
di Pavel Belli Micati
NC-350
23.10.2025
Sono passati più di dodici anni dalla notte in cui Jennifer Lawrence inciampava sul palco del Dolby Theatre, mentre ritirava l’Oscar per la sua Tiffany in Silver Linings Playbook (Il lato positivo, 2012). Quella caduta, più che un incidente, sì è rivelata come manifestazione: misura della sua autenticità, della sua relatability, ma anche simbolo di quella sfacciata imperturbabilità che la contraddistingue. Questi giorni Lawrence è impegnata nel tour promozionale di Die My Love (2025), l’ultima passione di Lynne Ramsay, in anteprima italiana alla Festa del cinema di Roma nella sezione Best of 2025.
Questo insolito, curioso duo segna per l’attrice premio Oscar un ritorno più intimo che mediatico al cinema autoriale, ma rappresenta anche un’esperienza carica del peso di un’interprete che prima di ogni altra cosa è umana, spassionatamente umana. Nella sua carriera, Lawrence non ha mai smesso di interrogare il proprio corpo, di superare i propri limiti, e di risemantizzare il senso stesso della sua recitazione - ossia dare spettacolo mentre si compiono atti di coraggio disarmante. E così, dopo una breve pausa dalle scene, è tornata con una nuova, sensazionale interpretazione - perché è il sentimento a muovere le sue scelte, ed è tutt’altro che razionale.
Ogni volta che è sullo schermo Lawrence, più che brillare, sembra ardere. Non sempre indice di opere memorabili - eppure, la sua presenza è sempre garanzia di una passione pronta a nascere, consumarsi e morire per il suo pubblico. Jennifer Lawrence è una fenice, ma cos’è che la anima? Le sue scelte di carriera sono motivate da una continua rinascita, ma non nel senso di trasformazione fisica o come verifica dei poteri: a rigenerare la sua forza è il fuoco del sentimento, un istinto quasi primordiale di attraversare l’emozione come fosse materia viva. Esibito eppure dissimulato, nelle interpretazioni più memorabili della sua carriera, vi è il desiderio costante di trovare un’emozione vera, manifesta - un’intenzione e anche una tensione che lega l’ambizione alla sensibilità, la fame di esperienza alla vulnerabilità più pura. Ripercorriamo, allora, i picchi più intensi della sua carriera.

Una sequenza di Die My Love (2025)

L'conica caduta della Lawrence durante il ritiro dell'Academy Awards (2013)
Dopo un apprendistato tra sitcom, serie tv e altre apparizioni minori, il primo passo nel cinema d’autore della ragazza più famosa del Kentucky avviene con il dramma indie The Poker House (2008), scritto e diretto da Lori Petty, storico volto di Point Break (1991). Qui interpreta Agnes, la più grande di tre sorelle. In questo dramma autobiografico, già si intuisce la centralità del suo sguardo: a precedere la sua figura è quel fuoco tra dovere e amore. La Agnes di Lawrence si fa carico della sopravvivenza, fisica e affettiva, degli altri, e questo è un tema che tornerà spesso nella scelta di ruoli futuri. La sorella maggiore, la riprende in The Burning Plain (Il confine della solitudine, 2008) di Guillermo Arriaga, accanto a Kim Basinger: ancora una volta, qui, è una figlia che eredita i silenzi e le colpe materne. In questi primi lavori si definisce così il paradigma di Lawrence - donne che, per circostanze casuali, si prendono cura o degli altri o di sé, ma che nella cura trovano un dolore residuo, come se la salvezza fosse sia causa ed effetto dello stesso sentire.
Con Winter’s Bone (Un gelido inverno, 2010), di Debra Granik, arriva la consacrazione nell’olimpo delle giovani star di Hollywood. Ree Dolly è la figlia di un uomo ricercato dalla legge e di una madre tossicodipendente; vive in una comunità povera e isolata, nei monti Ozark. Lawrence qui plasma il suo personaggio come una prova di resistenza: Ree si muove nel gelo, indolente, con la calma di chi non ha nulla da perdere. Il suo corpo diventa strumento di sopravvivenza, misura del trauma. Nell’animo dolce di una che deve imparare a fare la dura, convivono la solennità di chi soffre la fame e la tenerezza di chi continua a credere nella possibilità di un tempo e spazio migliori. È da qui che nasce quella sua doppia natura - ferocia e dolcezza, controllo e istintualità, assertività e follia - che diventerà la cifra costante del suo modo, semplicemente complesso, di interpretare.
Winter’s Bone le conquista la prima candidatura all’Oscar, conducendola all’Olimpo delle attrici più giovani a essere nominate alla prestigiosa statuetta. Da quel momento in poi la sua carriera s’infiamma. Lawrence si dimostra in grado di padroneggiare anche registri diversi e In The Beaver (Mr. Beaver, 2011), terza e insolita regia per Jodie Foster, e Like Crazy (2011), romance transoceanico di Drake Doremus, mostra altre sfumature del suo talento: la vulnerabilità dell’amore non corrisposto da una parte, e di quello mistificato dall’altra. La sua Sam, innamorata di un uomo che non la ama, è dolce e disperata, piena di una dignità che il rifiuto non riesce a piegare. È qui che si definisce la qualità forse più speciale di Lawrence: la sua abilità di riprodurre la delusione senza mai scadere nel patetismo.

Winter’s Bone (Un gelido inverno, 2010)
Firmando poi la sua partecipazione alla saga di The Hunger Games (2012) diventa icona planetaria. Katniss Everdeen è un’eroina riluttante, ma anche un simbolo di solidarietà e di empatia. In lei convivono il coraggio della ribellione e la paura di crescere troppo in fretta. Lawrence riesce a far convivere la mitologia e la quotidianità, l’epica e l’intimità, dentro i suoi personaggi: un talento da grande star che resta sempre ancorato alla verità del gesto, dell’incongruenza, dell’occhiataccia.
Del 2013 è la sua performance in Silver Linings Playbook, l’inizio del sodalizio con David O. Russell che la consacrerà definitivamente come attrice versatile. Tiffany è una giovane donna in perenne oscillazione tra desiderio e autodistruzione, vulnerabilità e onestà. C’è qualcosa di così irresistibile nel modo in cui Lawrence restituisce l’ambiguità di Tiffany, la sua irriducibilità: un’ironia, quasi sfrontata, che non chiede allo spettatore empatia ma che piuttosto la provoca, co prepotenza, senza esitare. È una delle interpretazioni più emblematiche della sua carriera: la capacità di reagire con grazia alla derisione, di affrontare la vergogna con una sincerità che disarma. L’Oscar che riceve - e la caduta che lo accompagna - diventano così parte della stessa narrazione: il premio all’autenticità di chi sa essere fragile in pubblico senza mai smettere di essere fiera, indomita.
Con American Hustle (2013) e Joy (2015), prosegue la collaborazione tra Russell e Lawrence, dove la neo Premio Oscar approfondisce la dimensione del potere e della ribellione femminile. Nei personaggi di Rosalyn e Joy, due donne in bilico tra ambizione e autodeterminazione, Lawrence riesce a dare forma a una complessità che è al tempo stesso psicologica e sociale. Anche in commedie di genere, questi personaggi più elaborati e artefatti meritano un apprezzamento in quanto dimostrano la sua capacità di rendere memorabili anche performance più pop. Che siano housewives di Boston o un’imprenditrice newyorkese, le donne di Jennifer sono figure che rifiutano di essere vittime o eroine, preferendo, alla singola emozione, tutte quante semplicemente. Rabbia, vitalità, contraddizione - è su questo crinale che esercita il suo fascino.

American Hustle (2013)
Dopo il successo e l’esposizione, arriva il ruolo titolare in Mother! (2017) di Darren Aronofsky. Dal rapporto, sia lavorativo che personale, col regista di Black Swan (2010) ne risulta la sua prova più radicale: un film che usa il corpo dell’attrice come metafora della creazione e del sacrificio. In Mother! Lawrence sembra quasi non più recitare - piuttosto, arde di passione e comincia ad offrirsi come corpo e spazio simbolico. È un film che la consuma e, insieme, la riforma. Da lì in poi, la sua recitazione sarà più misurata, più interiore.
Del 2018 è Red Sparrow, il thriller d’azione dove interpreta una ballerina e spia russa - per quanto improbabile, il suo ardore riesce a infondere tepore a un personaggio tanto freddo quanto spietato. Causeway (2022), un dramma psicologico sul trauma e il risentimento, segna un ritorno intimo, quasi religioso, a quel cinema con cui Jennifer ha mosso i primi passi. Qui è una veterana di guerra alle prese con la reintegrazione nella vita civile. Il film è quasi un sussurro tra il bisogno e la paura della solitudine, e lei vi si muove con un’empatia che non ha bisogno di gesti, solo di ascolto. C’è una generosità nei suoi occhi, anche nel lutto più religioso, una luc che scalda.
Ma Lawrence è soprattutto un’attrice capace di autorionia. In Don’t Look Up (2021) di Adam McKay, la sua scienziata che scopre una cometa prossima a distruggere la Terra si fa simbolo di un’epoca che non sa più distinguere la tragedia dalla farsa, il desiderio dalla necessità, un soggetto dal suo predicato. È un ruolo ironico e disperato, dove la comicità nasce dall’impotenza. E con No Hard Feelings (2023) porta all’estremo questa vena: una commedia consapevolmente irriverente, dove si mette letteralmente a nudo per difendere il diritto a prendersi gioco di se stessa. Qui, l’autoironia è una forma di onestà: un modo per dire che anche far morire dal ridere può essere un gesto sincero.

Don’t Look Up (2021)
Due gravidanze e un matrimonio dopo, con Die My Love di Lynne Ramsay, torna a confrontarsi con l’intimismo e l’esibizione, l’introspezione e la performance. Ramsay e Lawrence condividono, oltre al segno zodiacale nello stesso elemento - il fuoco, naturalmente - la medesima etica espositiva: la regista filma il trauma come un atto puro, l’attrice lo incarna sia come un atto d’amore che di rabbia. L’incontro con la regista scozzese sembra la congiunzione tra due sguardi che non temono il dolore perché ne riconoscono la necessità, incontrollata, istintuale, viva, di rappresentarlo. È l’approdo naturale di un percorso che l’ha vista passare da figlia a madre, da sorella a moglie. Lawrence non è più un’attrice ma un’interprete, e non interpreta più ruoli: adesso dà corpo e voce solo ai sentimenti.
L’intera parabola di Lawrence riflette un’epoca storica complessa, un paradigma cinematografico che si aspetta verità emotiva dai suoi attori protagonisti, ma anche una capacità di ironizzare su se stessi attenta e sensibile. Lei, in questo campo, si può dire sia davvero la prima della classe. La sua non è proprio una rinascita, perché in Jennifer la fiamma non si è mai spenta. Così, non credo necessiti di gran clamore, perché il suo ritorno non è né un atto di riparazione né di restituzione - è l’atto, in sé, del puro e semplice sentire. Dai primi passi nell’indie d’autore, passando per il suo arco attraverso la costellazione di Hollywood, la parabola intensa e luminosa di Jennifer Lawrence dimostra che sullo schermo anche l’insolenza e la ferocia, purché sincere, possono essere una forma di talento. Qui forse risiede il suo maggior atto di coraggio.

Die My Love (2025)
di Pavel Belli Micati
NC-350
23.10.2025

Una sequenza di Die My Love (2025)
Sono passati più di dodici anni dalla notte in cui Jennifer Lawrence inciampava sul palco del Dolby Theatre, mentre ritirava l’Oscar per la sua Tiffany in Silver Linings Playbook (Il lato positivo, 2012). Quella caduta, più che un incidente, sì è rivelata come manifestazione: misura della sua autenticità, della sua relatability, ma anche simbolo di quella sfacciata imperturbabilità che la contraddistingue. Questi giorni Lawrence è impegnata nel tour promozionale di Die My Love (2025), l’ultima passione di Lynne Ramsay, in anteprima italiana alla Festa del cinema di Roma nella sezione Best of 2025.
Questo insolito, curioso duo segna per l’attrice premio Oscar un ritorno più intimo che mediatico al cinema autoriale, ma rappresenta anche un’esperienza carica del peso di un’interprete che prima di ogni altra cosa è umana, spassionatamente umana. Nella sua carriera, Lawrence non ha mai smesso di interrogare il proprio corpo, di superare i propri limiti, e di risemantizzare il senso stesso della sua recitazione - ossia dare spettacolo mentre si compiono atti di coraggio disarmante. E così, dopo una breve pausa dalle scene, è tornata con una nuova, sensazionale interpretazione - perché è il sentimento a muovere le sue scelte, ed è tutt’altro che razionale.
Ogni volta che è sullo schermo Lawrence, più che brillare, sembra ardere. Non sempre indice di opere memorabili - eppure, la sua presenza è sempre garanzia di una passione pronta a nascere, consumarsi e morire per il suo pubblico. Jennifer Lawrence è una fenice, ma cos’è che la anima? Le sue scelte di carriera sono motivate da una continua rinascita, ma non nel senso di trasformazione fisica o come verifica dei poteri: a rigenerare la sua forza è il fuoco del sentimento, un istinto quasi primordiale di attraversare l’emozione come fosse materia viva. Esibito eppure dissimulato, nelle interpretazioni più memorabili della sua carriera, vi è il desiderio costante di trovare un’emozione vera, manifesta - un’intenzione e anche una tensione che lega l’ambizione alla sensibilità, la fame di esperienza alla vulnerabilità più pura. Ripercorriamo, allora, i picchi più intensi della sua carriera.

L'conica caduta della Lawrence durante il ritiro dell'Academy Awards (2013)
Dopo un apprendistato tra sitcom, serie tv e altre apparizioni minori, il primo passo nel cinema d’autore della ragazza più famosa del Kentucky avviene con il dramma indie The Poker House (2008), scritto e diretto da Lori Petty, storico volto di Point Break (1991). Qui interpreta Agnes, la più grande di tre sorelle. In questo dramma autobiografico, già si intuisce la centralità del suo sguardo: a precedere la sua figura è quel fuoco tra dovere e amore. La Agnes di Lawrence si fa carico della sopravvivenza, fisica e affettiva, degli altri, e questo è un tema che tornerà spesso nella scelta di ruoli futuri. La sorella maggiore, la riprende in The Burning Plain (Il confine della solitudine, 2008) di Guillermo Arriaga, accanto a Kim Basinger: ancora una volta, qui, è una figlia che eredita i silenzi e le colpe materne. In questi primi lavori si definisce così il paradigma di Lawrence - donne che, per circostanze casuali, si prendono cura o degli altri o di sé, ma che nella cura trovano un dolore residuo, come se la salvezza fosse sia causa ed effetto dello stesso sentire.
Con Winter’s Bone (Un gelido inverno, 2010), di Debra Granik, arriva la consacrazione nell’olimpo delle giovani star di Hollywood. Ree Dolly è la figlia di un uomo ricercato dalla legge e di una madre tossicodipendente; vive in una comunità povera e isolata, nei monti Ozark. Lawrence qui plasma il suo personaggio come una prova di resistenza: Ree si muove nel gelo, indolente, con la calma di chi non ha nulla da perdere. Il suo corpo diventa strumento di sopravvivenza, misura del trauma. Nell’animo dolce di una che deve imparare a fare la dura, convivono la solennità di chi soffre la fame e la tenerezza di chi continua a credere nella possibilità di un tempo e spazio migliori. È da qui che nasce quella sua doppia natura - ferocia e dolcezza, controllo e istintualità, assertività e follia - che diventerà la cifra costante del suo modo, semplicemente complesso, di interpretare.
Winter’s Bone le conquista la prima candidatura all’Oscar, conducendola all’Olimpo delle attrici più giovani a essere nominate alla prestigiosa statuetta. Da quel momento in poi la sua carriera s’infiamma. Lawrence si dimostra in grado di padroneggiare anche registri diversi e In The Beaver (Mr. Beaver, 2011), terza e insolita regia per Jodie Foster, e Like Crazy (2011), romance transoceanico di Drake Doremus, mostra altre sfumature del suo talento: la vulnerabilità dell’amore non corrisposto da una parte, e di quello mistificato dall’altra. La sua Sam, innamorata di un uomo che non la ama, è dolce e disperata, piena di una dignità che il rifiuto non riesce a piegare. È qui che si definisce la qualità forse più speciale di Lawrence: la sua abilità di riprodurre la delusione senza mai scadere nel patetismo.

Winter’s Bone (Un gelido inverno, 2010)
Firmando poi la sua partecipazione alla saga di The Hunger Games (2012) diventa icona planetaria. Katniss Everdeen è un’eroina riluttante, ma anche un simbolo di solidarietà e di empatia. In lei convivono il coraggio della ribellione e la paura di crescere troppo in fretta. Lawrence riesce a far convivere la mitologia e la quotidianità, l’epica e l’intimità, dentro i suoi personaggi: un talento da grande star che resta sempre ancorato alla verità del gesto, dell’incongruenza, dell’occhiataccia.
Del 2013 è la sua performance in Silver Linings Playbook, l’inizio del sodalizio con David O. Russell che la consacrerà definitivamente come attrice versatile. Tiffany è una giovane donna in perenne oscillazione tra desiderio e autodistruzione, vulnerabilità e onestà. C’è qualcosa di così irresistibile nel modo in cui Lawrence restituisce l’ambiguità di Tiffany, la sua irriducibilità: un’ironia, quasi sfrontata, che non chiede allo spettatore empatia ma che piuttosto la provoca, co prepotenza, senza esitare. È una delle interpretazioni più emblematiche della sua carriera: la capacità di reagire con grazia alla derisione, di affrontare la vergogna con una sincerità che disarma. L’Oscar che riceve - e la caduta che lo accompagna - diventano così parte della stessa narrazione: il premio all’autenticità di chi sa essere fragile in pubblico senza mai smettere di essere fiera, indomita.
Con American Hustle (2013) e Joy (2015), prosegue la collaborazione tra Russell e Lawrence, dove la neo Premio Oscar approfondisce la dimensione del potere e della ribellione femminile. Nei personaggi di Rosalyn e Joy, due donne in bilico tra ambizione e autodeterminazione, Lawrence riesce a dare forma a una complessità che è al tempo stesso psicologica e sociale. Anche in commedie di genere, questi personaggi più elaborati e artefatti meritano un apprezzamento in quanto dimostrano la sua capacità di rendere memorabili anche performance più pop. Che siano housewives di Boston o un’imprenditrice newyorkese, le donne di Jennifer sono figure che rifiutano di essere vittime o eroine, preferendo, alla singola emozione, tutte quante semplicemente. Rabbia, vitalità, contraddizione - è su questo crinale che esercita il suo fascino.

American Hustle (2013)
Dopo il successo e l’esposizione, arriva il ruolo titolare in Mother! (2017) di Darren Aronofsky. Dal rapporto, sia lavorativo che personale, col regista di Black Swan (2010) ne risulta la sua prova più radicale: un film che usa il corpo dell’attrice come metafora della creazione e del sacrificio. In Mother! Lawrence sembra quasi non più recitare - piuttosto, arde di passione e comincia ad offrirsi come corpo e spazio simbolico. È un film che la consuma e, insieme, la riforma. Da lì in poi, la sua recitazione sarà più misurata, più interiore.
Del 2018 è Red Sparrow, il thriller d’azione dove interpreta una ballerina e spia russa - per quanto improbabile, il suo ardore riesce a infondere tepore a un personaggio tanto freddo quanto spietato. Causeway (2022), un dramma psicologico sul trauma e il risentimento, segna un ritorno intimo, quasi religioso, a quel cinema con cui Jennifer ha mosso i primi passi. Qui è una veterana di guerra alle prese con la reintegrazione nella vita civile. Il film è quasi un sussurro tra il bisogno e la paura della solitudine, e lei vi si muove con un’empatia che non ha bisogno di gesti, solo di ascolto. C’è una generosità nei suoi occhi, anche nel lutto più religioso, una luc che scalda.
Ma Lawrence è soprattutto un’attrice capace di autorionia. In Don’t Look Up (2021) di Adam McKay, la sua scienziata che scopre una cometa prossima a distruggere la Terra si fa simbolo di un’epoca che non sa più distinguere la tragedia dalla farsa, il desiderio dalla necessità, un soggetto dal suo predicato. È un ruolo ironico e disperato, dove la comicità nasce dall’impotenza. E con No Hard Feelings (2023) porta all’estremo questa vena: una commedia consapevolmente irriverente, dove si mette letteralmente a nudo per difendere il diritto a prendersi gioco di se stessa. Qui, l’autoironia è una forma di onestà: un modo per dire che anche far morire dal ridere può essere un gesto sincero.

Don’t Look Up (2021)
Due gravidanze e un matrimonio dopo, con Die My Love di Lynne Ramsay, torna a confrontarsi con l’intimismo e l’esibizione, l’introspezione e la performance. Ramsay e Lawrence condividono, oltre al segno zodiacale nello stesso elemento - il fuoco, naturalmente - la medesima etica espositiva: la regista filma il trauma come un atto puro, l’attrice lo incarna sia come un atto d’amore che di rabbia. L’incontro con la regista scozzese sembra la congiunzione tra due sguardi che non temono il dolore perché ne riconoscono la necessità, incontrollata, istintuale, viva, di rappresentarlo. È l’approdo naturale di un percorso che l’ha vista passare da figlia a madre, da sorella a moglie. Lawrence non è più un’attrice ma un’interprete, e non interpreta più ruoli: adesso dà corpo e voce solo ai sentimenti.
L’intera parabola di Lawrence riflette un’epoca storica complessa, un paradigma cinematografico che si aspetta verità emotiva dai suoi attori protagonisti, ma anche una capacità di ironizzare su se stessi attenta e sensibile. Lei, in questo campo, si può dire sia davvero la prima della classe. La sua non è proprio una rinascita, perché in Jennifer la fiamma non si è mai spenta. Così, non credo necessiti di gran clamore, perché il suo ritorno non è né un atto di riparazione né di restituzione - è l’atto, in sé, del puro e semplice sentire. Dai primi passi nell’indie d’autore, passando per il suo arco attraverso la costellazione di Hollywood, la parabola intensa e luminosa di Jennifer Lawrence dimostra che sullo schermo anche l’insolenza e la ferocia, purché sincere, possono essere una forma di talento. Qui forse risiede il suo maggior atto di coraggio.

Die My Love (2025)