta” si dice nell’epilogo, cioè l’ennesima capovolta teoretica di un film che nonostante qualche imperfezione conserva già il respiro di un classico.