
di Lorenzo Sartor
NC-349
20.10.2025
Dal 25 al 31 maggio 2025 si è svolta ai Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, la quindicesima edizione del Sicilia Queer FilmFest. Le immagini delle locandine del festival già sollevano interrogativi importanti: dei soldati sovietici ci guardano dritti negli occhi, ci mettono in soggezione e ci obbligano a mettere in dubbio le categorie con cui siamo soliti attribuire a uno sguardo l’etichetta “queer”.
Laddove, nel cinema degli ultimi anni, ha dominato una tendenza riduzionista che ha tentato di restringere le caratteristiche con cui definire questo tipo di sguardo - spesso ricondotto banalmente all’appartenenza dell’autore di un’opera alla stessa comunità LGBTQ+ - il lavoro portato avanti dal direttore Andrea Inzerillo e dal team di selezionatori del festival palermitano sembra invece andare in una direzione opposta, in cui la parola queer rinnega il bisogno di trovare un canone preciso e chiuso.
Delle opere che hanno composto il concorso principale sono poche quelle che rispettano le etichette tradizionali del cinema LGBTQ+. Più che nella ricerca di una forma riconoscibile, i selezionatori del concorso volevano probabilmente puntare verso film-mutaforma, queer in quanto fluidi, indifferenti all’idea di dover spuntare delle caselle per essere definiti.


Le limace et l’escargot (2024)
Ne è un esempio il film uscito vincitore, Le limace et l’escargot (2024), in cui la regista francese Anne Benhaïem racconta una delicata storia d’amore tra due anziani con disabilità, isolati dal mondo per via della loro condizione fisica. Un racconto che rende protagonisti gli ultimi, poiché il cinema queer antepone lo sguardo degli invisibili agli sguardi dominanti della società e usa il cinema come mezzo per veicolare un linguaggio, non una tesi. Per questo l’autrice riempie l’opera di dissolvenze incrociate, ellissi narrative e altri giochi stilistici che rendono l’anti-conformismo del film prima linguistico e solo poi contenutistico.
La forma queer non deve infatti conformarsi a un canone prestabilito, ma trovare il suo piacere nel cambiare continuamente davanti al nostro sguardo. Tra i film che hanno composto questa sezione del festival il titolo più emblematico di questa natura "mutaforma" è Das Schiffbruch-Triptychon (Eroglu, 2025), opera in tre atti, ognuno con una forma differente, un registro lontano dall’altro e un enigma che rifiuta l’idea di essere “risolto”. In questo teorema di ripetizioni e contraddizioni, in cui si accumulano temi comuni e dissonanze tra i tre vertici del triangolo, non è possibile trovare uno schema preciso, una soluzione al centro del labirinto. L’unica identità è la pluralità di sguardi, che si scontrano tra loro in un gesto di puro auto-sabotaggio che è di quanto più queer possa esistere.
Nel concorso del Sicilia Queer la forma stessa dei film ha sembrato propendere verso il disincontro, piuttosto che verso l’incontro tra corpi. Lo stesso Te separas mucho (Veleiro, 2024) adopera la dimensione virtuale per parlare dell’impossibilità di ricongiungere due identità che si sono separate in seguito a una rottura. La regista ripercorre i video girati durante la propria relazione, nella ricerca di una risoluzione, di un’immagine chiarificatrice che possa restituirle il senso della fine del rapporto, subendo invece una dissociazione tra la sua identità come persona singola e quella come parte della coppia. Lo sguardo queer ancora una volta non ricongiunge e non risolve nulla, ma dissocia, pluralizza e rende virtuale e liquido ciò che altri vorrebbero rendere concreto e stabile.

e separas mucho (Veleiro, 2024)
Più identità hanno convissuto anche nei film del fuori concorso, come avviene al protagonista di Queerpanorama (Jun Li, 2025), presentato al Festival del cinema di Berlino e vincitore dell’ultimo Lovers Film Festival di Torino. L’opera è un susseguirsi di (non) incontri in cui, passando da un partner sessuale all’altro, il protagonista assume di volta in volta l’identità della persona con cui finisce a letto, mutando continuamente come una tela bianca su cui viene dipinta una forma diversa. Il protagonista è pertanto frammentario, come è tale pure la città di Hong Kong, deturpata nei decenni da varie forme di colonialismo e ormai priva di una personale identità culturale. Il corpo smilzo dell’attore Jayden Cheung diventa testimone di un sistema fluido di vivere la sessualità, la quale trova nel meticcio la sua ragion d’essere, proprio perché figlio di una città dove convivono molteplici etnie, stili di vita e orientamenti sessuali.
Se già il passaggio da uno sguardo occidentale a uno orientale ci permette di comprendere quanto limitata sia la nostra percezione delle forme del cinema queer, ancor più destabilizzante è lo sguardo sulla sessualità sotto il comunismo conservatore dell’Est a cui assistiamo nei corti della retrospettiva Hominterm, curata da Călin Boto. Particolarmente interessante è il trittico composto da tre cortometraggi: Imagining October (Jarman, 1984), Moscow does not believe in Queers (Greyson, 1986) e The Fall of Communism as Seen in Gay Pornography (Jones, 1998). Già il confronto tra il primo e il secondo corto ci permette di discutere del tema dell’omosessualità in Unione Sovietica passando da un piano figurativo (quello in cui il pittore interpretato da John Watkiss dipinge una scena omoerotica tra due soldati sovietici) a uno letterale (le immagini pornografiche dal vivo girate da Greyson ) e di comprendere quanto il binarismo e la rigidità dei modelli tradizionali limiti lo sguardo dell’uomo occidentale, ma è soprattutto il terzo corto quello che mette in crisi il nostro sistema di valori.

Queerpanorama (Jun Li, 2025)
La violenza ontologica del cinema viene infatti esposta attraverso i dietro le quinte di film porno gay in cui attori dell’Est alti, virili e ariani si travestono da personaggi importanti e vendono la propria immagine per il godimento scopico dello spettatore occidentale. Gli occhi di questi ragazzi incrociano il nostro sguardo mentre la loro carne viene oggettificata e ci interrogano sul nostro ruolo di spettatori, sul senso di piacere che proviamo verso un’immagine deumanizzante. Come in Queerpanorama, filmare un corpo è un gesto politico, che lo rende vicario dei conflitti storici, delle tensioni della Guerra Fredda, della fine delle grandi ideologie del Novecento, in una dialettica tra oggetto e soggetto dello sguardo che inevitabilmente apre a nuovi modelli di visione.
Forse questo irrisolvibile conflitto tra sguardi diversi, tra identità che coesistono nello stesso corpo e tra forme che convivono nel cinema queer è superabile solo con la visione del film che chiude la retrospettiva sui registi Joaquim Pinto e Nuno Leonel: E Agora? Lembra-me (2013).
Il film è un labirinto nelle immagini disordinate che compongono la memoria di Pinto, la quale scorre fluidamente tra passato e presente, tra vita e morte. Questo processo di dissociazione continuo sembra risolversi solo quando, sul finale, lo stesso cineasta portoghese riconosce se stesso nelle immagini e in un’unità fluida e immateriale con il proprio essere. Ed è probabilmente questa l’essenza degli sguardi che ci ha offerto (e speriamo lo faccia ancora) il programma del Sicilia Queer: l’immaterialità, che trova la sua forma nel mutare continuamente pelle.

E Agora? Lembra-me (2013)
di Lorenzo Sartor
NC-349
20.10.2025

Dal 25 al 31 maggio 2025 si è svolta ai Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, la quindicesima edizione del Sicilia Queer FilmFest. Le immagini delle locandine del festival già sollevano interrogativi importanti: dei soldati sovietici ci guardano dritti negli occhi, ci mettono in soggezione e ci obbligano a mettere in dubbio le categorie con cui siamo soliti attribuire a uno sguardo l’etichetta “queer”.
Laddove, nel cinema degli ultimi anni, ha dominato una tendenza riduzionista che ha tentato di restringere le caratteristiche con cui definire questo tipo di sguardo - spesso ricondotto banalmente all’appartenenza dell’autore di un’opera alla stessa comunità LGBTQ+ - il lavoro portato avanti dal direttore Andrea Inzerillo e dal team di selezionatori del festival palermitano sembra invece andare in una direzione opposta, in cui la parola queer rinnega il bisogno di trovare un canone preciso e chiuso.
Delle opere che hanno composto il concorso principale sono poche quelle che rispettano le etichette tradizionali del cinema LGBTQ+. Più che nella ricerca di una forma riconoscibile, i selezionatori del concorso volevano probabilmente puntare verso film-mutaforma, queer in quanto fluidi, indifferenti all’idea di dover spuntare delle caselle per essere definiti.

Le limace et l’escargot (2024)
Ne è un esempio il film uscito vincitore, Le limace et l’escargot (2024), in cui la regista francese Anne Benhaïem racconta una delicata storia d’amore tra due anziani con disabilità, isolati dal mondo per via della loro condizione fisica. Un racconto che rende protagonisti gli ultimi, poiché il cinema queer antepone lo sguardo degli invisibili agli sguardi dominanti della società e usa il cinema come mezzo per veicolare un linguaggio, non una tesi. Per questo l’autrice riempie l’opera di dissolvenze incrociate, ellissi narrative e altri giochi stilistici che rendono l’anti-conformismo del film prima linguistico e solo poi contenutistico.
La forma queer non deve infatti conformarsi a un canone prestabilito, ma trovare il suo piacere nel cambiare continuamente davanti al nostro sguardo. Tra i film che hanno composto questa sezione del festival il titolo più emblematico di questa natura "mutaforma" è Das Schiffbruch-Triptychon (Eroglu, 2025), opera in tre atti, ognuno con una forma differente, un registro lontano dall’altro e un enigma che rifiuta l’idea di essere “risolto”. In questo teorema di ripetizioni e contraddizioni, in cui si accumulano temi comuni e dissonanze tra i tre vertici del triangolo, non è possibile trovare uno schema preciso, una soluzione al centro del labirinto. L’unica identità è la pluralità di sguardi, che si scontrano tra loro in un gesto di puro auto-sabotaggio che è di quanto più queer possa esistere.
Nel concorso del Sicilia Queer la forma stessa dei film ha sembrato propendere verso il disincontro, piuttosto che verso l’incontro tra corpi. Lo stesso Te separas mucho (Veleiro, 2024) adopera la dimensione virtuale per parlare dell’impossibilità di ricongiungere due identità che si sono separate in seguito a una rottura. La regista ripercorre i video girati durante la propria relazione, nella ricerca di una risoluzione, di un’immagine chiarificatrice che possa restituirle il senso della fine del rapporto, subendo invece una dissociazione tra la sua identità come persona singola e quella come parte della coppia. Lo sguardo queer ancora una volta non ricongiunge e non risolve nulla, ma dissocia, pluralizza e rende virtuale e liquido ciò che altri vorrebbero rendere concreto e stabile.

e separas mucho (Veleiro, 2024)
Più identità hanno convissuto anche nei film del fuori concorso, come avviene al protagonista di Queerpanorama (Jun Li, 2025), presentato al Festival del cinema di Berlino e vincitore dell’ultimo Lovers Film Festival di Torino. L’opera è un susseguirsi di (non) incontri in cui, passando da un partner sessuale all’altro, il protagonista assume di volta in volta l’identità della persona con cui finisce a letto, mutando continuamente come una tela bianca su cui viene dipinta una forma diversa. Il protagonista è pertanto frammentario, come è tale pure la città di Hong Kong, deturpata nei decenni da varie forme di colonialismo e ormai priva di una personale identità culturale. Il corpo smilzo dell’attore Jayden Cheung diventa testimone di un sistema fluido di vivere la sessualità, la quale trova nel meticcio la sua ragion d’essere, proprio perché figlio di una città dove convivono molteplici etnie, stili di vita e orientamenti sessuali.
Se già il passaggio da uno sguardo occidentale a uno orientale ci permette di comprendere quanto limitata sia la nostra percezione delle forme del cinema queer, ancor più destabilizzante è lo sguardo sulla sessualità sotto il comunismo conservatore dell’Est a cui assistiamo nei corti della retrospettiva Hominterm, curata da Călin Boto. Particolarmente interessante è il trittico composto da tre cortometraggi: Imagining October (Jarman, 1984), Moscow does not believe in Queers (Greyson, 1986) e The Fall of Communism as Seen in Gay Pornography (Jones, 1998). Già il confronto tra il primo e il secondo corto ci permette di discutere del tema dell’omosessualità in Unione Sovietica passando da un piano figurativo (quello in cui il pittore interpretato da John Watkiss dipinge una scena omoerotica tra due soldati sovietici) a uno letterale (le immagini pornografiche dal vivo girate da Greyson ) e di comprendere quanto il binarismo e la rigidità dei modelli tradizionali limiti lo sguardo dell’uomo occidentale, ma è soprattutto il terzo corto quello che mette in crisi il nostro sistema di valori.

Queerpanorama (Jun Li, 2025)
La violenza ontologica del cinema viene infatti esposta attraverso i dietro le quinte di film porno gay in cui attori dell’Est alti, virili e ariani si travestono da personaggi importanti e vendono la propria immagine per il godimento scopico dello spettatore occidentale. Gli occhi di questi ragazzi incrociano il nostro sguardo mentre la loro carne viene oggettificata e ci interrogano sul nostro ruolo di spettatori, sul senso di piacere che proviamo verso un’immagine deumanizzante. Come in Queerpanorama, filmare un corpo è un gesto politico, che lo rende vicario dei conflitti storici, delle tensioni della Guerra Fredda, della fine delle grandi ideologie del Novecento, in una dialettica tra oggetto e soggetto dello sguardo che inevitabilmente apre a nuovi modelli di visione.
Forse questo irrisolvibile conflitto tra sguardi diversi, tra identità che coesistono nello stesso corpo e tra forme che convivono nel cinema queer è superabile solo con la visione del film che chiude la retrospettiva sui registi Joaquim Pinto e Nuno Leonel: E Agora? Lembra-me (2013).
Il film è un labirinto nelle immagini disordinate che compongono la memoria di Pinto, la quale scorre fluidamente tra passato e presente, tra vita e morte. Questo processo di dissociazione continuo sembra risolversi solo quando, sul finale, lo stesso cineasta portoghese riconosce se stesso nelle immagini e in un’unità fluida e immateriale con il proprio essere. Ed è probabilmente questa l’essenza degli sguardi che ci ha offerto (e speriamo lo faccia ancora) il programma del Sicilia Queer: l’immaterialità, che trova la sua forma nel mutare continuamente pelle.

E Agora? Lembra-me (2013)