
di Beatrice Gangi, Pavel Belli Micati, Mattia Pescitelli e Omar Franini
NC-355
28.10.2025
Dopo la panoramica della giornata di ieri sulle opere più significative presentate alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma, oggi porremo la nostra attenzione sui film internazionali di questa manifestazione, spaziando tra giovani autori e registi rinomati, opere già consacrate ad altri festival ed altre che hanno trovato più spazio grazie alla presentazione italiana.
In & Sons di Pablo Trapero, il successo diventa veleno ereditario che corrode i legami familiari; Couture di Alice Winocour osserva l’alta moda come un universo di fragilità e desiderio d’identità. Glenrothan segna l’esordio alla regia di Brian Cox, che firma un ritorno alla terra e al tempo perduto, mentre Homo sapiens? di Mariano Cohn e Gastón Duprat ritrae un’Argentina vanitosa e disillusa in chiave satirica. In Left-Handed Girl, Shih-Ching Tsou segue tre donne di Taipei tra debiti, sogni e superstizioni, restituendo una poesia del quotidiano; Palestine 36 di Annemarie Jacir trasforma la storia di un villaggio in un racconto di resistenza.
The Things You Kill di Alireza Khatami esplora invece la colpa e la memoria, intrecciando noir e tragedia morale in una storia sull’impossibilità di lasciarsi il passato alle spalle. Re-Creation di Jim Sheridan e David Merriman interroga la verità in una stanza chiusa, Rental Family di Hikari indaga la finzione come rifugio identitario, e Wild Nights, Tamed Beasts di Wang Tong chiude il cerchio presentandosi come un dramma denso e ipnotico sull’atto di "prendersi cura".
& Sons, di Pablo Trapero

Il successo è un veleno per la mente. Silenzioso, priva di vitalità la sua vittima, facendogli credere di trovarsi su un piano diverso, superiore a chi lo circonda. Gradino dopo gradino, porta illusoriamente sulla vetta di un mondo interiore dove l’unica istanza a eguagliare il moribondo è il moribondo stesso. Divino nel suo tessuto del reale, la preda muore lentamente, da sola, circondata da un miraggio. L’antidoto esiste, basta venire scossi dal proprio sogno fatale, ma ciò deve accadere prima che il fluido assassino penetri in ogni pertugio del sé. La tematica dell’inebriante abbraccio della fama non è nuova al mondo cinematografico. Negli ultimi anni, però, circondati quotidianamente da una realtà sociale che vede la propria affermazione sugli altri come unica via di salvezza da un mondo di dolori e sacrifici, i film che la mettono sotto inchiesta sono aumentati a dismisura, spaziando tra i generi e le storie. A questa 20° edizione della Festa del Cinema di Roma abbiamo vista più volte rappresentata, come ad esempio nel “pittoresco” e a tratti agghiacciante Our Hero, Balthazar (2025), una satira fin troppo accurata della crisi umana che sta sgretolando il sogno americano, ma è un tema che torna e crea le fondamenta anche di un film molto inglese che conta su un cast d’eccezione, capitanato da due mostri sacri del cinema anglofono come Bill Nighy e Imelda Staunton. &Sons ci catapulta nella saga di una famiglia deflagrata da un patriarca troppo preso da se stesso e dai suoi grandi successi letterari per prendersi cura delle persone che lo circondano. Davanti al sipario funebre si rende conto che ha i giorni contati e che deve condividere con qualcuno un segreto mai svelato. Questo (e solo questo) lo convince a richiamare al suo capezzale i suoi due figli avuti dalla moglie storica, prima di averne un terzo da una relazione extraconiugale. In questa villa da set, non vissuta perché il vecchio malinconico è sempre rinchiuso nel suo studio (quello sì, un luogo dove la sua condizione mentale, sentimentale, emozionale traspare senza filtri), i fratelli si incontrano, chi per la prima volta dopo anni, chi per la prima volta e basta. Si percepiscono delle tensioni che cercano di nascondere sotto i tappeti intonsi della vecchia casa vernacolare, ma è chiaro che la miccia ha quasi raggiunto la dinamite. Nonostante ciò, &Sons è un film che non esplode mai veramente. Anche quando la verità viene a galla, c’è sempre una sordina che attenua l’intensità di una situazione che poteva essere evitata con il dialogo, attraverso quelle stesse parole che sulla carta scorrono con facilità ma che quando devono essere pronunciate ad alta voce si bloccano in gola, ributtate giù, nei recessi dell’animo, da litri di scotch. Così Pablo Trapero dipinge questo quadretto lapidario: con grida che rimangono chiuse in una stanza, dolore che resta sul ciglio degli occhi lucidi dei suoi protagonisti e un interessante analisi dell’amore smodato per la propria persona, un’amore che spinge così lontano da arrivare a distruggere la vita dei propri consanguinei per fare ammenda di tutti gli errori che si sono commessi durante la propria esistenza, inseguendo una seconda possibilità con così tanto fervore da non accorgersi che la soluzione a tutti i problemi è lì, dietro una semplice parola pronunciata con sincero rammarico: scusa.
Couture, di Alice Winocour

Con Couture, Alice Winocour tenta un’indagine ampia sull’universo dell’alta moda, intrecciando quattro sottotrame che ruotano attorno alla regista americana Maxine (Angelina Jolie), alla giovane modella sudsudanese Ada (Anyier Anei), alla truccatrice Angèle (Ella Rumpf) e al reparto sartoriale tecnico che lavora dietro le quinte. L’intento dichiarato di offrire uno sguardo a 360° sul mondo della moda si percepisce: dall’atelier alla passerella, dal corpo iconico immortalato in passerella allo sguardo marginale, il film attraversa reparti e punti di vista diversi. La sottotrama che riguarda Maxine risulta la più riuscita. Il personaggio è interpretato con intensità e autenticità, in un ruolo che riecheggia la vita personale di Jolie e che si configura come un ponte tra glamour e vulnerabilità. Le altre sottotrame, pur potenzialmente ricche - la modella che arriva da un contesto di guerra, la truccatrice che sogna di scrivere, la sarta che rifinisce abiti - non riescono però a conquistare lo stesso spazio drammatico. In particolare, la vicenda della modella, sebbene occupi molto tempo, rimane piuttosto prevedibile nel racconto dell’immigrata che lotta per emergere. E la scena della truccatrice che guarda un’intervista di Marguerite Duras appare più come un esercizio estetico e filosofico, inutilmente compiaciuto, che come un arco narrativo pienamente sviluppato. Il film avrebbe forse guadagnato forza concentrandosi sul personaggio di Angelina Jolie e sul suo ingresso nel mondo della moda e delle sue personalità, anziché distribuire l’attenzione su linee narrative che tendono a sbiadirsi. Il finale, con la tempesta, la distruzione, il vento che solleva veli e corpi, funziona come metafora, ma è una metafora fin troppo esplicita, diretta, che lascia poco spazio all’immaginazione. In definitiva, Couture è un film elegante e denso di intenzioni, sorretto dall’ottima interpretazione di Jolie, ma penalizzato da un’ambizione dispersiva che ne indebolisce la coesione. Un lavoro interessante ma, nel complesso, poco riuscito per Alice Winocour.
Glenrothan, di Brian Cox

La vita è un attimo. Attimo come istante, un destino sfuggente che passa e va, senza voltarsi a vedere come stiamo. Attimo come momento, una singola istanza nell'esistenza umana che ne cambia il corso in maniera irreversibile e imprevedibile. Attimo come memoria infestante, che perseguita fino a che non ci si volta per affrontarla. Brian Cox sceglie di inquadrare questi temi alla prima prova dietro la macchina da presa. Glenrothan non è solo un paese nascosto tra le brune terre di Scozia: è un mondo perduto, l’opposto della Chicago a tempo di jazz dove il Donal di Alan Cumming ha vissuto per gli ultimi quarant’anni. Circostanze più o meno sfortunate lo portano sulla via di casa. Sta a lui riparare lo strappo che lo ha separato dal fratello Sandy (interpretato dallo stesso Cox) e da quella madrepatria che detesta con tutto se stesso per l’amore che prova per lei. Refrattario all’idea di affrontare i propri demoni, Donal vaga per le vallate confrontandosi, suo malgrado, con un passato che fa di tutto pur di tornare a galla, come un mostro lacustre di quel folklore che scorre nel suo sangue contaminato dalle influenze americane e che scalpita per uscire allo scoperto tra un bicchiere di whiskey della distilleria di famiglia e una giga nel pub del paese. A una storia che ha tutto l’aspetto di un dramma familiare si impone un tono leggero come l’aria incontaminata delle Highlands, in quella che si scopre essere una commedia molto pacata che scava nella vita dei suoi protagonisti con nostalgia e rammarico per le decisioni prese di pancia, spinti da quello spirito giovanile che scuote i percorsi esistenziali come nient’altro al mondo e che porta a prendere il percorso opposto rispetto a quello desiderato, sacrificando le proprie aspirazioni per assumersi i doveri di altri. Senza mai mettere la forma al di sopra del contenuto, Cox firma un esordio dal composto fascino gaelico che fa di tutto per arrivare al cuore dello spettatore, ma raramente riesce a superare la vera passione che esonda dalla manciata di performance musicali di Alan Cumming. Una lettera d’amore alla madrepatria abbandonata da tempo e alla quale, una volta fatti i conti con la vita, è necessario fare ritorno per tirare le somme della propria esistenza.
Homo Sapiens?, di Mariano Cohn e Gastón Duprat

Con Homo sapiens? Mariano Cohn e Gastón Duprat tornano a riflettere sul costume e sull’identità nazionale argentina, affidando a Guillermo Francella - qui volto di una classe media tanto riconoscibile quanto problematica - il compito di incarnare sedici volti dell’argentinidad contemporanea. Il film si struttura come una sequenza di brevi vignette, autonome ma attraversate dallo stesso filtro satirico: il bersaglio resta sempre l’individuo, con il suo narcisismo, la sua ossessione di status, la sua vanità. Nell’insieme, il progetto si muove più con leggerezza che con ferocia, alternando sketch riusciti ad altri puramente stereotipati. Alcune situazioni - come la vignetta del “54° piano”, che tenta di ironizzare su dinamiche di potere e coercizione sessuale - rivelano quanto la satira dei registi rischi di scivolare nell’ambiguità, restando intrappolata in uno sguardo mono-dimensionale, centrato sull’esperienza del singolo più che sulla società nel suo complesso. Ciò che ne risulta è il ritratto di un’argentinidad osservata esclusivamente dal punto di vista di chi la incarna: un maschile urbano, bianco, di classe medio-alta, autocompiaciuto, incapace di lasciar spazio ad altri sguardi o generazioni (quali una prospettiva che consideri il femminile, o le classi più povere della popolazione, a più riprese rappresentate come profittatrici). Francella è abilissimo nel passare da un registro all’altro, ma la regia si accontenta di incorniciare le sue metamorfosi senza trasformarle in un vero discorso. In bilico tra sketch-show di lusso e pamphlet sociale, Homo sapiens? a tratti diverte, a tratti ristagna, ma non raggiunge mai quella causticità necessaria per farsi autentico ritratto politico del presente.
Left-Handed Girl, di Shih-Ching Tsou

Shu-fen è da poco tornata a Taipei, insieme alle figlie Cheng I-Jing e I-Ann. Nella capitale di Taiwan si cambia nome per avere più opportunità, ma questo non interessa alla maggiore, che non vuole andare all’università. La madre invece apre un banco al mercato notturno, dove tra scadenze, debiti e affitti il tempo si misura solo per necessità. È un mondo dove gli adulti parlano, e i bambini stanno in ascolto. Shu-fen deve pagare i debiti dell’ex-marito, mentre il vicino di banco, che vende articoli casalinghi, le batte i pezzi. I-Ann lavora invece in un negozio di betel, e mantiene una relazione con il proprietario, di nascosto dalla fidanzata di lui. La piccola Cheng I-Jing è mancina, il nonno indignato le ripete che la mano sinistra lavora per il diavolo, e lei finisce per crederci - finché non impara che ciò che desidera deve prenderselo da sola. Scritto, diretto e prodotto da Shih-Ching Tsou - lo storico braccio destro di Sean Baker, con cui co-dirige Take Out (2004) - Left-Handed Girl segna il debutto registico da solista. Come il collega, così anche Tsou filma il quotidiano partendo dal basso, tra le vecchie tradizioni e un nuovo ordinario, tra il tavolo dei grandi e quello dei piccini. Il film condivide con Tangerine (2015) e The Florida Project (2017) il focus sui margini e lo sguardo delicato con cui rappresenta un’indigenza materiale che non compromette mai una ricchezza di sogni. Tra pianti silenziosi nella notte e piccoli furti quotidiani, la picaresca di una piccola e sveglia canaglia è un racconto che intreccia tre percorsi di individuazione femminile in un caleidoscopio attraverso cui analizzare i loro sentimenti. I piedi camminano, i prezzi aumentano ma i sogni per un futuro migliore rimangono gli stessi. Montato da Baker, il film alterna l’intimità del privato alla riflessione sociale. Tsou registra Taipei come un organismo pieno di luce, di mistero, di superstizioni e assurde coincidenze, e ci regala un fantastico, commuovente racconto la cui morale è che assumersi le proprie responsabilità non significa farsi carico degli altri. La piccola Cheng I-Ching ci insegna che anche il tempismo peggiore, nei disastri della vita, è un atto poetico in un mondo in continuo mutamento.
Palestine 36, di Annemarie Jacir

Yusuf abita ad al-Basma, ma ogni giorno va a Gerusalemme per lavoro. «Quando potrò venire anche io con te?» gli chiede Afra, una ragazzina del villaggio. «Quando tuo padre ti reputerà abbastanza grande» risponde lui. «Appena potrò andarmene, non tornerò più», dice lei. Nessuno vuole vivere isolato e in povertà: è per questo che i giovani palestinesi sognano la grande città. Ma all’inizio del 1936 tutto sta per cambiare, e di lì a poco i bambini non potranno più sognare. La manodopera araba viene licenziata per far posto ai profughi ebrei in arrivo dall’Europa. Nel porto di Jaffa un barile si rompe durante lo scarico, rivelando un carico d’armi diretto a Tel Aviv. I coloni appena giunti innalzano recinti, bruciano la terra e delimitano nuovi confini. C’è qualcosa in procinto di accadere, ma ancora nessuno capisce cosa. Quando però il governo britannico riconosce il diritto del popolo ebraico a fondare un proprio stato in territorio palestinese, firma la condanna alla cancellazione delle comunità che da sempre abitavano quell’area. Nessuno osa opporsi: si discute, si prende tempo. Ma a cosa serve aspettare - e soprattutto, a chi? Annemarie Jacir racconta l’alba della resistenza panaraba come il momento in cui bisogna diventare grandi, proprio perché alcuni uomini non smettono mai di essere bambini. Questo coraggioso racconto di formazione e paesaggio corale vive nella narrazione dei vinti, a cui viene tolto progressivamente tutto: il diritto di parola, di protestare, di verità. Quando il dialogo è impossibile, resta la resistenza. È questa la presa di coscienza che anima Palestine 36 e ci chiede di rimanere vigili, attenti, lucidi. Il montaggio alterna drammatizzazione e repertorio d’archivio, e smaschera l’ipocrisia della semantica assimilatoria con cui l’Occidente descrive il Medio Oriente. Dalla nascita della prima radiodiffusione in Palestina, fino agli albori della Rivolta Araba, Jacir ricostruisce una mappa delle bugie e collusioni che accompagna l’annessione delle terre palestinesi al controllo sionista sotto la tutela britannica. La regista espone le logiche e gli argomenti che regolano le dinamiche di ostilità con cui il potere silenzia chi non lo ha, e così ogni immagine si domanda cosa sia, davvero, nell’interesse di chi. Le convenzioni del thriller politico e gli stilemi del dramma storico aiutano così a tracciare una cronistoria tra scontro civile e parabola identitaria. Palestine 36 interroga lo spettatore su come e quando la resistenza debba farsi azione - perché il martirio non è sufficiente. La libertà, dunque, non come forma di eroismo, ma di persistenza. Le città crollano, ma le persone rimangono in piedi. «Sai dov’è la tua terra?» domanda Kareem mentre si prepara a ricostruire il villaggio. «È quella dove sono sepolti i tuoi antenati». Jacir non racconta una rivolta; piuttosto mostra lo sguardo attraverso cui la parola si fa verbo, e dunque, verità.
Re-Creation, di Jim Sheridan e David Merriman

È facile lasciarsi pilotare dal fascino ipotetico del cinema. Cosa sarebbe successo se questa o quella cosa fosse accaduta al posto di come le vicende si sono effettivamente dispiegate? Il tranello in cui ogni scrittore, prima o poi, si va a invischiare, finendo per creare un mondo alternativo che può essere molto pericoloso attraversare, ma anche altrettanto formativo. Perché sì, nascondersi dietro le speranze e le supposizioni non è di certo la forma più indicata per affrontare un trauma, ma può portare a un dialogo differente, capace di superare le barriere della vicenda per riversarsi nel tessuto stesso della società che l’ha alimentata. Re-Creation di Jim Sheridan e David Merriman fa proprio ciò: a partire da un fatto di cronaca nera che ha portato all’incarcerazione senza processo di Ian Bailey, giornalista accusato del brutale omicidio di Sophie Toscan du Plantier in un paesello sperduto della contea di Cork, Irlanda, gli autori si immaginano come si sarebbe potuto svolgere un giusto processo nei confronti del sospettato, andando a scavare nei rapporti investigativi, nelle documentazioni ufficiali, nelle testimonianze su cui sono riusciti a mettere mano. Si dipana così un kammerspiel anomalo, gran parte ambientato nella stanza privata dei giurati, all’interno della quale il dubbio di una donna (una Vicky Krieps che si insinua sottopelle) diventa quello di molti e il confine tra fatto e verità si fa ogni secondo sempre più labile. Quella dell’ambiente ristretto, claustrofobico, dal quale si vorrebbe uscire il più velocemente possibile, diventa anche un’occasione per mettere in scena dei personaggi che sono più di semplici individui. È il mondo in una stanza. Con gli occhi degli indagatori assetati di true-crime (perché il dolore di altri ci alimenta in modi misteriosi che sfuggono ancora oggi alla nostra completa comprensione) rimettiamo insieme i pezzi non solo di un caso chiaramente chiuso con troppa (sospetta) fretta, ma anche di un’umanità che, ogni giorno di più, fa difficoltà a vedere il grigio che ammanta la propria esistenza.
Rental Family, di Hikari

L’ordinario visto con gli occhi dell’estraneo. Una tematica, questa, che da sempre affascina le storie umane. Quando la distanza (di vedute, di interpretazioni, di confini) porta a una crisi del dialogo si crea un conflitto che affascina come pochi altri e che muove la nostra curiosità nei confronti di quello che non capiamo e che vogliamo, per questo, comprendere a ogni costo o rifiutare senza riserve. Rental Family di Hikari racconta proprio di tale “interscambio culturale”, mettendo al centro della scena un attore statunitense dimenticato (o mai ricordato) che è approdato sulle coste del Sol Levante e da lì non se n'è più andato, alla continua ricerca del prossimo “grande ruolo”. Il caso lo porta su una strada parallela che non aveva mai preso in considerazione: interpretare la parte di amici e parenti per risolvere i problemi di persone reali. Parte così un racconto che indaga cosa significa interpretare un ruolo e cosa comporta cambiare i propri panni continuamente a seconda di chi ci sta attorno. È una ricerca del sé come poche altre quella di Rental Family. Leggero e pesante come un macigno al contempo, ogni trovata di scrittura brilla di un’intensità umana con i piedi ben piantati a terra. Negli occhi di Brendan Fraser è impossibile non scrutare l’allineamento tra finzione scenica ed esperienza personale in questo personaggio dai contorni levigati, facendo risplendere una volta di più il talento di un rinnegato ritrovato della recitazione internazionale. Un uomo alla ricerca di un’identità, che non riesce a fare i conti con il passato, incapace di controllare le emozioni che rincorre da tutta la vita. Vivere nella finzione lo fa sentire completo, accettato, realizzato; un modo come un altro per anestetizzare le sue lacerazioni interne, ma è solo un palliativo che va sostituito con una cura a lungo termine, una riabilitazione della propria immagine nello specchio dell’anima. Hikari spiazza per la sua semplicità, per il modo genuino con cui inquadra queste vite “a metà”, alla ricerca della propria verità in un riflesso che sembra costantemente sfuggire loro, ma che è sempre stato lì, offuscato dalle facili bugie che hanno finito per scolpire la loro stessa percezione del sé.
The Things You Kill, di Alireza Khatami

Dopo anni passati all’estero, Ali, un professore turco, ritorna nel suo paese natale e si trova ad affrontare la morte misteriosa della madre e un rapporto irrisolto con il padre autoritario. Partendo da questa premessa, Alireza Khatami imbastisce un intenso thriller psicologico che esplora il peso della colpa e l’eredità della violenza familiare. La ricerca di verità del protagonista si trasforma presto in un viaggio interiore claustrofobico, dove il confine tra giustizia e vendetta diventa impercettibile. Per compiere questo “viaggio”, Khatami costruisce il film attraverso un potente linguaggio visivo e simbolico, il paesaggio, la luce filtrata, gli specchi e i silenzi contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa tra sogno e realtà. Il ritmo è lento ma ipnotico, e la fotografia accompagna perfettamente lo spettatore dentro il tormento interiore del protagonista. Fondamentale è anche l’apporto di Ekin Koç, che offre un’interpretazione intensa, restituendo la fragilità e la rabbia di un uomo schiacciato dal peso del passato. The Things You Kill non è un film per chi cerca un thriller lineare; la narrazione frammentata e i molteplici livelli di lettura richiedono attenzione e disponibilità a lasciarsi disorientare. Proprio questa ambiguità, però, rende il film un’opera affascinante, capace di parlare di identità, memoria e riconciliazione senza mai lasciarsi penetrare del tutto. Un lungometraggio disturbante e poetico, che lascia lo spettatore con più domande che risposte, ma anche con immagini difficili da dimenticare.
Wild Nights, Tamed Beasts, di Wang Tong

Esordio alla regia di Wang Tong, Wild Nights, Tamed Beasts si inserisce nel filone del neo-noir cinese, ma ne sposta l’asse tematico verso un terreno più intimo e perturbante: l’ansia dell’invecchiamento, la paura del decadimento fisico, l’ambiguità morale del prendersi cura dell’altro. Protagonista è una giovane badante, donna gentile ma indecifrabile, sospesa tra colpa e tenerezza; dopo la morte improvvisa di un’anziana sotto la sua custodia, viene assunta da un guardiano dello zoo per assistere il padre colpito da ictus. Da questo punto d’incrocio tra solitudine, senso di colpa, e desiderio di redenzione, il film si apre a una riflessione stratificata sulla dignità della vecchiaia e sul significato più profondo dell’atto di accudire: quando la pietà si trasforma in controllo, quando la compassione diventa pragmatismo. Wang Tong costruisce un’opera densa, magnetica, in cui la suspense psicologica si fonde con il dramma sociale e con una dimensione quasi allegorica. L’autore alterna momenti di realismo fisico a improvvise derive oniriche, ricorrendo con audacia a split screen, variazioni di formato, contrasti cromatici e passaggi allucinatori che traducono in immagini l’instabilità emotiva della protagonista. Ne risulta un mosaico di toni e registri, in bilico tra la cronaca e il sogno, tra l’atto di cura e il desiderio di fuga. Pur presentando qualche squilibrio narrativo tipico del debutto, Wild Nights, Tamed Beasts, si impone come un’opera sorprendentemente matura, capace di coniugare tensione e introspezione, estetica e morale. È un film che non si offre allo spettatore, ma lo sfida: richiede di essere attraversato, interpretato, compreso, per coglierne il delicato equilibrio, di accettarne la lentezza e il mistero.
di Beatrice Gangi, Pavel Belli Micati, Mattia Pescitelli e Omar Franini
NC-355
28.10.2025
Dopo la panoramica della giornata di ieri sulle opere più significative presentate alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma, oggi porremo la nostra attenzione sui film internazionali di questa manifestazione, spaziando tra giovani autori e registi rinomati, opere già consacrate ad altri festival ed altre che hanno trovato più spazio grazie alla presentazione italiana.
In & Sons di Pablo Trapero, il successo diventa veleno ereditario che corrode i legami familiari; Couture di Alice Winocour osserva l’alta moda come un universo di fragilità e desiderio d’identità. Glenrothan segna l’esordio alla regia di Brian Cox, che firma un ritorno alla terra e al tempo perduto, mentre Homo sapiens? di Mariano Cohn e Gastón Duprat ritrae un’Argentina vanitosa e disillusa in chiave satirica. In Left-Handed Girl, Shih-Ching Tsou segue tre donne di Taipei tra debiti, sogni e superstizioni, restituendo una poesia del quotidiano; Palestine 36 di Annemarie Jacir trasforma la storia di un villaggio in un racconto di resistenza.
The Things You Kill di Alireza Khatami esplora invece la colpa e la memoria, intrecciando noir e tragedia morale in una storia sull’impossibilità di lasciarsi il passato alle spalle. Re-Creation di Jim Sheridan e David Merriman interroga la verità in una stanza chiusa, Rental Family di Hikari indaga la finzione come rifugio identitario, e Wild Nights, Tamed Beasts di Wang Tong chiude il cerchio presentandosi come un dramma denso e ipnotico sull’atto di "prendersi cura".
& Sons, di Pablo Trapero

Il successo è un veleno per la mente. Silenzioso, priva di vitalità la sua vittima, facendogli credere di trovarsi su un piano diverso, superiore a chi lo circonda. Gradino dopo gradino, porta illusoriamente sulla vetta di un mondo interiore dove l’unica istanza a eguagliare il moribondo è il moribondo stesso. Divino nel suo tessuto del reale, la preda muore lentamente, da sola, circondata da un miraggio. L’antidoto esiste, basta venire scossi dal proprio sogno fatale, ma ciò deve accadere prima che il fluido assassino penetri in ogni pertugio del sé. La tematica dell’inebriante abbraccio della fama non è nuova al mondo cinematografico. Negli ultimi anni, però, circondati quotidianamente da una realtà sociale che vede la propria affermazione sugli altri come unica via di salvezza da un mondo di dolori e sacrifici, i film che la mettono sotto inchiesta sono aumentati a dismisura, spaziando tra i generi e le storie. A questa 20° edizione della Festa del Cinema di Roma abbiamo vista più volte rappresentata, come ad esempio nel “pittoresco” e a tratti agghiacciante Our Hero, Balthazar (2025), una satira fin troppo accurata della crisi umana che sta sgretolando il sogno americano, ma è un tema che torna e crea le fondamenta anche di un film molto inglese che conta su un cast d’eccezione, capitanato da due mostri sacri del cinema anglofono come Bill Nighy e Imelda Staunton. &Sons ci catapulta nella saga di una famiglia deflagrata da un patriarca troppo preso da se stesso e dai suoi grandi successi letterari per prendersi cura delle persone che lo circondano. Davanti al sipario funebre si rende conto che ha i giorni contati e che deve condividere con qualcuno un segreto mai svelato. Questo (e solo questo) lo convince a richiamare al suo capezzale i suoi due figli avuti dalla moglie storica, prima di averne un terzo da una relazione extraconiugale. In questa villa da set, non vissuta perché il vecchio malinconico è sempre rinchiuso nel suo studio (quello sì, un luogo dove la sua condizione mentale, sentimentale, emozionale traspare senza filtri), i fratelli si incontrano, chi per la prima volta dopo anni, chi per la prima volta e basta. Si percepiscono delle tensioni che cercano di nascondere sotto i tappeti intonsi della vecchia casa vernacolare, ma è chiaro che la miccia ha quasi raggiunto la dinamite. Nonostante ciò, &Sons è un film che non esplode mai veramente. Anche quando la verità viene a galla, c’è sempre una sordina che attenua l’intensità di una situazione che poteva essere evitata con il dialogo, attraverso quelle stesse parole che sulla carta scorrono con facilità ma che quando devono essere pronunciate ad alta voce si bloccano in gola, ributtate giù, nei recessi dell’animo, da litri di scotch. Così Pablo Trapero dipinge questo quadretto lapidario: con grida che rimangono chiuse in una stanza, dolore che resta sul ciglio degli occhi lucidi dei suoi protagonisti e un interessante analisi dell’amore smodato per la propria persona, un’amore che spinge così lontano da arrivare a distruggere la vita dei propri consanguinei per fare ammenda di tutti gli errori che si sono commessi durante la propria esistenza, inseguendo una seconda possibilità con così tanto fervore da non accorgersi che la soluzione a tutti i problemi è lì, dietro una semplice parola pronunciata con sincero rammarico: scusa.
Couture, di Alice Winocour

Con Couture, Alice Winocour tenta un’indagine ampia sull’universo dell’alta moda, intrecciando quattro sottotrame che ruotano attorno alla regista americana Maxine (Angelina Jolie), alla giovane modella sudsudanese Ada (Anyier Anei), alla truccatrice Angèle (Ella Rumpf) e al reparto sartoriale tecnico che lavora dietro le quinte. L’intento dichiarato di offrire uno sguardo a 360° sul mondo della moda si percepisce: dall’atelier alla passerella, dal corpo iconico immortalato in passerella allo sguardo marginale, il film attraversa reparti e punti di vista diversi. La sottotrama che riguarda Maxine risulta la più riuscita. Il personaggio è interpretato con intensità e autenticità, in un ruolo che riecheggia la vita personale di Jolie e che si configura come un ponte tra glamour e vulnerabilità. Le altre sottotrame, pur potenzialmente ricche - la modella che arriva da un contesto di guerra, la truccatrice che sogna di scrivere, la sarta che rifinisce abiti - non riescono però a conquistare lo stesso spazio drammatico. In particolare, la vicenda della modella, sebbene occupi molto tempo, rimane piuttosto prevedibile nel racconto dell’immigrata che lotta per emergere. E la scena della truccatrice che guarda un’intervista di Marguerite Duras appare più come un esercizio estetico e filosofico, inutilmente compiaciuto, che come un arco narrativo pienamente sviluppato. Il film avrebbe forse guadagnato forza concentrandosi sul personaggio di Angelina Jolie e sul suo ingresso nel mondo della moda e delle sue personalità, anziché distribuire l’attenzione su linee narrative che tendono a sbiadirsi. Il finale, con la tempesta, la distruzione, il vento che solleva veli e corpi, funziona come metafora, ma è una metafora fin troppo esplicita, diretta, che lascia poco spazio all’immaginazione. In definitiva, Couture è un film elegante e denso di intenzioni, sorretto dall’ottima interpretazione di Jolie, ma penalizzato da un’ambizione dispersiva che ne indebolisce la coesione. Un lavoro interessante ma, nel complesso, poco riuscito per Alice Winocour.
Glenrothan, di Brian Cox

La vita è un attimo. Attimo come istante, un destino sfuggente che passa e va, senza voltarsi a vedere come stiamo. Attimo come momento, una singola istanza nell'esistenza umana che ne cambia il corso in maniera irreversibile e imprevedibile. Attimo come memoria infestante, che perseguita fino a che non ci si volta per affrontarla. Brian Cox sceglie di inquadrare questi temi alla prima prova dietro la macchina da presa. Glenrothan non è solo un paese nascosto tra le brune terre di Scozia: è un mondo perduto, l’opposto della Chicago a tempo di jazz dove il Donal di Alan Cumming ha vissuto per gli ultimi quarant’anni. Circostanze più o meno sfortunate lo portano sulla via di casa. Sta a lui riparare lo strappo che lo ha separato dal fratello Sandy (interpretato dallo stesso Cox) e da quella madrepatria che detesta con tutto se stesso per l’amore che prova per lei. Refrattario all’idea di affrontare i propri demoni, Donal vaga per le vallate confrontandosi, suo malgrado, con un passato che fa di tutto pur di tornare a galla, come un mostro lacustre di quel folklore che scorre nel suo sangue contaminato dalle influenze americane e che scalpita per uscire allo scoperto tra un bicchiere di whiskey della distilleria di famiglia e una giga nel pub del paese. A una storia che ha tutto l’aspetto di un dramma familiare si impone un tono leggero come l’aria incontaminata delle Highlands, in quella che si scopre essere una commedia molto pacata che scava nella vita dei suoi protagonisti con nostalgia e rammarico per le decisioni prese di pancia, spinti da quello spirito giovanile che scuote i percorsi esistenziali come nient’altro al mondo e che porta a prendere il percorso opposto rispetto a quello desiderato, sacrificando le proprie aspirazioni per assumersi i doveri di altri. Senza mai mettere la forma al di sopra del contenuto, Cox firma un esordio dal composto fascino gaelico che fa di tutto per arrivare al cuore dello spettatore, ma raramente riesce a superare la vera passione che esonda dalla manciata di performance musicali di Alan Cumming. Una lettera d’amore alla madrepatria abbandonata da tempo e alla quale, una volta fatti i conti con la vita, è necessario fare ritorno per tirare le somme della propria esistenza.
Homo Sapiens?, di Mariano Cohn e Gastón Duprat

Con Homo sapiens? Mariano Cohn e Gastón Duprat tornano a riflettere sul costume e sull’identità nazionale argentina, affidando a Guillermo Francella - qui volto di una classe media tanto riconoscibile quanto problematica - il compito di incarnare sedici volti dell’argentinidad contemporanea. Il film si struttura come una sequenza di brevi vignette, autonome ma attraversate dallo stesso filtro satirico: il bersaglio resta sempre l’individuo, con il suo narcisismo, la sua ossessione di status, la sua vanità. Nell’insieme, il progetto si muove più con leggerezza che con ferocia, alternando sketch riusciti ad altri puramente stereotipati. Alcune situazioni - come la vignetta del “54° piano”, che tenta di ironizzare su dinamiche di potere e coercizione sessuale - rivelano quanto la satira dei registi rischi di scivolare nell’ambiguità, restando intrappolata in uno sguardo mono-dimensionale, centrato sull’esperienza del singolo più che sulla società nel suo complesso. Ciò che ne risulta è il ritratto di un’argentinidad osservata esclusivamente dal punto di vista di chi la incarna: un maschile urbano, bianco, di classe medio-alta, autocompiaciuto, incapace di lasciar spazio ad altri sguardi o generazioni (quali una prospettiva che consideri il femminile, o le classi più povere della popolazione, a più riprese rappresentate come profittatrici). Francella è abilissimo nel passare da un registro all’altro, ma la regia si accontenta di incorniciare le sue metamorfosi senza trasformarle in un vero discorso. In bilico tra sketch-show di lusso e pamphlet sociale, Homo sapiens? a tratti diverte, a tratti ristagna, ma non raggiunge mai quella causticità necessaria per farsi autentico ritratto politico del presente.
Left-Handed Girl, di Shih-Ching Tsou

Shu-fen è da poco tornata a Taipei, insieme alle figlie Cheng I-Jing e I-Ann. Nella capitale di Taiwan si cambia nome per avere più opportunità, ma questo non interessa alla maggiore, che non vuole andare all’università. La madre invece apre un banco al mercato notturno, dove tra scadenze, debiti e affitti il tempo si misura solo per necessità. È un mondo dove gli adulti parlano, e i bambini stanno in ascolto. Shu-fen deve pagare i debiti dell’ex-marito, mentre il vicino di banco, che vende articoli casalinghi, le batte i pezzi. I-Ann lavora invece in un negozio di betel, e mantiene una relazione con il proprietario, di nascosto dalla fidanzata di lui. La piccola Cheng I-Jing è mancina, il nonno indignato le ripete che la mano sinistra lavora per il diavolo, e lei finisce per crederci - finché non impara che ciò che desidera deve prenderselo da sola. Scritto, diretto e prodotto da Shih-Ching Tsou - lo storico braccio destro di Sean Baker, con cui co-dirige Take Out (2004) - Left-Handed Girl segna il debutto registico da solista. Come il collega, così anche Tsou filma il quotidiano partendo dal basso, tra le vecchie tradizioni e un nuovo ordinario, tra il tavolo dei grandi e quello dei piccini. Il film condivide con Tangerine (2015) e The Florida Project (2017) il focus sui margini e lo sguardo delicato con cui rappresenta un’indigenza materiale che non compromette mai una ricchezza di sogni. Tra pianti silenziosi nella notte e piccoli furti quotidiani, la picaresca di una piccola e sveglia canaglia è un racconto che intreccia tre percorsi di individuazione femminile in un caleidoscopio attraverso cui analizzare i loro sentimenti. I piedi camminano, i prezzi aumentano ma i sogni per un futuro migliore rimangono gli stessi. Montato da Baker, il film alterna l’intimità del privato alla riflessione sociale. Tsou registra Taipei come un organismo pieno di luce, di mistero, di superstizioni e assurde coincidenze, e ci regala un fantastico, commuovente racconto la cui morale è che assumersi le proprie responsabilità non significa farsi carico degli altri. La piccola Cheng I-Ching ci insegna che anche il tempismo peggiore, nei disastri della vita, è un atto poetico in un mondo in continuo mutamento.
Palestine 36, di Annemarie Jacir

Yusuf abita ad al-Basma, ma ogni giorno va a Gerusalemme per lavoro. «Quando potrò venire anche io con te?» gli chiede Afra, una ragazzina del villaggio. «Quando tuo padre ti reputerà abbastanza grande» risponde lui. «Appena potrò andarmene, non tornerò più», dice lei. Nessuno vuole vivere isolato e in povertà: è per questo che i giovani palestinesi sognano la grande città. Ma all’inizio del 1936 tutto sta per cambiare, e di lì a poco i bambini non potranno più sognare. La manodopera araba viene licenziata per far posto ai profughi ebrei in arrivo dall’Europa. Nel porto di Jaffa un barile si rompe durante lo scarico, rivelando un carico d’armi diretto a Tel Aviv. I coloni appena giunti innalzano recinti, bruciano la terra e delimitano nuovi confini. C’è qualcosa in procinto di accadere, ma ancora nessuno capisce cosa. Quando però il governo britannico riconosce il diritto del popolo ebraico a fondare un proprio stato in territorio palestinese, firma la condanna alla cancellazione delle comunità che da sempre abitavano quell’area. Nessuno osa opporsi: si discute, si prende tempo. Ma a cosa serve aspettare - e soprattutto, a chi? Annemarie Jacir racconta l’alba della resistenza panaraba come il momento in cui bisogna diventare grandi, proprio perché alcuni uomini non smettono mai di essere bambini. Questo coraggioso racconto di formazione e paesaggio corale vive nella narrazione dei vinti, a cui viene tolto progressivamente tutto: il diritto di parola, di protestare, di verità. Quando il dialogo è impossibile, resta la resistenza. È questa la presa di coscienza che anima Palestine 36 e ci chiede di rimanere vigili, attenti, lucidi. Il montaggio alterna drammatizzazione e repertorio d’archivio, e smaschera l’ipocrisia della semantica assimilatoria con cui l’Occidente descrive il Medio Oriente. Dalla nascita della prima radiodiffusione in Palestina, fino agli albori della Rivolta Araba, Jacir ricostruisce una mappa delle bugie e collusioni che accompagna l’annessione delle terre palestinesi al controllo sionista sotto la tutela britannica. La regista espone le logiche e gli argomenti che regolano le dinamiche di ostilità con cui il potere silenzia chi non lo ha, e così ogni immagine si domanda cosa sia, davvero, nell’interesse di chi. Le convenzioni del thriller politico e gli stilemi del dramma storico aiutano così a tracciare una cronistoria tra scontro civile e parabola identitaria. Palestine 36 interroga lo spettatore su come e quando la resistenza debba farsi azione - perché il martirio non è sufficiente. La libertà, dunque, non come forma di eroismo, ma di persistenza. Le città crollano, ma le persone rimangono in piedi. «Sai dov’è la tua terra?» domanda Kareem mentre si prepara a ricostruire il villaggio. «È quella dove sono sepolti i tuoi antenati». Jacir non racconta una rivolta; piuttosto mostra lo sguardo attraverso cui la parola si fa verbo, e dunque, verità.
Re-Creation, di Jim Sheridan e David Merriman

È facile lasciarsi pilotare dal fascino ipotetico del cinema. Cosa sarebbe successo se questa o quella cosa fosse accaduta al posto di come le vicende si sono effettivamente dispiegate? Il tranello in cui ogni scrittore, prima o poi, si va a invischiare, finendo per creare un mondo alternativo che può essere molto pericoloso attraversare, ma anche altrettanto formativo. Perché sì, nascondersi dietro le speranze e le supposizioni non è di certo la forma più indicata per affrontare un trauma, ma può portare a un dialogo differente, capace di superare le barriere della vicenda per riversarsi nel tessuto stesso della società che l’ha alimentata. Re-Creation di Jim Sheridan e David Merriman fa proprio ciò: a partire da un fatto di cronaca nera che ha portato all’incarcerazione senza processo di Ian Bailey, giornalista accusato del brutale omicidio di Sophie Toscan du Plantier in un paesello sperduto della contea di Cork, Irlanda, gli autori si immaginano come si sarebbe potuto svolgere un giusto processo nei confronti del sospettato, andando a scavare nei rapporti investigativi, nelle documentazioni ufficiali, nelle testimonianze su cui sono riusciti a mettere mano. Si dipana così un kammerspiel anomalo, gran parte ambientato nella stanza privata dei giurati, all’interno della quale il dubbio di una donna (una Vicky Krieps che si insinua sottopelle) diventa quello di molti e il confine tra fatto e verità si fa ogni secondo sempre più labile. Quella dell’ambiente ristretto, claustrofobico, dal quale si vorrebbe uscire il più velocemente possibile, diventa anche un’occasione per mettere in scena dei personaggi che sono più di semplici individui. È il mondo in una stanza. Con gli occhi degli indagatori assetati di true-crime (perché il dolore di altri ci alimenta in modi misteriosi che sfuggono ancora oggi alla nostra completa comprensione) rimettiamo insieme i pezzi non solo di un caso chiaramente chiuso con troppa (sospetta) fretta, ma anche di un’umanità che, ogni giorno di più, fa difficoltà a vedere il grigio che ammanta la propria esistenza.
Rental Family, di Hikari

L’ordinario visto con gli occhi dell’estraneo. Una tematica, questa, che da sempre affascina le storie umane. Quando la distanza (di vedute, di interpretazioni, di confini) porta a una crisi del dialogo si crea un conflitto che affascina come pochi altri e che muove la nostra curiosità nei confronti di quello che non capiamo e che vogliamo, per questo, comprendere a ogni costo o rifiutare senza riserve. Rental Family di Hikari racconta proprio di tale “interscambio culturale”, mettendo al centro della scena un attore statunitense dimenticato (o mai ricordato) che è approdato sulle coste del Sol Levante e da lì non se n'è più andato, alla continua ricerca del prossimo “grande ruolo”. Il caso lo porta su una strada parallela che non aveva mai preso in considerazione: interpretare la parte di amici e parenti per risolvere i problemi di persone reali. Parte così un racconto che indaga cosa significa interpretare un ruolo e cosa comporta cambiare i propri panni continuamente a seconda di chi ci sta attorno. È una ricerca del sé come poche altre quella di Rental Family. Leggero e pesante come un macigno al contempo, ogni trovata di scrittura brilla di un’intensità umana con i piedi ben piantati a terra. Negli occhi di Brendan Fraser è impossibile non scrutare l’allineamento tra finzione scenica ed esperienza personale in questo personaggio dai contorni levigati, facendo risplendere una volta di più il talento di un rinnegato ritrovato della recitazione internazionale. Un uomo alla ricerca di un’identità, che non riesce a fare i conti con il passato, incapace di controllare le emozioni che rincorre da tutta la vita. Vivere nella finzione lo fa sentire completo, accettato, realizzato; un modo come un altro per anestetizzare le sue lacerazioni interne, ma è solo un palliativo che va sostituito con una cura a lungo termine, una riabilitazione della propria immagine nello specchio dell’anima. Hikari spiazza per la sua semplicità, per il modo genuino con cui inquadra queste vite “a metà”, alla ricerca della propria verità in un riflesso che sembra costantemente sfuggire loro, ma che è sempre stato lì, offuscato dalle facili bugie che hanno finito per scolpire la loro stessa percezione del sé.
The Things You Kill, di Alireza Khatami

Dopo anni passati all’estero, Ali, un professore turco, ritorna nel suo paese natale e si trova ad affrontare la morte misteriosa della madre e un rapporto irrisolto con il padre autoritario. Partendo da questa premessa, Alireza Khatami imbastisce un intenso thriller psicologico che esplora il peso della colpa e l’eredità della violenza familiare. La ricerca di verità del protagonista si trasforma presto in un viaggio interiore claustrofobico, dove il confine tra giustizia e vendetta diventa impercettibile. Per compiere questo “viaggio”, Khatami costruisce il film attraverso un potente linguaggio visivo e simbolico, il paesaggio, la luce filtrata, gli specchi e i silenzi contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa tra sogno e realtà. Il ritmo è lento ma ipnotico, e la fotografia accompagna perfettamente lo spettatore dentro il tormento interiore del protagonista. Fondamentale è anche l’apporto di Ekin Koç, che offre un’interpretazione intensa, restituendo la fragilità e la rabbia di un uomo schiacciato dal peso del passato. The Things You Kill non è un film per chi cerca un thriller lineare; la narrazione frammentata e i molteplici livelli di lettura richiedono attenzione e disponibilità a lasciarsi disorientare. Proprio questa ambiguità, però, rende il film un’opera affascinante, capace di parlare di identità, memoria e riconciliazione senza mai lasciarsi penetrare del tutto. Un lungometraggio disturbante e poetico, che lascia lo spettatore con più domande che risposte, ma anche con immagini difficili da dimenticare.
Wild Nights, Tamed Beasts, di Wang Tong

Esordio alla regia di Wang Tong, Wild Nights, Tamed Beasts si inserisce nel filone del neo-noir cinese, ma ne sposta l’asse tematico verso un terreno più intimo e perturbante: l’ansia dell’invecchiamento, la paura del decadimento fisico, l’ambiguità morale del prendersi cura dell’altro. Protagonista è una giovane badante, donna gentile ma indecifrabile, sospesa tra colpa e tenerezza; dopo la morte improvvisa di un’anziana sotto la sua custodia, viene assunta da un guardiano dello zoo per assistere il padre colpito da ictus. Da questo punto d’incrocio tra solitudine, senso di colpa, e desiderio di redenzione, il film si apre a una riflessione stratificata sulla dignità della vecchiaia e sul significato più profondo dell’atto di accudire: quando la pietà si trasforma in controllo, quando la compassione diventa pragmatismo. Wang Tong costruisce un’opera densa, magnetica, in cui la suspense psicologica si fonde con il dramma sociale e con una dimensione quasi allegorica. L’autore alterna momenti di realismo fisico a improvvise derive oniriche, ricorrendo con audacia a split screen, variazioni di formato, contrasti cromatici e passaggi allucinatori che traducono in immagini l’instabilità emotiva della protagonista. Ne risulta un mosaico di toni e registri, in bilico tra la cronaca e il sogno, tra l’atto di cura e il desiderio di fuga. Pur presentando qualche squilibrio narrativo tipico del debutto, Wild Nights, Tamed Beasts, si impone come un’opera sorprendentemente matura, capace di coniugare tensione e introspezione, estetica e morale. È un film che non si offre allo spettatore, ma lo sfida: richiede di essere attraversato, interpretato, compreso, per coglierne il delicato equilibrio, di accettarne la lentezza e il mistero.